Realismo e
individualismo
nel Rinascimento
Si dice: badate, che già
gli scrittori e gli artisti medievali osservano la realtà
viva, corporea con occhio attento; badate che anch'essi non
stanno soltanto e sempre fissi nella contemplazione
spirituale di Dio e dei Santi, della Madonna e dei
Cherubini, ma sanno invece ritrarre con precisione talora
cruda assai i particolari della vita di ogni giorno, e vi
pongono sott'occhio sia il corpo umano descritto con la
minuzia, anche se non ancora con la precisione,
dell'anatomico, sia spettacoli ora ridenti ora orridi della
natura. Badate che anch'essi si soffermano volentieri a
descrivere le figure dei protagonisti della storia,
indugiando anzi talora fin eccessivamente nel tratteggiare
poniamo Carlo Magno o Enrico IV...
Da siffatta «curiosità» terrena derivano minute, precise,
colorite descrizioni di uomini, condotte con uno scrupolo di
riproduzione veristica ch'è difficile immaginare maggiore.
Anzi, si ha spesso il gusto del particolare orrido, dello
spaventoso: la sua più caratteristica espressione è la
celeberrima «Danza macabra», raffigurazione, questa, nota a
tutta Europa.
Ma tale aderenza alla realtà sensibile è ancora e sempre di
carattere sensitivo, non concettuale, è tuttora immediata e
non riflessa; perciò è limitata al particolare,
all'episodico: se «realistico» è il particolare, non
«realistica» è la concezione d'insieme, dal momento che il
primo motore della vita e della storia umana è posto fuori
del mondo, e i destini degli uomini sono determinati,
sempre, dalla volontà di Dio. La sensibilità è «umana» e
«terrena»; ma lo spirito si alimenta di una vita interiore
che ha il suo centro fuori della città terrena e
dell'umanità carnale.
Alcuni esempi chiariranno meglio questa affermazione. In
nessun campo, forse, è più immediatamente e facilmente
percepibile la differenza profonda fra i due « realismi »
che nella storiografia: il cronista medievale accumula,
magari, i particolari veristici e si compiace,
nell'episodio, di una sgargiante vivezza di colori, di un
naturalismo «fotografico», ma poi, nel guardar dall'alto il
corso delle vicende umane, vede, ovunque, arbitra suprema la
mano di Dio; i grandi storici fiorentini del Rinascimento si
compiacciono assai meno di rifiniture veristiche, ma creano
un quadro d'insieme tutto e continuamente sorretto dal senso
della realtà umana, della volontà degli individui singoli
che con i loro interessi e le loro passioni tessono, essi
soli, la trama della storia universale. Il primo è un
verismo naturalistico, puramente descrittivo, che consta di
frammenti e manca, potremo dire, di prospettiva; e
caratteristica del cronista o comunque scrittore medievale è
precisamente l'accumulo dei minuti particolari,
giustapposti...
Il realismo degli storici alla Machiavelli e Guicciardini è
invece un « realismo » concettuale, che può anche trascurare
il verismo di un particolare, essere meno «fotografico» ,
proprio perché la vivezza impressionistica di un particolare
isolato ha assai minor rilievo e importanza in un quadro
tutto dominato dal senso della realtà umana. E basti
confrontare, per es., la descrizione di Carlomagno ch'è in
Eginardo, con la descrizione di Clemente VII ch'è nella
Storia d'Italia del Guicciardini: nel primo v'è lo sforzo di
ritrarre il protagonista cogliendo l'uno dopo l'altro i vari
aspetti della sua personalità, fisica anzitutto (è
straordinaria la minuzia di Eginardo nel descrivere il corpo
e l'abbigliamento di Carlomagno!), ma in pari tempo v'è
l'incapacità di raggruppare le singole osservazioni in un
tutto organico; nell'altro, v'è il deciso, sicuro, potente
tratteggiamento della personalità del Pontefice, colto - si
noti - esclusivamente nel suo carattere e nelle sue doti
spirituali e morali, laddove i particolari fisici sono
lasciati da parte. Qui, pertanto, è in luce tutto lo
storico, la cui concezione di una vicenda determinata
puramente da motivi umani è perfettamente espressa e
riassunta dall'analisi dei personaggi e dei loro motivi
d'azione; nel cronista medievale, invece, il ritrar le
fattezze fisiche di questo o quel principe è ancora pura
esteriorità, elemento decorativo e ornamentale di un
edificio che è costruito da un altro, e ben più alto
artefice.
