Arcadia e
razionalismo
Entrando nel nostro assunto proprio che è di discorrere,
come si è detto, dell'Arcadia nella sua storica realtà,
quale significato e importanza - è da domandare
anzitutto - ebbe essa nella vita civile, così letteraria
come morale? E la risposta è qui già pronta e
universalmente consentita: che l'Arcadia fu la reazione
contro il barocchismo, il quale aveva imperversato per
oltre un secolo nella letteratura e nel costume italiano
e al quale pose fine mercè di una unione di tutti
gl'ingegni ben disposti dall'uno all'altro capo
d'Italia, promuovendo e diffondendo, contro il culto del
«sorprendente», coi suoi artifiziosi e vuoti rapporti
d'immagini e con le sue tumidezze, la seria e pacata
espressione degli affetti e dei pensieri; né di questa
sua opera si negano la legittimità e i buoni effetti
ottenuti. Senonché, nel convenire con ciò, troppo si
rimane chiusi nel caso particolare dell'Italia e non si
dà il necessario rilievo al moto generale ed europeo,
del quale l'opera dell'Arcadia in Italia fu una delle
manifestazioni ed attuazioni. Quel moto intellettuale
era il razionalismo, che nel corso del secolo
decimosettimo aveva preso man mano la direzione della
cultura europea fuori d'Italia, cioè in Francia e in
Inghilterra, e rifluiva ora in Italia, che già l'aveva
preparato negli splendori dell'umanismo e del
rinascimento e gli aveva dato precursori e iniziatori
nei suoi esuli per causa di fede, apostoli di religione
naturale e di diritto naturale, ma era poi soggiaciuta
all'oppressione dell'assolutismo e della Controriforma.
E il razionalismo, di cui la prima grande affermazione
nella sfera speculativa fu la filosofia cartesiana,
praticamente portava con sé, con la guerra contro quanto
sopravviveva di concetti e istituti e costumi medievali,
le riforme in ogni parte della vita secondo i bisogni
della nuova età che si era iniziata, le quali, appunto
per questa rispondenza, si ponevano come razionali
contro il passato che, in quella luce, prendeva aspetto
d'irrazionale. E che cosa era il barocchismo, dominante
in Italia, in Ispagna e in Germania, ma sparso
dappertutto, in Europa, e altresì in Francia e in
Inghilterra, se non la sopravvivenza esasperata di
quella artifiziosità e convenzionalità che piacque al
medioevo, al quale, considerato barbarico, troppo si è
attribuito di spontaneità e di schiettezza dimenticando
che i barbari amano altresì di sopraccaricarsi di
ornamenti e si lasciano attirare dai pezzetti di vetro
multicolori e scintillanti? Uni linea continuativa va
dal provenzalismo e dal petrarchismo al marinismo e
concettismo del barocco, contro cui si volgeva il
razionalismo della semplice, ordinata e limpida forma
letteraria; e in ciò concorse con l'opera sua l'Arcadia,
che consapevole o no (ma non pochi tra i suoi seguaci ne
erano consapevoli), fu alunna di Cartesio e inaugurò per
la sua parte l'età moderna, più risolutamente che non
fosse accaduto nell'umanesimo e nella riforma evangelica
e con un'energia che, non patì fermate e deviazioni. Per
l'Italia, il razionalismo che si manifestava
letterariamente nell'Arcadia, segnò qualcosa di più
profondamente benefico che non per la Francia e
l'Inghilterra, dove era continuazione e intensificazione
di progresso civile, laddove in Italia, dopo cento e più
anni di controriforma, di gesuitismo, di rinunzia alla
vita pubblica, essa fu la crisi della decadenza e il
principio del risorgimento nazionale: risorgimento che
cominciò a manifestarsi, come nella riforma letteraria
così nelle dottrine giuridiche ed economiche, nel mutato
atteggiamento dello Stato verso la Chiesa, nella
legislazione civile, nella classe colta che venne
chiamata a posti di governo, riservati per l'innanzi
quasi esclusivamente ai ceti aristocratici privilegiati.
Questo fervore di nuova vita non era generato
dall'Arcadia, ma bene nasceva con lei dalla medesima
genitrice, e per questa affinità delle varie cerchie in
cui si moveva la vita civile, nei ritrovi arcadici
convenne unicamente, come ho già ricordato, tutta la più
intelligente e operosa società del tempo. E vi
appartenne - per non dir d'altri - Giambattista Vico col
nome di Eufilo Terio, e vi entrò sorridente, in Roma,
nel gennaio del 1787, Volfango Goethe, che i letterati
d'Italia già ammiravano autore del Werther, dappertutto
letto appassionatamente, e vi fu onorato, poiché era
grande, col nome di Megalio e, poiché i suoi possessi
erano nel dominio dell'alta poesia, con l'aggiunta di
Melpomenio; ed arcade era, in compagnia di altri
patrioti napoletani del 1799, l'eroina Eleonora de
Fonseca Pimentel, col nome di Altidora Esperetusa...
Or perché mai, se le cose sono quali le abbiamo
definite, contro l'Arcadia c'è stato e c'è ancora il
dispregio e il disdegno, attestato dal comune uso
peggiorativo del suo nome? Qual è il motivo giustificato
(perché un motivo ci dev'essere, con la sua parziale
giustificazione) in questo che è anch'esso un fatto
storico e bisogna intenderlo e, rettamente intendendolo,
accettarlo? Ebbene, l'Arcadia, che fece correre per
l'Italia rivoli e fiumi di versi, appunto per questo è
diventata il simbolo della mancanza di poesia, dei versi
che non sono poesia, che alla poesia si sostituiscono e
ne mentiscono l'apparenza; e per naturale conseguenza è
accaduto che sia stata presa in fastidio e dileggiata e
deprecata da chi, ponendosi dal lato della poesia
genuina, guarda a lei, che gli appare una miserevole
vanità, tanto più insopportabile quanto più dilagante.
