IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

Quattrocento

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL QUATTROCENTO

Realismo e individualismo nel Rinascimento

Si dice: badate, che già gli scrittori e gli artisti medievali osservano la realtà viva, corporea con occhio attento; badate che anch'essi non stanno soltanto e sempre fissi nella contemplazione spirituale di Dio e dei Santi, della Madonna e dei Cherubini, ma sanno invece ritrarre con precisione talora cruda assai i particolari della vita di ogni giorno, e vi pongono sott'occhio sia il corpo umano descritto con la minuzia, anche se non ancora con la precisione, dell'anatomico, sia spettacoli ora ridenti ora orridi della natura. Badate che anch'essi si soffermano volentieri a descrivere le figure dei protagonisti della storia, indugiando anzi talora fin eccessivamente nel tratteggiare poniamo Carlo Magno o Enrico IV...
Da siffatta «curiosità» terrena derivano minute, precise, colorite descrizioni di uomini, condotte con uno scrupolo di riproduzione veristica ch'è difficile immaginare maggiore. Anzi, si ha spesso il gusto del particolare orrido, dello spaventoso: la sua più caratteristica espressione è la celeberrima «Danza macabra», raffigurazione, questa, nota a tutta Europa.
Ma tale aderenza alla realtà sensibile è ancora e sempre di carattere sensitivo, non concettuale, è tuttora immediata e non riflessa; perciò è limitata al particolare, all'episodico: se «realistico» è il particolare, non «realistica» è la concezione d'insieme, dal momento che il primo motore della vita e della storia umana è posto fuori del mondo, e i destini degli uomini sono determinati, sempre, dalla volontà di Dio. La sensibilità è «umana» e «terrena»; ma lo spirito si alimenta di una vita interiore che ha il suo centro fuori della città terrena e dell'umanità carnale.

Alcuni esempi chiariranno meglio questa affermazione. In nessun campo, forse, è più immediatamente e facilmente percepibile la differenza profonda fra i due « realismi » che nella storiografia: il cronista medievale accumula, magari, i particolari veristici e si compiace, nell'episodio, di una sgargiante vivezza di colori, di un naturalismo «fotografico», ma poi, nel guardar dall'alto il corso delle vicende umane, vede, ovunque, arbitra suprema la mano di Dio; i grandi storici fiorentini del Rinascimento si compiacciono assai meno di rifiniture veristiche, ma creano un quadro d'insieme tutto e continuamente sorretto dal senso della realtà umana, della volontà degli individui singoli che con i loro interessi e le loro passioni tessono, essi soli, la trama della storia universale. Il primo è un verismo naturalistico, puramente descrittivo, che consta di frammenti e manca, potremo dire, di prospettiva; e caratteristica del cronista o comunque scrittore medievale è precisamente l'accumulo dei minuti particolari, giustapposti...

Il realismo degli storici alla Machiavelli e Guicciardini è invece un « realismo » concettuale, che può anche trascurare il verismo di un particolare, essere meno «fotografico» , proprio perché la vivezza impressionistica di un particolare isolato ha assai minor rilievo e importanza in un quadro tutto dominato dal senso della realtà umana. E basti confrontare, per es., la descrizione di Carlomagno ch'è in Eginardo, con la descrizione di Clemente VII ch'è nella Storia d'Italia del Guicciardini: nel primo v'è lo sforzo di ritrarre il protagonista cogliendo l'uno dopo l'altro i vari aspetti della sua personalità, fisica anzitutto (è straordinaria la minuzia di Eginardo nel descrivere il corpo e l'abbigliamento di Carlomagno!), ma in pari tempo v'è l'incapacità di raggruppare le singole osservazioni in un tutto organico; nell'altro, v'è il deciso, sicuro, potente tratteggiamento della personalità del Pontefice, colto - si noti - esclusivamente nel suo carattere e nelle sue doti spirituali e morali, laddove i particolari fisici sono lasciati da parte. Qui, pertanto, è in luce tutto lo storico, la cui concezione di una vicenda determinata puramente da motivi umani è perfettamente espressa e riassunta dall'analisi dei personaggi e dei loro motivi d'azione; nel cronista medievale, invece, il ritrar le fattezze fisiche di questo o quel principe è ancora pura esteriorità, elemento decorativo e ornamentale di un edificio che è costruito da un altro, e ben più alto artefice.
Al massimo, il particolare fisico, dal realismo esteriormente descrittivo, viene assunto da un Machiavelli o un Guicciardini solo in quanto serva a completare il ritratto morale dell'uomo, solo in quanto cioè da esso si possano trarre elementi per integrare il giudizio generale sulla personalità. Eginardo, Liutprando da Cremona e gli altri, hanno descritto aspetto fisico e doti morali, senza ben connettere le une con l'altro: ed ecco invece come il Machiavelli ritrae il Duca d'Atene: «Fu questo Duca, come i governi suoi dimostrarono, avaro e crudele; nelle udienze difficile; nel rispondere superbo; voleva la servitù, non la benevolenza degli uomini; e per questo più di essere temuto che amato desiderava. Né era da esser meno odiosa la sua presenza, che si fossero i costumi; perché era piccolo, nero, aveva la barba lunga e rada; tanto che da ogni parte di essere odiato meritava...» (Istorie Fiorentine, I. II, c. XXXVII). Qui l'accenno, d'altronde assai rapido, all'esteriore fisico «piccolo, nero, barba lunga e rada» viene inserito solo in quanto, a giudizio dello storico, suggella il quadro dell'uomo morale: odioso. Siamo lontanissimi dalla minuzia esteriore di un Acerbo Morena nel descrivere Federico Barbarossa...

