Arcadia e
Illuminismo
Non vi era, per il Parini un'antitesi fra arcadia e
illuminismo: né facile riesce anche a noi segnare dei
limiti precisi quando rinunciamo a fare di quei nomi
degli idoli polemici e cerchiamo di vedere più da vicino
la realtà delle cose. Ci accadrà allora di trovare di
ogni idea, enunciata da un illuminista e che ci era
parsa tipica dell'illuminismo, dei precedenti nelle
opere dei «riformatori» arcadici: non già per la ragione
ovvia che non vi è idea della quale non si possano
rintracciare precedenti in epoca diversa da quella in
cui si è affermata, ma per un motivo più specifico, vale
a dire l'affinità profonda che vi è fra il pensiero
degli uni e il pensiero degli altri, fra quelli almeno
che ne sono i concetti direttivi, se non fra i propositi
ultimi. Quando leggiamo, ad esempio, nell'esordio del
discorso pariniano Sopra la poesia, la celebrazione, di
tono così schiettamente illuministico, dello «spirito
filosofico», che, scrive il poeta del Giorno, «quasi un
genio felice sorto a dominare la letteratura del
presente secolo, scorre colla facella della verità
accesa nelle mani, non pur l'Inghilterra, la Francia e
l'Italia, ma la Germania e le Spagne, dissipando le
dense tenebre de' pregiudizi autorizzati dalla lunga età
e dalle venerande barbe dei nostri maggiori, e, come in
ogni altro campo dello scibile, si è affermato anche
nella poesia, divenuta essa pure oggetto di indagine
della «moderna filosofia» («La poesia medesima ha nuovi
lumi acquistati dallo spirito filosofico, e, comeché
abbia per una parte perduti i pomposi titoli che non
solo i poeti, ma i maggiori filosofi ancora donati le
aveano, di «celeste», di «divina», e di «maestra di
tutte le cose», ha nondimeno ricevuto dall'altra un
merito, meno elevato, a dir vero, ma più solido e più
certo»), non ci sembra di trovarci di fronte a un
pensiero sostanzialmente diverso da quello del Muratori,
il quale l'elle Riflessioni sopra il buon gusto aveva
scritto: « Bisognerebbe che la grammatica stessa e le
lingue e la poetica, e la retorica e l'istoria e tutte
le altre arti e scienze cominciando dalle infime e
andando sino alle supreme tutte s'insegnassero e
maneggiassero solamente da chi sa ben filosofare», e
anch'egli a suo modo aveva tentato di elevare la poetica
a filosofia come farà il Parini dando della poesia una
giustificazione nell'ambito della filosofia sensistica;
né suonano nuove le critiche dello stesso Parini ai
libri «volgarmente dotti di rettorica e di poetica»
usati nelle scuole, «transunti della dottrina
d'Aristotile, di Cicerone, di Quintiliano» e a quella
stessa dottrina «ottima, se si considera, nelle sue
parti» ma che «se si considera nel suo tutto riesce
slegata, intralciata e bene spesso troppo astratta e
sottile», e le sue proposte di sostituirli con altri
libri, che offrano pochi precetti facilmente
comprensibili, i quali, acciocché sian tali, han da
«dipendere da pochi principii generali ricavati dalla
natura», poiché quelle critiche e quelle proposte
riecheggiano nel campo più ristretto della scuola i
motivi della polemica condotta, sempre in nome della
filosofia, contro la precettistica dei retori, dai
trattatisti migliori dell'Arcadia, primo fra tutti il
Gravina; così come al Gravina e a quella sua polemica
contro gli «ambiziosi e avari precetti» dei retori, i
quali «coi loro generi e con le loro regole pretendono
di porre limiti al vario e continuo moto dell'umano
ingegno» («Onde non so perché non si debba porre questo
indiscreto freno alla grandezza della nostra
immaginazione ed aprirle strada da vagare per entro quei
grandissimi spazi, nei quali è atta a penetrare»), ci
fanno pensare le animose pagine di Pietro Verri, di un
sapore tra l'illuministico e il preromantico, contro gli
«aristotelici delle lettere» che «coi loro rigidi
precetti impiccioliscono ed estinguono il genio dei
giovani». Anche l'universalismo degli illuministi che
avrà la sua più solenne espressione nelle parole del
Cesarotti sul buon critico che «concittadino di tutti i
popoli intende tutti i linguaggi del bello», ha le sue
premesse in quell'impostazione filosofica che i critici
dell'Arcadia diedero al problema della poesia, nei loro
tentativi di sollevarsi alla «ragione di ogni poesia»,
concetto universale in cui convengono tutte le forme
particolari della bellezza poetica: prima che il Parini
annunciasse dalla cattedra il proposito di far conoscere
ai discepoli «gli eccellenti esemplari» di «tutti i
tempi» e «di tutte le nazioni», giustificando con queste
parole, che non gli parvero contrastare col suo
classicismo: «E perché, quando tutti i popoli della
terra hanno istituito un felice commercio di tutti i