E non c'è niente da replicare a questo, che è un fatto
indubitabile. L'Arcadia non creò poesia o certamente non
produsse nessun poeta di quelli che per la loro potenza
e la loro complessità si suol chiamare grandi. Ma ben
c'è da integrare la verità. del fatto enunciato e da
determinare il giudizio da farne. L'Arcadia nacque e
fiorì nell'età del razionalismo, sua manifestazione e
suo strumento; e la sterilità di vera poesia, e
l'abbondanza in suo luogo di versi rivolti ad altri non
poetici fini, furono dell'Arcadia, perché furono di
quell'età, che ebbe da ciò uno dei limiti nel suo grande
progresso, essendo ogni età e ogni moto storico
storicamente limitato al pari di ogni singola opera
umana, sempre particolare e nel suo atto escludente un
atto diverso, e, in breve, una determinatio alla quale
corrisponde, inevitabile, una negatio.
La ragione, instaurata regina, vuol dire dissolvimento
dei miti, la ribellione contro tutto quanto si trova
asserito in virtù di una forza che non è la forza del
raziocinio ma quella d'inerzia delle credenze
tradizionali o quella di un'autorità imposta
dall'esterno, il riportamento perpetuo alla critica che
il pensiero esercita, il rifiuto di ogni rivelazione che
non sia del pensiero a sé stesso, di ogni fede che non
si sia convertita in intelletto. Ma in ciò stesso,
l'intelletto, la ragione raziocinante, ha il suo limite,
perché, se essa di continuo accompagna e rischiara, non
può ingenerare le altre forze di cui s'intesse la vita:
non l'opera morale che sola l'ispirazione morale
liberamente crea; non l'opera della poesia, che,
vincendo amore e dolore, si riposa nella serenità della
bellezza; e neppure, per parlare con rigore, l'opera
della filosofia, che non è semplice raziocinio ma
richiede la virtù speculativa che sola coglie, pone e
risolve i problemi dello spirito, una virtù non identica
ma certamente sorella a quella del poeta. In effetto, il
secolo che seguì al trionfo del razionalismo, inteso
tutto a questo, poetico non fu e neppure veramente
filosofico, com'è noto dal carattere sensistico,
materialistico, empiristico di quel pensiero che allora
tenne il luogo della filosofia, e dall'edonismo e
utilitarismo della sua etica, e dallo stesso abuso che
della parola «filosofia» si fece, dandola a ogni sorta
di piccole e superficiali riflessioni su ogni sorta di
cose. Fu invece, quel secolo, grandemente matematico e
fisico, e naturalisticamente trattò anche le scienze
morali per ricavarne i precetti e le formule che gli
occorrevano per le riforme da proporre politiche e
sociali; donde la taccia d'irreligioso che fu data al
suo razionalismo, donde anche l'altra di antistorico, e
di scettico e irriverente verso l'epos e la tragedia che
è la storia dell'umanità. Di questo carattere del secolo
si avvide, ai suoi inizi, il Vico, che ne delineò sotto
l'aspetto negativo il necessario corso ulteriore, che
realmente poi percorse, indirizzato non
all'approfondimento ma alla divulgazione delle
conoscenze, alla compilazione di dizionari ed
enciclopedie, impoetico, matematizzante e per
l'astrazione lasciantesi sfuggire la concretezza; e
invano egli procurò di richiamarlo all'indagine e alla
meditazione della storia, che essa, e non l'esterna
natura, è il vero regnum hominis. Solo sullo scorcio del
secolo lo spirito speculativo si riscosse, simile al
forte inebriato, col Kant, che sottomise a critica la
scienza fisico-matematica e rese chiara l'inettezza
della logica intellettualistica nei grandi problemi
della realtà, e restaurò contro l'utilitarismo la
coscienza morale e contro l'edonismo estetico quella
della spirituale bellezza...
Ma questa distinzione - si domanderà - tra poesia
genuina e poesia settecentesca o intellettualistica è
rigida ed assoluta? Non ci furono in questi due secoli
dopo il Tasso, in Italia, voci di poesia? Assoluto e
rigido è sempre e solamente il criterio del giudizio,
senza di che non si potrebbe pensare; ma i fatti, cioè
la storia, è varia e sinuosa e niente di ciò che è
essenziale nell'animo umano vi è mai, in ogni sua parte,
del tutto assente. E perciò anche lungo il secolo
dell'Arcadia si udirono talora più o meno forti accenti
poetici, e si risentirono quelli antichi, sebbene la
grande poesia come in Germania dové aspettare Volfango
Goethe e in Francia Alfredo de Vigny, in Italia non
riapparve se non con Alfieri e con Foscolo, e
l'intelligenza della poesia rinacque veramente
attraverso il romanticismo. Raccogliere quegli accenti
poetici, rari che fossero, è dovere di noi critici; e,
per la mia piccola parte, io non ho mancato di
adempierlo, ritrovandone, per esempio, non solo nel
Metastasio, ma nel Rolli e nel Vittorelli e in Tommaso
Crudeli, e nel Manfredi, e finanche nel «lezioso», nel
«galante», nell'«inzuccheratissimo» Zappi, che il
Baretti così vituperò e che pure ha cose da riconoscere
francamente belle; e dando rilievo altresì al fatto che
in Italia, più che altrove, si ebbero allora sparsi
oppositori, educati nella classicità, che non
tolleravano la poesia leggera e la poesia senza immagini
e senza fantasia e le contrapponevano l'antica greca,
latina e italiana. |