La
Commedia dell'Arte
La Commedia «dell'arte» si chiamò così, perché i suoi
attori, per la prima volta dopo un millennio e più,
erano attori «di mestiere». Nel Medioevo e oltre, salvo
i rari isolati istrioni cui s'è accennato, il Dramma
sacro aveva avuto per attori i chierici, i membri di
corporazioni artigiane, i giovanetti di apposite
compagnie costituite senza interessi di lucro, a scopo
pio; il Teatro profano, se erudito, era stato recitato
da studenti, da accademici, da gentiluomini; quello più
popolare, da dilettanti d'assortita provenienza (ancora
il Ruzzante, agiato e colto borghese, era un ameno
dilettante). Invece i comici dell'arte, costituiti in
regolari compagnie, che recitano non già occasionalmente
ma per tutto l'anno, a fine di lucro, sono veri e propri
professionisti, metodicamente addestrati al loro
ufficio. Sono dicitori e declamatori, sono mimi, sono
acrobati e giocolieri, sono cantori, sono musici, sono
ballerini; nei casi migliori, hanno anche una
preparazione culturale. I più famosi sono addirittura
scrittori e trattatisti: ricordiamo di volo Flaminio
Scala, Lelio; Francesco Andreini, Capitan Spavento; P.
M. Cecchini, Frittellino; Nicolò Barberi, Beltrame;
Domenico Biancolelli, Arlecchino; oltre al Gherardi, al
Riccoboni, ecc. (Paradossalmente, ma non senza una
parvenza di verità, Luigi Pirandello è arrivato a
sostenere che essi non erano attori i quali sapevano
scrivere, ma scrittori i quali sapevano recitare).
Quale fu la scoperta essenziale dei comici dell'arte? Fu
questa: che il pubblico, a teatro, viene attratto non
tanto dall'autore, quanto dall'attore: il quale «attore»
si chiama così, perché sulla scena quella che conta è la
cosiddetta «azione». Pertanto, di un testo scritto, ciò
che in teatro importa è lo scheletro, è l'intrigo :
ossia quella tal variazione che, lasciandola allo
sviluppo degli interpreti, l'autore ha proposto sopra
uno dei pochissimi temi, sempre gli stessi, dell'eterno
repertorio comico, affidati a un piccolissimo numero di
personaggi, sempre gli stessi.
Questi personaggi sono le «maschere»: non tanto
inventate quanto riscoperte, dai comici dell'arte, in
una tradizione due volte millenaria; tradizione non solo
delle farse (medioevali, antiche, e antichissime) ma
anche e soprattutto di quella commedia classica - attica,
latina, italiana - che i letterati avevano così spesso
diluito nella retorica della nobile veste, e che i
comici dell'arte riportavano all'estemporanea ebbrezza
della sua sostanza comica. Le primissime compagnie «
dell'arte », costituitesi in Italia circa la metà del
Cinquecento, e presto ricercate all'estero, si
componevano di non più di dieci o dodici attori, avendo
ridotto a tal numero i personaggi dell'antica Commedia:
ed erano finalmente (dopo tanti mai secoli che una
creatura femminile non si era più vista sul
palcoscenico) uomini e donne. Erano i due «vecchi»:
Pantalone, il borbottone gretto, avaro, non di rado
libidinoso, e sempre beffato; e il Dottore, caricatura
del bestione pedante. Erano gli Innamorati, in genere
non una ma più coppie (che la Commedia dell'arte,
infischiandosi di tutte le regole accademiche,
incominciò col porre da banda quella dell'unità
d'azione, adottando il doppio intreccio, o «favola
doppia» - se non tripla, quadrupla, quintupla; e col
tempo se ne conoscerà anche taluna sestupla -): giovani
e belli questo va da sé, e che perciò recitavano senza
maschera. Erano i due «zanni» o buffoni biancovestiti,
di solito servi: Brighella servo furbo e imbroglione,
che (coi suoi molti derivati) varierà il costume
mediante fregi atti a suggerire le linee d'una
fantastica livrea; e Arlecchino, servo poltrone e
sciocco, che (con la stragrande schiera dei derivati
suoi) a poco a poco disporrà geometricamente e
gradevolmente, sul suo costume, le originarie toppe
multicolori.
