L'ARISTODEMO DEL DOTTORI
Il Dottori è giunto a una
maturità letteraria e morale dal di dentro dei miti della
sua età, dal di dentro del gusto secentesco. Le sue
passioni, che erano quelle puntigliose e superbe di un
rissoso gentiluomo, si sono venute affinando attraverso la
retorica. È stato il vagheggiamento letterario di vari
squisiti sentimenti che ha irrobustito in lui la forza del
cuore, ha nutrito le sue passioni in una evoluzione che da
un incontro ancor acerbo tra slanci biografici e facili
schemi idealistico-eroici, quale quello dell'Alfenore, è
giunta alla commozione più limpida e sincera dell'episodio
di Desmanina. Anche l'esperienza di vita reale più
educatrice della sua moralità, la ribellione contro la
violenza dei bravi, ha avuto bisogno per esprimersi
dell'appoggio di miti letterari, l'antica gloria padovana da
un lato (il giudice Peto Trasea), la virtù dei padroni
dall'altro. L'umanità del Dottori è stata conquistata
insomma nella letteratura e con questo carattere passa
nell'Aristodemo. Non è possibile perciò gustare quella
poesia se non accettando l'impalcatura oratoria su cui essa
si regge.
È stato questo il più grosso limite alla fortuna critica
dell'Aristodemo: dalle proteste del Martello per la voluta
concettosa dei dialoghi sino all'incomprensione del Bertana
che s'infastidiva degli alti discorsi di Merope, è stata
l'avversione pratica, di gusto, dei vari critici per il
mondo stilistico e sentimentale attraverso cui si manifesta
la poesia della tragedia, a impedire un pieno riconoscimento
dei valori estetici da essa raggiunti.
Guai infatti a voler ridurre a una elementare vita affettiva
i personaggi dell'Aristodemo senza tener conto del
patrimonio oratorio di cui - ci piaccia o no - questa vita
affettiva si alimenta; guai a pretendere per esempio (come
faceva il Bertana) di riconoscere in Merope « una semplice
fanciulla innamorata ». Merope non è né può essere una
«semplice fanciulla». È una complessa figura morale che
raggiunge nei momenti suoi più intensi accenti di semplicità
a conclusione di una lunga dialettica tutta intessuta di
raffinati miti sentimentali e non per un immediato slancio
passionale, alla stessa maniera che il suo creatore ha
raggiunto la pienezza affettiva dell'Aristodemo non in una
solitaria esplosione lirica, ma a conclusione di una lunga
educazione letteraria.
E per comprendere a pieno quella conquistata semplicità
bisogna ripercorrere il processo che in essa si conclude e
che le crea intorno come un armonico spazio vibrante.
Proprio le parole di Policare («e fin tanto ch'io sono uomo
e non ombra - piango le cose umanamente amate»), che più
d'ogni altra nell'Aristodemo piacevano al Bertana, non sono
pienamente gustabili nella loro accorata intensità (che li
fa qualche cosa di ben più vivo che un'isolata nobile
massima) se non riportate nel dialogo nutrito di ingegnosa e
commossa casistica d'amore (e a suo modo, come rimproverava
il Bertana, di «filosofia stoica», di «raffinata retorica»,
di «patetica letteratura tragica»), da cui nascono, di cui
sono il culmine e della cui troppo sottile elevatezza
rappresentano insieme - con la loro difesa dell'umanità -
una correzione, quasi a simbolo della più generale capacità
correttiva della poesia nei riguardi dell'oratoria da cui
sorge.
L'Aristodemo, per la sua origine, per la sua indelebile
impronta seicentesca, richiede insomma al lettore non un
gretto interesse per una immediata concretezza psicologica,
ma un'esaltazione per un mondo di eletti ideali (contro i
quali più che contro le immediate passioni urta la violenza
della catastrofe).
Se si vuole infatti cogliere veramente il ritmo fondamentale
della mossa struttura della tragedia, non basta sottolineare
(ondeggiare della «malsicura speme» nella lunga lotta con la
morte che guida le azioni e le parole dei personaggi. Se
così fosse, a rigor di termini il linguaggio risentito della
tragedia sarebbe come un'aggiunta a un contenuto (l'ansia di
fronte alla morte) abbastanza lineare e quindi in qualche
modo sarebbero validi i rimproveri dei vecchi critici alle
forme «troppo liriche», non linearmente drammatiche, del
Dottori. Ma così in realtà non è.
