IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

SEICENTO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL SEICENTO

Arcadia e razionalismo

Entrando nel nostro assunto proprio che è di discorrere, come si è detto, dell'Arcadia nella sua storica realtà, quale significato e importanza - è da domandare anzitutto - ebbe essa nella vita civile, così letteraria come morale? E la risposta è qui già pronta e universalmente consentita: che l'Arcadia fu la reazione contro il barocchismo, il quale aveva imperversato per oltre un secolo nella letteratura e nel costume italiano e al quale pose fine mercè di una unione di tutti gl'ingegni ben disposti dall'uno all'altro capo d'Italia, promuovendo e diffondendo, contro il culto del «sorprendente», coi suoi artifiziosi e vuoti rapporti d'immagini e con le sue tumidezze, la seria e pacata espressione degli affetti e dei pensieri; né di questa sua opera si negano la legittimità e i buoni effetti ottenuti. Senonché, nel convenire con ciò, troppo si rimane chiusi nel caso particolare dell'Italia e non si dà il necessario rilievo al moto generale ed europeo, del quale l'opera dell'Arcadia in Italia fu una delle manifestazioni ed attuazioni. Quel moto intellettuale era il razionalismo, che nel corso del secolo decimosettimo aveva preso man mano la direzione della cultura europea fuori d'Italia, cioè in Francia e in Inghilterra, e rifluiva ora in Italia, che già l'aveva preparato negli splendori dell'umanismo e del rinascimento e gli aveva dato precursori e iniziatori nei suoi esuli per causa di fede, apostoli di religione naturale e di diritto naturale, ma era poi soggiaciuta all'oppressione dell'assolutismo e della Controriforma. E il razionalismo, di cui la prima grande affermazione nella sfera speculativa fu la filosofia cartesiana, praticamente portava con sé, con la guerra contro quanto sopravviveva di concetti e istituti e costumi medievali, le riforme in ogni parte della vita secondo i bisogni della nuova età che si era iniziata, le quali, appunto per questa rispondenza, si ponevano come razionali contro il passato che, in quella luce, prendeva aspetto d'irrazionale. E che cosa era il barocchismo, dominante in Italia, in Ispagna e in Germania, ma sparso dappertutto, in Europa, e altresì in Francia e in Inghilterra, se non la sopravvivenza esasperata di quella artifiziosità e convenzionalità che piacque al medioevo, al quale, considerato barbarico, troppo si è attribuito di spontaneità e di schiettezza dimenticando che i barbari amano altresì di sopraccaricarsi di ornamenti e si lasciano attirare dai pezzetti di vetro multicolori e scintillanti? Uni linea continuativa va dal provenzalismo e dal petrarchismo al marinismo e concettismo del barocco, contro cui si volgeva il razionalismo della semplice, ordinata e limpida forma letteraria; e in ciò concorse con l'opera sua l'Arcadia, che consapevole o no (ma non pochi tra i suoi seguaci ne erano consapevoli), fu alunna di Cartesio e inaugurò per la sua parte l'età moderna, più risolutamente che non fosse accaduto nell'umanesimo e nella riforma evangelica e con un'energia che, non patì fermate e deviazioni. Per l'Italia, il razionalismo che si manifestava letterariamente nell'Arcadia, segnò qualcosa di più profondamente benefico che non per la Francia e l'Inghilterra, dove era continuazione e intensificazione di progresso civile, laddove in Italia, dopo cento e più anni di controriforma, di gesuitismo, di rinunzia alla vita pubblica, essa fu la crisi della decadenza e il principio del risorgimento nazionale: risorgimento che cominciò a manifestarsi, come nella riforma letteraria così nelle dottrine giuridiche ed economiche, nel mutato atteggiamento dello Stato verso la Chiesa, nella legislazione civile, nella classe colta che venne chiamata a posti di governo, riservati per l'innanzi quasi esclusivamente ai ceti aristocratici privilegiati. Questo fervore di nuova vita non era generato dall'Arcadia, ma bene nasceva con lei dalla medesima genitrice, e per questa affinità delle varie cerchie in cui si moveva la vita civile, nei ritrovi arcadici convenne unicamente, come ho già ricordato, tutta la più intelligente e operosa società del tempo. E vi appartenne - per non dir d'altri - Giambattista Vico col nome di Eufilo Terio, e vi entrò sorridente, in Roma, nel gennaio del 1787, Volfango Goethe, che i letterati d'Italia già ammiravano autore del Werther, dappertutto letto appassionatamente, e vi fu onorato, poiché era grande, col nome di Megalio e, poiché i suoi possessi erano nel dominio dell'alta poesia, con l'aggiunta di Melpomenio; ed arcade era, in compagnia di altri patrioti napoletani del 1799, l'eroina Eleonora de Fonseca Pimentel, col nome di Altidora Esperetusa...