Al massimo, il particolare fisico, dal realismo
esteriormente descrittivo, viene assunto da un Machiavelli o
un Guicciardini solo in quanto serva a completare il
ritratto morale dell'uomo, solo in quanto cioè da esso si
possano trarre elementi per integrare il giudizio generale
sulla personalità. Eginardo, Liutprando da Cremona e gli
altri, hanno descritto aspetto fisico e doti morali, senza
ben connettere le une con l'altro: ed ecco invece come il
Machiavelli ritrae il Duca d'Atene: «Fu questo Duca, come i
governi suoi dimostrarono, avaro e crudele; nelle udienze
difficile; nel rispondere superbo; voleva la servitù, non la
benevolenza degli uomini; e per questo più di essere temuto
che amato desiderava. Né era da esser meno odiosa la sua
presenza, che si fossero i costumi; perché era piccolo,
nero, aveva la barba lunga e rada; tanto che da ogni parte
di essere odiato meritava...» (Istorie Fiorentine, I. II, c.
XXXVII). Qui l'accenno, d'altronde assai rapido,
all'esteriore fisico «piccolo, nero, barba lunga e rada»
viene inserito solo in quanto, a giudizio dello storico,
suggella il quadro dell'uomo morale: odioso. Siamo
lontanissimi dalla minuzia esteriore di un Acerbo Morena nel
descrivere Federico Barbarossa...
A risultati analoghi si perviene analizzando il «realismo»
del pensiero politico medievale nei confronti del realismo
d'un Machiavelli o di un Guicciardini. Anche i pubblicisti
dell'età di mezzo si erano, senza dubbio, preoccupati di
cogliere e additare norme che si confacessero alla vita
pratica, potessero trovare applicazione concreta e riuscire
«utili»: si veda ad es., come San Tommaso si preoccupi del
sito stesso in cui deve sorgere una città, della salubrità
dell'aria, ecc. (De Regimine Principum, I. II, c. 2).
Ma simili, assennate, pratiche osservazioni son tutt'altra
cosa dal realismo d'un Machiavelli, da quel suo considerare
la politica al di fuori del bene e del male, del lecito e
dell'illecito, svincolando lo stato di qualsiasi presupposto
e finalità di carattere etico-religioso! E come letterati e
artisti del Rinascimento hanno, essi stessi, pienamente
avvertito lo stacco fra il loro mondo e quello precedente,
così anche il Machiavelli ha piena coscienza della sua
sostanziale, formidabile «novità»: lo dice con estrema
chiarezza, in quel capitolo XV del Principe dove - fu
giustamente osservato - si ha veramente la sensazione di
entrare in un mondo nuovo. «Ma sendo l'intento mio di
scrivere cosa utile a ohi la intende, mi è parso più
conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa,
che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati
repubbliche e principati, che non si sono mai visti né
conosciuti essere in vero». Questa verità effettuale
consiste nel fermarsi al vivere, all'essere, rinunciando al
«come si dovrebbe vivere», cioè alla ricerca del dover
essere: con perfetto parallelismo alle considerazioni dello
storico che sta fra gli uomini e le loro passioni, ivi
ricercando le «cause» immediate degli eventi, e rinuncia a
chiedere ad una volontà sopra terrena il « perché » ultimo
delle cose.
