ESSENZIALITA' LIRICA E VALORI
FONICI IN UNGARETTI
S'è dunque detto: una liricità
essenziale, emergente dalla più
immediata adesione alla vita. Né
si trova un critico che per
l'uno di questi termini abbia
perduto di vista l'altro.
Parlando di documento e perfin
di referto, il Pancrazi non
aveva certo in mente il rigor
prosastico, se poi aggiungeva
che «da quelle pagine affiorano
espressioni di grazia e levità
mirabili». S'immagina come la
vitale immediatezza conseguita
dall'Ungaretti, dovesse colpire
un temperamento quale il Thovez.
«La morte - si sconta - vivendo»
: «Cinque parole; ma quale
frondosa apostrofe poteva più
potentemente evocare a noi
l'angoscia impietrata di un
essere irrigidito sul baratro
nell'attesa mortale?» E v'è chi
ha mirato a rappresentare in
atto la profondità di quel
processo vita-poesia: «un
travaglio, una angoscia e uno
strazio di tutto il suo spirito
insoddisfatto, che nel
significato di un solo vocabolo,
nel valore di una lieve pausa si
addensa e si ingorga come in un
disperato sforzo di liberazione»
(Marone). Ecco il Soffici invece
a battere sui due termini, in
quanto coesistenti: «una parola
poetica tanto sostanziata di
reale e insieme tanto sottile e
alata. Essa ha nello stesso
tempo la concretezza delle cose
naturali e la vitalità
d'un'essenza meramente
simbolica»; così il Ferrata:
«Qui, il verso libero abbandona
ogni diversivo musicale per
seguire delle fasi, segnare un
tempo che sembra, durante la
lettura, scandito da una voce
vivente»; e il Franchi, poiché
la preghiera può essere anche
pura confessione, ravvisò nella
prima poesia dell'Ungaretti
qualcosa come la «sillabazione
d'una preghiera».
Altri affermò intanto
esplicitamente, ciò che in tutte
queste testimonianze (e nelle
loro varianti) rimane più o meno
sottinteso; il Cecchi ad
esempio, quando scrive che
l'Ungaretti «non si decide
all'espressione se non in
estrema consapevolezza», anzi
«comincia da quel raffinamento
al quale i più sarebbero
contenti di giungere dopo molti
sforzi». E questo allora merita
particolare attenzione: che la
coscienza critica dell'Ungaretti
si sia rivelata, in prima
istanza, direttamente; cioè
attraverso la qualità stessa
dell'opera. Fu insomma sentita
innanzitutto nei risultati;
quasi risposta alla domanda:
come altrimenti spiegare il
potenziamento di tanta
immediatezza di vita in così
pura lirica? Infatti altri dati
stanno soltanto in funzione di
riprova. Riprova la
rigorosissima idea che
l'Ungaretti ha del lavoro
poetico come «mestiere»; il
dispregio in cui egli
conseguentemente tiene
l'«illusione puerile» del «babau
ispirazione». Riprova quella sua
tormentata incontentabilità, -
pure, seguita da presso, quanto
istruttiva, - nel riprendere e
ritoccare, o addirittura rifare.
E qui sul significato «attuale»
dell'approfondito rapporto
vita-poesia, quale s'è avuto
nella produzione iniziale
dell'Ungaretti, - su quella
parola lirica scavata con la più
acuta consapevolezza, e la
novità del suo timbro, - a noi
sembra opportuno sentire lo
stesso Ungaretti.' Il quale non
crede affatto, in generale, che
la generazione letteraria
italiana dell'ultimo trentennio
sia stata una piccola
generazione. Dice, riferendosi
in ispecie alla poesia: «In
momenti estremi il linguaggio è
tutto buttato a perdere ogni
sostegno descrittivo, e ogni
finta; e, simbolo dell'uomo
disgustato d'ornamenti, tale
linguaggio, irritandosi in
infinite sfumature, in infinite
titubanze, annientandosi quasi,
oggi già s'incide, quanto a
efficacia, nella sostanza
cruda». O vorremmo dargli torto,
se parla di momenti estremi?
Soggiunge che dalla travagliata
esperienza di questo nostro
tempo, l'arte erediterà forse
«intense naturalezze».
Ma torniamo all'essenzialità,
circa la quale i consensi
critici diventano via via più
stringenti. Ora, se è vero che
in ogni caso la lirica esprime
stati d'animo concentrati in un
«momento», anche non fu senza
ragione che nelle prime poesie
dell'Ungaretti si vedessero
espressi i piuttosto degli
«attimi» : tanto apparve forte
la concentrazione. Una volta
Ungaretti ha scritto, ripensando
alla guerra: «Si era in tale
dimestichezza con la morte che
il naufragio era senza fine. Non
c'era oggetto che non ce lo
riflettesse; era, la nostra
stessa vita, da capo a fondo,
quell'oggetto qualsiasi sul
quale cadeva a caso il nostro
sguardo. Non era la nostra, in
realtà, vita più che oggettiva,
il primo oggetto venuto.
Quel concentrarsi nell'attimo
d'un oggetto non aveva misura.
L'eternità si chiudeva
nell'attimo. L'oggetto s'alzava
alle proporzioni d'una certezza
divina. Non conoscerò più tanta
soggezione, né quella libertà
ferma. Ho capito perché il
Congolese fa gli occhi all'idolo
con pezzetti di specchio».