beni che la natura ha diviso fra essi, sarà dato ai soli
Greci e ai soli Latini il privilegio del bello e del
sublime?» , il Muratori aveva ambito anch'egli di dar
prova di «buon gusto universale» («Solamente a chi
possiede il buon gusto universale, aveva scritto fra
l'altro, ed è libero delle anticipate opinioni, è
riserbato il ben gustare le bellezze dell'ebraica
poesia. Non si riconoscon queste da molti perché non han
l'aria e il vestito delle poesie moderne a cui siamo
solamente avvezzi») e aveva cercato di superare le
parzialità di quanti allora contendevano per gli antichi
e per i moderni, per la poesia italiana e per la poesia
francese, in una critica che rendesse giustizia agli uni
e agli altri, ricordando a tal fine nella Perfetta
poesia autori e opere di diversi tempi e luoghi, e
persino, ignoti a lui e non nominati, i poeti «di cui si
gloriano, scriveva, le lingue tedesche, inglese e
danese». Il che non significa che ai propositi
rispondessero i risultati: ma comune ai critici
dell'arcadia e ai critici dell'illuminismo è lo schema
concettuale, presupposto delle loro aspirazioni
universalistiche, e comune, in fondo, il gusto poetico,
che potrà nel corso del secolo liberarsi da residui
secentistici e da vezzi e modi della prima arcadia, ma
avrà sempre il suo limite nel dominante razionalismo,
ostacolo a quelle generose aspirazioni, mal superabile,
nonché dal timido Muratori, dall'ardito Cesarotti.
E già dei «riformatori» arcadici è la varietà degli
interessi culturali, che sarà propria degli illuministi:
basti pensare a un Manfredi, a un Conti, a un Maffei, a
un Muratori, che sembrano preannunciare coli la loro
opera multiforme e la varia attività gli spiriti
enciclopedici del secondo Settecento: né sta loro a
cuore soltanto una «riforma» delle lettere, ché con
maggiore o minore ardimento essi mirano a liberare, del
pari che la letteratura propriamente detta, la cultura
tutta e la vita sociale dagli u«abusi», dai «pregiudizi»
perché meglio esse rispondano a un ideale di
ragionevolezza e di umanità. Il Gravina, che combatte la
precettistica dei retori in nome di un'«idea eterna»
della poesia, è pure, come è noto, e per motivi
analoghi, fiero avversario della casistica morale, e si
propone nello studio del diritto di ridurre la vasta
materia in un sistema organico e razionale; il Maffei
nella «Scienza chiamata cavalleresca» vuole colpire la
sopravvivenza di costumi contrastanti con le norme del
vivere moderno, così come contrastava con lo spirito del
tempo il barocchismo letterario, e delinea un programma
di riforme politiche, tra i più interessanti dei suoi
tempi; l'instancabile Muratori non dimentica mai per lo
studio dell'antichità il tempo in cui vive, e cerca di
correggere per quel che egli può, i vizii della cultura
contemporanea, non disdegna di occuparsi di questioni di
carattere pratico come il «governo della peste», o teme
di affrontare pericolose polemiche combattendo certe
pratiche di devozioni materiali e superstiziose,
repugnanti alla sua fede semplice e schietta, e al
termine della vita espone nell'opera Della pubblica
felicità oggetto dei buoni principi il suo ideale
politico, che potrebbe essere definito un assolutismo
paternalistico, ponendo l'accento, come è stato detto,
piuttosto sull'aggettivo che sul sostantivo, e che è
chiaramente riconoscibile anche nella narrazione degli
Annali, non mai così cronachisticamente oggettiva da
nascondere la sollecitudine dello scrittore per il
benessere dei popoli e la sua diffidenza per certe
conclamate glorie di politici e di guerrieri. Si è
foggiato dagli storici per designare queste tendenze
della cultura del primo Settecento il termine di
pre-illuminismo, e per vero dell'illuminismo si
riconoscono negli scritti che abbiamo ricordati e in
altri che si potrebbero ricordare i problemi e le
aspirazioni, e ad un tempo caratteristici atteggiamenti
di stile. Così gli Annali muratoriani non soltanto
contrappongono alla secentesca «ragione di stato» come
criterio di valutazione quello dell'unità sociale, ma la
tendenza che li informa rilevano in più d'un punto con
un'ironia che non diremo volterriana, ma certo
manzoniana, del Manzoni quando discorre, illuminista
cristiano, di guerre, di conquiste, di maneggi
dell'«alta politica»: e nella loro prosa piana, anzi
dimessa, non rifuggente da locuzioni familiari o
addirittura, come a taluno parve, volgari, ma così
naturali per lo scrittore, non abbagliato da nessuna
grandezza e non ambizioso da parte sua di assumere pose
solenni e magistrali, bene rispondono al proposito di
riportare i fatti storici al livello della comune
umanità, sia in se stessi che nella forma letteraria;