Or perché mai, se le cose sono quali le abbiamo definite, contro l'Arcadia c'è stato e c'è ancora il dispregio e il disdegno, attestato dal comune uso peggiorativo del suo nome? Qual è il motivo giustificato (perché un motivo ci dev'essere, con la sua parziale giustificazione) in questo che è anch'esso un fatto storico e bisogna intenderlo e, rettamente intendendolo, accettarlo? Ebbene, l'Arcadia, che fece correre per l'Italia rivoli e fiumi di versi, appunto per questo è diventata il simbolo della mancanza di poesia, dei versi che non sono poesia, che alla poesia si sostituiscono e ne mentiscono l'apparenza; e per naturale conseguenza è accaduto che sia stata presa in fastidio e dileggiata e deprecata da chi, ponendosi dal lato della poesia genuina, guarda a lei, che gli appare una miserevole vanità, tanto più insopportabile quanto più dilagante.
E non c'è niente da replicare a questo, che è un fatto indubitabile. L'Arcadia non creò poesia o certamente non produsse nessun poeta di quelli che per la loro potenza e la loro complessità si suol chiamare grandi. Ma ben c'è da integrare la verità. del fatto enunciato e da determinare il giudizio da farne. L'Arcadia nacque e fiorì nell'età del razionalismo, sua manifestazione e suo strumento; e la sterilità di vera poesia, e l'abbondanza in suo luogo di versi rivolti ad altri non poetici fini, furono dell'Arcadia, perché furono di quell'età, che ebbe da ciò uno dei limiti nel suo grande progresso, essendo ogni età e ogni moto storico storicamente limitato al pari di ogni singola opera umana, sempre particolare e nel suo atto escludente un atto diverso, e, in breve, una determinatio alla quale corrisponde, inevitabile, una negatio.

La ragione, instaurata regina, vuol dire dissolvimento dei miti, la ribellione contro tutto quanto si trova asserito in virtù di una forza che non è la forza del raziocinio ma quella d'inerzia delle credenze tradizionali o quella di un'autorità imposta dall'esterno, il riportamento perpetuo alla critica che il pensiero esercita, il rifiuto di ogni rivelazione che non sia del pensiero a sé stesso, di ogni fede che non si sia convertita in intelletto. Ma in ciò stesso, l'intelletto, la ragione raziocinante, ha il suo limite, perché, se essa di continuo accompagna e rischiara, non può ingenerare le altre forze di cui s'intesse la vita: non l'opera morale che sola l'ispirazione morale liberamente crea; non l'opera della poesia, che, vincendo amore e dolore, si riposa nella serenità della bellezza; e neppure, per parlare con rigore, l'opera della filosofia, che non è semplice raziocinio ma richiede la virtù speculativa che sola coglie, pone e risolve i problemi dello spirito, una virtù non identica ma certamente sorella a quella del poeta. In effetto, il secolo che seguì al trionfo del razionalismo, inteso tutto a questo, poetico non fu e neppure veramente filosofico, com'è noto dal carattere sensistico, materialistico, empiristico di quel pensiero che allora tenne il luogo della filosofia, e dall'edonismo e utilitarismo della sua etica, e dallo stesso abuso che della parola «filosofia» si fece, dandola a ogni sorta di piccole e superficiali riflessioni su ogni sorta di cose. Fu invece, quel secolo, grandemente matematico e fisico, e naturalisticamente trattò anche le scienze morali per ricavarne i precetti e le formule che gli occorrevano per le riforme da proporre politiche e sociali; donde la taccia d'irreligioso che fu data al suo razionalismo, donde anche l'altra di antistorico, e di scettico e irriverente verso l'epos e la tragedia che è la storia dell'umanità. Di questo carattere del secolo si avvide, ai suoi inizi, il Vico, che ne delineò sotto l'aspetto negativo il necessario corso ulteriore, che realmente poi percorse, indirizzato non all'approfondimento ma alla divulgazione delle conoscenze, alla compilazione di dizionari ed enciclopedie, impoetico, matematizzante e per l'astrazione lasciantesi sfuggire la concretezza; e invano egli procurò di richiamarlo all'indagine e alla meditazione della storia, che essa, e non l'esterna natura, è il vero regnum hominis. Solo sullo scorcio del secolo lo spirito speculativo si riscosse, simile al forte inebriato, col Kant, che sottomise a critica la scienza fisico-matematica e rese chiara l'inettezza della logica intellettualistica nei grandi problemi della realtà, e restaurò contro l'utilitarismo la coscienza morale e contro l'edonismo estetico quella della spirituale bellezza...

Ma questa distinzione - si domanderà - tra poesia genuina e poesia settecentesca o intellettualistica è rigida ed assoluta? Non ci furono in questi due secoli dopo il Tasso, in Italia, voci di poesia? Assoluto e rigido è sempre e solamente il criterio del giudizio, senza di che non si potrebbe pensare; ma i fatti, cioè la storia, è varia e sinuosa e niente di ciò che è essenziale nell'animo umano vi è mai, in ogni sua parte, del tutto assente. E perciò anche lungo il secolo dell'Arcadia si udirono talora più o meno forti accenti poetici, e si risentirono quelli antichi, sebbene la grande poesia come in Germania dové aspettare Volfango Goethe e in Francia Alfredo de Vigny, in Italia non riapparve se non con Alfieri e con Foscolo, e l'intelligenza della poesia rinacque veramente attraverso il romanticismo. Raccogliere quegli accenti poetici, rari che fossero, è dovere di noi critici; e, per la mia piccola parte, io non ho mancato di adempierlo, ritrovandone, per esempio, non solo nel Metastasio, ma nel Rolli e nel Vittorelli e in Tommaso Crudeli, e nel Manfredi, e finanche nel «lezioso», nel «galante», nell'«inzuccheratissimo» Zappi, che il Baretti così vituperò e che pure ha cose da riconoscere francamente belle; e dando rilievo altresì al fatto che in Italia, più che altrove, si ebbero allora sparsi oppositori, educati nella classicità, che non tolleravano la poesia leggera e la poesia senza immagini e senza fantasia e le contrapponevano l'antica greca, latina e italiana.

Benedetto Croce

© 2009 - Luigi De Bellis