Infine, anche riguardo all'arte e alle sue manifestazioni si
perviene a conclusioni identiche. Anche qui altro è il
particolare naturalistico e altro l'ispirazione d'insieme,
altro l'aderire della «sensibilità» alla natura e alla vita
terrena e altro l'aflato mistico da cui sgorga la « fede
dell'artista: l'artefice medievale crea a gloria di Dio e
vuole infondere nella sua opera un contenuto morale, né più
né meno del cronista che scrive per ammonire gli uomini a
disprezzare le incerte e labili cose terrene e ad evitar la
superbia, e del poeta che nel significato allegorico vede il
vero ed utile frutto della sua fatica...
L'artista del Quattrocento, invece, anche troppo consapevole
del valore in sé dell'opera sua, già convinto che l'uomo è
capace da sé stesso di ogni miracolo, si applicherà
soltanto, secondo che detta l'Alberti, a conoscere il vero
e, sulla base di precise conoscenze, a creare un'opera
«bella», immortale, che gli dia gloria presso gli uomini.
Paragonate precisamente l'Alberti a Teofilo: altro che far
ammirare Dio nelle sue creature! «La fine della pittura»
dice l'Alberti «è render gratia e benivolenzia e lode allo
artefice», acquistare gloria, dunque; l'ufficio del pittore
è «descrivere con linea e tignere con colori in qual sia
datali tavola o parete simile vedute superfice di qualunque
corpo, che quelle ad una certa distanzia ed ad una certa.
posizione di centro paiano rilevate e molto simili avere i
corpi» (Della Pittura, I. III, in Opere volgari, ed. Bonucci,
IV, p. 73). Imitare la natura, dunque, in sé e per sé, non
più in quanto in essa si rispecchia la potenza di Dio, ma in
quanto essa sola può ispirare felicemente l'artista;
imitarla, con scienza e precisione: ed ecco la necessità per
l'artista dell'essere scienziato, di conoscere a perfezione
il disegno, e bene l'anatomia, e benissimo la prospettiva.
Siamo sulla via che conduce a Leonardo da Vinci; e siamo già
alla completa liberazione dell'artista da ogni vincolo che
non sia quello dettatogli dalla ragione artistica. Egli
resta ormai solo, con sé stesso e i suoi sogni; il mondo si
riduce per lui a linee e volumi e colori: come fu bene
osservato, assai prima che il Machiavelli creasse l'eroe
della politica, veniva fuori l'eroe dell'arte, chiuso ad
ogni altra vita che non fosse quella del suo immaginare
pittorico (L. VENTURI, il gusto dei primitivi, Bologna,
1926, p. 101).
Ed è qui appunto la novità essenziale del Rinascimento: il
suo cosiddetto «realismo e individualismo» conduce, come
nell'arte e nelle lettere, così nella scienza, nella teoria
politica e nella storiografia, all'affermazione del valore
autonomo, indipendente da premesse e fini metafisici, e
dell'opera d'arte e della politica e della scienza e della
storia, con una linea di sviluppo continua che dall'Alberti
prosegue nel Machiavelli, nell'Ariosto e sbocca nel Galilei;
conduce cioè allo sbriciolamento della concezione del mondo
tipica del Medioevo, in cui nessuna forma di attività umana
poteva essere considerata a sé, fuor del nesso con
l'insieme. All'allegoria si risponde col molto noto precetto
dell'arte per l'arte: e sono due mondi essenzialmente
diversi.
L'arte per l'arte, la politica per la politica, la scienza
per la scienza: ecco il motto in cui potrebbero essere
racchiusi i risultati del pensiero italiano di tre secoli.
Bartolo da Sassoferrato aveva applicato agli Stati la
formula del superiorem non recognescentes, per indicare la
piena autonomia degli stati stessi: questa formula potrebbe
benissimo essere applicata a tutte le forme di attività
culturale del Rinascimento. Ond'è che realismo e
individualismo e amor della gloria e imitazione della
cultura antica, nella vita medievale accettati sì, ma come
particolari che servivano ad un più alto scopo, ora si
pongono liberamente, come fine a sé stessi. |