una lezione continua, diremmo di antibarocchismo e un
esempio, nel significato buono della parola, di quella
«volgarizzazione» del sapere che tanto starà a cuore
agli illuministi. E dell'illuminismo, della sua
letteratura volgarizzatrice, dello stile che le è
proprio, dava, fin dagli anni tra il 1726 e il 1729, una
descrizione vivace G. B. Vico quando discorreva del
secolo «dilicato e vistoso, nel quale dagli più con poco
studio e co' soli naturali talenti si vuole comparir
dotti e fanno la loro capacità regola de' libri, onde
stimano buoni i soli spiegati e facili, di cui si possa
per passatempo ragionare con le dame» (ancora non era
stato scritto il «Newtonianismo per le darne»!), o della
«debolezza della nostra natura umana, che 'n brevissimo
tempo e con pochissima facilità vorrebbe saper di
tutto»: « Che è la cagione, aggiungeva, perché oggi non
si lavoran altri libri che di nuovi metodi e di
compendi, perché la dilicatezza de' sensi, che è
fastidiosissima in questo secolo, essendosi tragittata
alle menti, i nuovi libri non per altro si commendano
che per la facilità la quale così fiacca ed avvelena
gl'ingegni siccome la difficoltà gli invigorisce ed
avviva». Giudizio di cui è da notare a un tempo la
perspicacia e l'unilateralità, poiché al Vico sfuggiva,
ed era fatale che così avvenisse, quel che era di
positivo in quel favore per i libri «facili»,
accessibili a tutti, vale a dire l'esigenza intrinseca
al razionalismo di affermarsi in una vasta cerchia,
chiamando il maggior numero di individui a farsi
partecipi del sapere acquisito e più ancora a far buon
uso della ragione che è in tutti e di tutti; ma giudizio
interessante oltreché per se stesso come documento della
diffusione degli spiriti illuministici del mondo dei
letterati, fra cui lavorava l'autore della Scienza
nuova, se pure è necessaria una testimonianza come
questa del Vico, sulla cultura di quella Napoli del
primo Settecento da cui uscì, arma formidabile della
polemica illuministica, la Storia civile del Giannone.
Sarà per questo da negare ogni distinzione fra quelle
che si sogliono considerare due fasi ben distinte anzi
contrapposte della storia della nostra cultura? Anche
perché, si potrebbe aggiungere, come nell'età che ha
preso nome dall'Arcadia, è già più che in nuce
l'illuminismo, persistono d'altra parte fin nel più
tardo Settecento, e non solo in un Baretti o in un
Parini, motivi schiettamente arcadici, anzi
dell'Arcadia, per dirla col Carducci, degli «abati
pastori», un'Arcadia idillica, che si accompagna e non
ne discorda, con la fiducia nei «lumi» e persino con le
melanconie e gli «orrori» del preromanticismo? Non una
frattura, se pur la storia conosce fratture, e nemmeno
uno di quei rivolgimenti radicali di idee e di gusti,
come fu, ad esempio, la rivoluzione romantica, divide le
due età, bensì le distingue, nella continuità evidente
delle idee e dei propositi, la coscienza più chiara e
più diffusa, che nel secondo Settecento si ebbe, di quel
che era il principio informatore di quelle idee e di
quei propositi. Giunsero allora a piena maturazione idee
e tendenze, che si erano presentate nell'età
dell'Arcadia, e meglio si sentì l'intimo nesso che le
congiungeva: perciò mentre le varie «riforme» che i
«riformatori» arcadici propugnavano con quella delle
lettere erano state per loro problemi ben distinti da
trattare di volta in volta tenendosi chiusi nell'ambito
delle singole discipline, gli illuministi si sentirono
impegnati, quale che fosse la questione affrontata, in
un'unica battaglia: basti per tutti ricordare Pietro
Verri e confrontare i suoi articoli letterari, che non
sono se non un episodio della sua polemica ispirata
all'idea di libertà, coi pacati ragionamenti che il
Muratori svolgeva nelle sue opere intorno alla «perfetta
poesia» e ai «difetti della giurisprudenza», alla
«regolata devozione» e alla «pubblica felicità».
Ne veniva, ed è questo uno dei caratteri della
letteratura illuministica, un più accentuato tono
polemico, e nella polemica un rilievo più forte della
personalità degli scrittori, i quali agli «abusi», ai
«pregiudizi», agli «errori», da loro avversati,
oppongono la forza non soltanto dei ragionamenti, ma
della propria persona presente sempre e in primo piano
nelle loro pagine: sono di questa età, per citare
soltanto i più noti, uomini come il Parini e il Baretti,
Pietro Verri e il Bettinelli (il Bettinelli almeno delle
Virgiliane e delle Inglesi), che portano nella
letteratura un carattere più risentito dei letterati
loro predecessori e ci danno l'impressione, quando ci
troviamo dinanzi alle loro figure così fortemente
individuate, di una vita più piena, più varia, più
vigorosa. |