L'Aretino
scrittore
C'è tanto dell'Aretino per queste terre d'Arezzo. È vero
ch'egli, figlio d'un Luca calzolaio e d'una Tita, se
n'era partito di qui ancora ragazzotto; e fu prima a
Perugia a studiare per pittore, poi a Roma a imparar la
malizia, e infine si fermò a Venezia a mettere in
pratica l'imparato e a fare e scrivere tutte le
birbanterie che scrisse e fece. Ma quanto d'Arezzo e
della natura e delle terre intorno, gli restò negli
occhi o nel cuore! Tanto che, a ricordar lui, posso ora
prendere un libro dallo scaffale, oppure dalla finestra
guardare per la costa i campetti leggieri sui
muriccioli, e più su i cipressi e più su la croce...
La casetta, appunto, e l'orto del romito. «Antonia:
Com'era fatto l'ermo? Nanna: Egli si stava suso uno
monticello rilevato, e gli aveva posto nome il Calvario;
in mezzo del quale era un crocione con tre chiodacci di
legname che impaurivano le donnicciuole, e detta croce
tenea al collo la corona di spine, e ne le braccia due
sferze pendenti, di corda annodate, e nel piede una
testa di morto e da un lato fitta in terra la spugna
sopra la canna, e dall'altro un ferro di chiaverina
rugginosa in cima di un'asta di partigiana vecchia. Dove
il monte si sedeva era un orticello al quale i rosai
facevano muricciuolo, che aveva la porticella di verghe
di salci intrecciate, con la sua chiave di legno, ed in
tutto un dì non so se si saria nel suo seno trovato un
sassolino, sì bene lo tenea mondo il romito. I quadretti
dello orto divisi da alcune belle viette erano pieni di
varie erbe, qua lattuche crespe e sode, là pimpinelle
fresche e tenere; alcuni erano di aglietti, che il
compasso non ne potria né levare né porre; altri de' più
bei cavoli del mondo. La nepitella, la menta, lo aneto,
la magiorana e 'l prezzemolo aveano anche loro il luogo
suo nel giardinetto, in mezzo del quale faceva ombra un
mandorlo di quelle grandi senza pelo. E per alcuni
viottoli correva acqua chiara... E tutto il tempo che il
romito rubava alle orazioni, spendea in nutrire
l'orticello. Poco lungi da esso sta la chiesetta, col
suo campanile di due campanelline, e la capanna
attaccata al muro della chiesa, dove riposava. In questo
paradisetto venia la Dottora...».
Che cosa accadesse poi lì alla moglie del Dottore, non
starò a dire... Ma quell'eremo, quell'orto, non è
genericamente Toscana, e non è neppure Arezzo qua e là;
(per chi conosce) quello, alle porte d'Arezzo,, è
proprio il Casentino. E se ne può dedurre qualcosa o
molto sull'Aretino: quell'appetitoso vedere, quelle
parole esatte e fresche sulle cose come una buccia, e
l'attardarsi minuto e ghiotto nel disegno che non ne
scappi nulla, e una certa come allegrezza su tutto, è
l'Aretino migliore.
Volto pagina, oppure esco d'Arezzo per un'altra porta
verso Cortona: «Una volpe delle volpi avendo voglia di
mangiare una scorpacciata di pesce se ne andò al lago di
Perugia con la maggior ladroncelleria, che si
immaginasse mai ladro, e stata così un pezzo a pensare
sopra uri greppo con la coda in pace, con quel suo muso
aguzzo in fuori e con le orecchie tese, vede venire di
pian passo una frotta di mulattieri i quali
chiaccheravano mentre i muli infilzati tutti ad una fune
rodevano una manciata di paglia postagli in quella baia
che portano intorno alla bocca...». L'Aretino non vi fa
a freddo la favola, sulla solita furbizia della volpe,
non vi parla della volpe in genere come sogliono i
favolisti, ma vi descrive e vi dice proprio di una sua
volpe, - d'una volpe, voglio dire, che lui ha visto e
che, mentre scrive, seguita a vedere, e che è una volpe
e non la volpe... E quando poi, fatto il colpo, la volpe
scappa a pancia piena gabbando i mulattieri, sembra che
l'Aretino corra via con lei, e si volti tratto tratto,
contento, a deridere i canzonati.
Questa naturalità, quando poi trapassa dall'immagine nel
discorso logico, diventa il modo franco, il tagliar
corto, insomma il piglio dell'Aretino: scrittore
estemporaneo, incolto, egli trova in quella vibrazione
la disciplina artistica (il ritmo e il limite), che
fuori di lì non ha. Fuori di certi toni, l'Aretino è
scrittore quasi insopportabile. Ed è vero che i suoi
toni sani stanno al servigio d'una maldicenza quasi
mostruosa («dire male è dire bene» fu il suo motto), o
d'una oscenità anche abnorme. È vero, ma non sempre
vero.
Talvolta, quel più naturale Aretino viene e resta in lui
in primo piano. Con un po' d'industria, da tutta l'opera
sua, ma specie dalle Lettere, si potrebbe cavare un
trattatello del vivere sereno. Quella a Sebastiano del
Piombo, dove gli dice la gioia d'aver avuto una
figliolina («in quel punto sentii tutte le dolcezze del
sangue»), è la più nota; ma altre ce n'è che ritrattano
un Aretino savio, e fedele, anche nel fasto, ad una sua
rusticità. Meglio il verno che l'estate: «Il verno mi
pare uno abbate, che galleggia a sommo nel commodo degli
agi..., la state è simile a una meretrice ricca e nobile
che svogliata si gitta là... E altro cicalamento si fa
intorno ad un buon fuoco, che a l'ombra d'un bel faggio:
Perché mille cortigianerie appetisce l'ombra: ella vole
il canto degli uccelli, il mormorio dell'acque, il
respirar del vento, la freschezza de l'erbe e simili
ciancette: ma quattro legne secche hanno tutte le
circunstanze che bisognano nel chiaccherare di quattro o
cinque ore con le castagne sul tondo e il vin tra le
gambe. Sì che amiamo il verno, primavera degli ingegni».
Che bello scrivere!. |