(E non occorre qui sostare sull'altro zanni, il più
famoso di tutti, l'unico rimasto vestito di bianco,
Pulcinella: non precisamente servo, ma esponente
generico d'una plebe rotta a tutti i mestieri e a tutte
le avventure, non escluse le più vergognose). C'erano
inoltre le servette, Corallina, Colombina, Smeraldina,
Ricciolina eccetera, destinate a contrapporre, mercé i
loro sfrontati amori, le coppie degli innamorati
ridicoli alle coppie degli innamorati nobili. C'era il
millantatore e spaccone, Capitan Spavento (e i suoi
innumeri derivati): altro erede di tipi antichissimi che
risalgono alle origini arcaiche della rappresentazione
comica. In progresso di tempo, la schiera dei
personaggi, specie secondari, aumentò, si complicò:
tuttavia l'ossatura della compagnia « dell'arte »
attraverso quasi tre secoli di vita rimase
essenzialmente identica; e le sue principali maschere,
pure passando dai più violenti e truci toni originari a
motivi d'una maggiore raffinatezza, rimasero sempre le
stesse: stilizzazioni dei motivi d'eterna comicità.
Dobbiamo qui riportare i documenti e gli esempi della
scandalosa sconcezza ond'era spessissimo tramata cotesta
comicità?
Senonché l'ammirazione tradizionale per i comici
italiani dell'arte ha puntato, sin dalle origini, non
solo sulla loro personale bravura tecnica, ma sul fatto
che tutti, dai grandissimi chiamati a recitare nelle
corti ai saltimbanchi che si producevano nelle fiere e
nelle piazze, non recitavano un testo imparato a
memoria, bensì «improvvisavano». E su questa
affermazione, indubbiamente storica, ci sarebbe tuttavia
da ridire: trattandosi d'una improvvisazione piuttosto
relativa. Anche riconoscendo la singolare e, in certi
casi, stupenda vena dell'attore, non va nascosto che
essa veniva agevolata dal fatto che quell'attore,
identificato per sempre con la sua maschera, sosteneva,
per tutta la vita, una parte sola (rari sono i casi di
attori eccellenti in due maschere diverse). A questo
scopo, ogni attore aveva il suo zibaldone col suo bravo
repertorio di lazzi, giochi scenici, motti, tirate,
«pistolotti», « concetti », disperazioni, maledizioni,
soliloqui, «spropositi», entrate e uscite, «chiusette»
addirittura in versi; e, particolarmente agli
Innamorati, «contrasti» dove specie dal Seicento in poi,
la letteratura barocca riprese decisamente il
sopravvento. Questi repertori il comico dell'arte li
mandava a memoria, per servirsene ad ogni occasione
propizia.
Dunque, non già un testo tutto scritto: bensì uno
schema, uno «scenario» sviluppato via via, dagli attori,
a loro talento; ma attori preventivamente,
minuziosamente concertati sotto la guida di un regista
accortissimo, il «coràgo». Attori improvvisati nel senso
in cui sono improvvisatori, oggi, i pagliacci nei circhi
(salvo naturalmente le ben diverse proporzioni); come lo
erano ieri, dalle pubbliche scene italiane, talvolta un
Musco, e assai più spesso un Petrolini. La cui grande
abilità consisteva appunto nel cogliere, da una
circostanza anche improvvisa, e nel piegarlo
istantaneamente alla bisogna, il motto adeguato. Ma la
cui suprema virtù fu soprattutto una tale vitalità, una
tale ingenuità d'accenti, da far l'impressione che una
rappresentazione approntata, premeditata, studiata fin
nei minimi particolari, fosse invece una creazione
estemporanea : vita vissuta e rivelata sul momento. |