A risultati analoghi si perviene analizzando il «realismo» del pensiero politico medievale nei confronti del realismo d'un Machiavelli o di un Guicciardini. Anche i pubblicisti dell'età di mezzo si erano, senza dubbio, preoccupati di cogliere e additare norme che si confacessero alla vita pratica, potessero trovare applicazione concreta e riuscire «utili»: si veda ad es., come San Tommaso si preoccupi del sito stesso in cui deve sorgere una città, della salubrità dell'aria, ecc. (De Regimine Principum, I. II, c. 2).

Ma simili, assennate, pratiche osservazioni son tutt'altra cosa dal realismo d'un Machiavelli, da quel suo considerare la politica al di fuori del bene e del male, del lecito e dell'illecito, svincolando lo stato di qualsiasi presupposto e finalità di carattere etico-religioso! E come letterati e artisti del Rinascimento hanno, essi stessi, pienamente avvertito lo stacco fra il loro mondo e quello precedente, così anche il Machiavelli ha piena coscienza della sua sostanziale, formidabile «novità»: lo dice con estrema chiarezza, in quel capitolo XV del Principe dove - fu giustamente osservato - si ha veramente la sensazione di entrare in un mondo nuovo. «Ma sendo l'intento mio di scrivere cosa utile a ohi la intende, mi è parso più conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati, che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero». Questa verità effettuale consiste nel fermarsi al vivere, all'essere, rinunciando al «come si dovrebbe vivere», cioè alla ricerca del dover essere: con perfetto parallelismo alle considerazioni dello storico che sta fra gli uomini e le loro passioni, ivi ricercando le «cause» immediate degli eventi, e rinuncia a chiedere ad una volontà sopra terrena il « perché » ultimo delle cose.
Infine, anche riguardo all'arte e alle sue manifestazioni si perviene a conclusioni identiche. Anche qui altro è il particolare naturalistico e altro l'ispirazione d'insieme, altro l'aderire della «sensibilità» alla natura e alla vita terrena e altro l'aflato mistico da cui sgorga la « fede dell'artista: l'artefice medievale crea a gloria di Dio e vuole infondere nella sua opera un contenuto morale, né più né meno del cronista che scrive per ammonire gli uomini a disprezzare le incerte e labili cose terrene e ad evitar la superbia, e del poeta che nel significato allegorico vede il vero ed utile frutto della sua fatica...

L'artista del Quattrocento, invece, anche troppo consapevole del valore in sé dell'opera sua, già convinto che l'uomo è capace da sé stesso di ogni miracolo, si applicherà soltanto, secondo che detta l'Alberti, a conoscere il vero e, sulla base di precise conoscenze, a creare un'opera «bella», immortale, che gli dia gloria presso gli uomini. Paragonate precisamente l'Alberti a Teofilo: altro che far ammirare Dio nelle sue creature! «La fine della pittura» dice l'Alberti «è render gratia e benivolenzia e lode allo artefice», acquistare gloria, dunque; l'ufficio del pittore è «descrivere con linea e tignere con colori in qual sia datali tavola o parete simile vedute superfice di qualunque corpo, che quelle ad una certa distanzia ed ad una certa. posizione di centro paiano rilevate e molto simili avere i corpi» (Della Pittura, I. III, in Opere volgari, ed. Bonucci, IV, p. 73). Imitare la natura, dunque, in sé e per sé, non più in quanto in essa si rispecchia la potenza di Dio, ma in quanto essa sola può ispirare felicemente l'artista; imitarla, con scienza e precisione: ed ecco la necessità per l'artista dell'essere scienziato, di conoscere a perfezione il disegno, e bene l'anatomia, e benissimo la prospettiva. Siamo sulla via che conduce a Leonardo da Vinci; e siamo già alla completa liberazione dell'artista da ogni vincolo che non sia quello dettatogli dalla ragione artistica. Egli resta ormai solo, con sé stesso e i suoi sogni; il mondo si riduce per lui a linee e volumi e colori: come fu bene osservato, assai prima che il Machiavelli creasse l'eroe della politica, veniva fuori l'eroe dell'arte, chiuso ad ogni altra vita che non fosse quella del suo immaginare pittorico (L. VENTURI, il gusto dei primitivi, Bologna, 1926, p. 101).

Ed è qui appunto la novità essenziale del Rinascimento: il suo cosiddetto «realismo e individualismo» conduce, come nell'arte e nelle lettere, così nella scienza, nella teoria politica e nella storiografia, all'affermazione del valore autonomo, indipendente da premesse e fini metafisici, e dell'opera d'arte e della politica e della scienza e della storia, con una linea di sviluppo continua che dall'Alberti prosegue nel Machiavelli, nell'Ariosto e sbocca nel Galilei; conduce cioè allo sbriciolamento della concezione del mondo tipica del Medioevo, in cui nessuna forma di attività umana poteva essere considerata a sé, fuor del nesso con l'insieme. All'allegoria si risponde col molto noto precetto dell'arte per l'arte: e sono due mondi essenzialmente diversi.

L'arte per l'arte, la politica per la politica, la scienza per la scienza: ecco il motto in cui potrebbero essere racchiusi i risultati del pensiero italiano di tre secoli. Bartolo da Sassoferrato aveva applicato agli Stati la formula del superiorem non recognescentes, per indicare la piena autonomia degli stati stessi: questa formula potrebbe benissimo essere applicata a tutte le forme di attività culturale del Rinascimento. Ond'è che realismo e individualismo e amor della gloria e imitazione della cultura antica, nella vita medievale accettati sì, ma come particolari che servivano ad un più alto scopo, ora si pongono liberamente, come fine a sé stessi.

Federico Chabod

© 2009 - Luigi De Bellis