Sennonché il passo è tolto dalla
risposta ad una inchiesta sulla
poesia, che è tutta, in fondo,
una personale confessione
dell'artista: possiamo ben
ritenerne, soltanto, ciò che
riguarda quella intensissima
sensibilità «puntuale». E fra i
modi che risolvono l'aspirazione
della poesia moderna a fermare
il fugace, anzi il più fugace,
l'Ungaretti pone
l'«illuminazione favolosa»:
ovvio dato personale anche
questo. Notiamo quindi alcune
delle rispondenze da parte della
critica: «spreme da ogni minuto
la sua goccia di rivelazione» (Papini
) ; un «attimo che diventa
infinito» (Marone) ; «attimi
pieni ed esclusivi... quei lampi
demoniaci che rischiarano, di
colpo, realtà essenziali e senza
tempo» (Debenedetti) ; una
«stasi incantata» (Capasso).
D'altra parte s'intende: quanto
più è pura, tanto più la lirica
dà concretezza a qualcosa
d'ineffabile. Invero la parola
ineffabilità, presso i critici
dell'Ungaretti, ricorre ad ogni
tratto; insieme con quelle altre
indicate: stato di grazia,
incanto (qualcuno disse pure
prodigio, magia). E neanche qui
si può tralasciare un indiretto
documento autocritico «la poesia
moderna si propone di mettere in
contatto ciò che più è distante.
Maggiore è la distanza,
superiore è la poesia. Quando
tali contatti dànno luce, è
toccata poesia. In breve, uso, e
forse abuso, di forme
ellittiche». Ricordiamo però il
Porto sepolto: «Vi arriva il
poeta - e poi torna alla luce
con i suoi canti - e li disperde
- Di questa poesia - mi resta -
quel nulla - d'inesauribile
segreto»: fu agevole ad ognuno
riconoscere che, in questi due
ultimi versi, l'Ungaretti
definisce ineffabilmente la
sostanza ineffabile della
propria poesia. Scrive il
Debenedetti Ungaretti passa da
realtà che interessano sensi
difficilissimi e riposti ad
altre, la cui traduzione
verbale, per via del suono e
della figura, vada a colpire più
accessibili sensi e tuttavia
riesca atta a riprodurre le
risonanze interiori che
l'impressione iniziale aveva
mosse». E i rilievi specifici
che l'ineffabilità comporta, non
sono davvero mancati: circa le
«immagini e sensazioni
lontanissime» (De Robertis) ;
circa il valore «vergine» che,
in queste, vengono ad assumere
le parole (Debenedetti, Marone).
«Da questa terrazza di
desolazione - in braccio mi
sporgo - al buon tempo» ; e il
Marone così commenta: «il senso
di vastità e di lontananza è
reso così profondo e impalpabile
che invano cerchiamo di
scoprirne il segreto fra le
parole elementari». Masi
riscontrino, in rapporto alla
ineffabilità, soprattutto le
attente analisi del Debenedetti
e del Capasso.
E non minore attenzione doveva
spettare ai valori di suono, che
dell'ineffabilità costituiscono,
senz'altro, l'elemento precipuo.
Citiamo il Papini: «la stessa
brevità dei versi e dei poemi
perfeziona l'incanto
impalpabile» ; il Marone: «si
vede subito quale nuovo valore
egli scopra nel senso fantastico
di alcuni chiari vocaboli,
cogliendone perfino a sua
meraviglia i toni fonetici, il
fruscio impalpabile delle
sillabe»; il Montano: «certo
dolcissima eco sospesa per tutto
tra sillaba e sillaba... un
conosciuto e sempre nuovo
incantesimo: la figura nascente
dal suono» ; il Debenedetti:
«Ogni parola porta il peso di
una sua storia e come di una sua
pena, occulta nell'essenza,
sensibilissima in quello che ne
è il valore musicale...
S'aggiunga a questi valori della
parola la conscia magia del
ritmo che è fondato soprattutto
sul gioco di silenzi tra cui
cadono le singole parole e che
genera, intorno ad esse,
stupefatti richiami di quelle
regioni donde furono rapite».
Come alle «confessioni», anche
su questo punto, dell'Ungaretti,
avremo tuttavia da riferirci
particolarmente al seguente
passo del De Robertis, che
sembra svolgere quella felice
espressione del Ferrata: «una
voce vivente»: «Può parere
strano, ma, proprio, non si può
intendere la poesia di
Ungaretti, senza prima riferirsi
a un modo di «recitarla»; anche
se poi recitarla sia in effetto
impossibile, per una quasi
povertà tonale e assenza di
caldo. Allora bisognerà dire che
quella ha da essere una
recitazione muta, fatta solo
mentalmente. Sulla sua pagina
scritta, l'occhio è preso, e
l'anima smarrita. Con quella
versificazione gracile, con
quelle poche sparute sillabe a
ogni verso, e con le pause a
ogni respiro, soppressa
l'interpunzione e soppressi
perforo gli interrogativi, è
forza dar peso agli intervalli,
che parlano anch'essi, misurarli
idealmente, e legar le parole in
una sorta di enfasi tenuissima
che avvolga le particole dei
versi, armoniose e, direi,
imbevute di essenze. Un'«ars
oratoria», insomma, assunta come
pura cosa intelligibile, ma da
non tradursi in pratica mai.
Come se, ragionando per assurdo,
una musica non si potesse che
capirla solo leggendo, e a
realizzarla si sperdesse tutta
quanta. È forse l'estremo grado
a cui è arrivata la poesia letta
e, nel tempo stesso, il
principio, l'embrione d'una
poesia che domani torni ad
essere detta.