In realtà invece i personaggi della tragedia, animati da
vari desideri, lottano sì («con malsicura speme», come ha
visto il Lo Priore) contro le oscure forze minacciose che ai
loro desideri si oppongono, ma in questa tensione non si
esaurisce il loro dramma. Di là dai loro desideri, di là
dall'amore di Policare, dalla volontà di sacrificio di
Merope, di potere di Aristodemo, è nelle figure della
tragedia una comune aspirazione a muoversi su un piano
eletto ed eroico, a rapprendere i loro slanci affettuosi in
gesti ideali; di là da un dramma genericamente umano, che
nella particolare poesia del Dottori, sarebbe incapace di
esprimersi, è un dramma tipicamente seicentesco, il dramma
dell'alterezza, dell'aspirazione all'eroismo, che è il solo
a muover profondamente la moralità dello scrittore, nutrita
di retorica seicentesca.
Policare soffre, più che per il suo desiderio deluso, per il
suo sforzo frustrato di esser degno di Merope, di riscattare
l'umanità più normale del suo sentire nell'eroico rifiuto
della rassegnazione; e Merope vuole sacrificarsi ma vuole
nel sacrificio esser pari all'alta immagine che ha di sé,
degna della sacralità che la morte le ha circonfuso intorno;
e Aristodemo stesso può in qualche modo non sentirsi del
tutto sconfitto quando la meta della sua passione sembra
sfuggirgli purché egli resti in una sfera di eroico sentire
(«Di chi sarò, non sarò vile. È degno - di tanta gara
Aristodemo o giusto - o scelerato purché invitto e grande»).
Il vagheggiamento oratorio di magnanimi sentimenti è quindi
l'anima dei personaggi, non una loro marginale qualità e di
esso le forme risentite sono la naturale risultante
stilistica.
Proprio per questo Merope è la più alta delle invenzioni del
Dottori; perché il desiderio che la fa vibrare (la volontà
di sacrificio) è, anche nel suo iniziale contenuto
psicologico, un sentimento già tutto eroico e a suo modo
oratorio, è già tutto atteggiato all'esaltazione concettosa
in cui si svolgerà nella concreta pagina del Dottori.
Proprio per questo la figura più incerta è Aristodemo che ha
delle componenti psicologiche (il calcolo politico accanto
alla sete di gloria) non riassorbibili nella raffinata
elevatezza in cui soltanto il Dottori si muove sicuro e in
cui é anche il principale limite della sua voce di poeta.
Sarebbe un limite, oltre che di capacità d'invenzione
fantastica, anche di umanità, se di quest'esaltazione eroica
il Dottori rappresentasse solo gli slanci (fosse cioè fermo
nella morte vittoriosa di Desmanina) e non l'amara
sconfitta, nella quale le ragioni di una più media umanità
dolorante hanno il sopravvento alla conclusione di un'inarcatura
di eroismo barocca che è però essenziale alla loro vera resa
poetica. In questo senso, l'Aristodemo, come è la
celebrazione dell'amore barocco per il gran gesto (e ne ha
il colorito linguaggio), così è anche il suo superamento (e
non può dirsi perciò interamente un'opera secentistica); è
la poesia dell'alterezza fondamentale dell'animo risentito
dello scrittore e insieme la poesia della crisi di quell'alterezza.
Il Dottori è per questa sua complessità non tanto vicino
alla monocorde letteratura barocca, alla monocorde voluttà e
arguzia dei marinisti, o magari alla monocorde austerità
dell'ultimo Tasso e del Della Valle, quanto proprio alla
poesia del Tasso maggiore, in cui si indicavano nuovi slanci
sentimentali e in cui insieme se ne consumava la patetica
sconfitta. C'è però di mezzo l'esperienza esteriorizzatrice
delle tensioni tutte svolte del Seicento; i due poli non
sono più come nel Tasso fortemente vicini (il sogno che
sorge, il sogno che sfuma) e capaci d'animare se non
l'intero poema almeno nuclei poetici molto limpidi e
compatti; nel percorso più ampio e men raccolto e sfumato,
più dispersivo, cui si salda la poesia del Dottori,
s'accumula perciò una serie ben più ingombrante di scorie
oratorie, che non impediscono il raggiungimento di pieni
risultati (sicché aveva ragione il Croce a protestare contro
una inutile e ingenerosa attenzione ai « difetti »
dell'Aristodemo), anzi spesso creano - come già accadeva
nelle parti solo letterarie della Gerusalemme - lo spazio in
cui le pagine più alte della tragedia acquistano la loro
luce migliore. Le scorie oratorie tuttavia sono pur sempre
il segno, rispetto al Tasso d'una minore ricchezza culturale
e anche d'una minore forza fantastica ed offrono perciò la
chiave per la giustificazione storica della difficile
fortuna di questa bellezza così faticosamente conquistata
dentro alle ricerche, altrove così sterili, della
letteratura barocca. |