IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

ESSENZIALITA' LIRICA E VALORI FONICI IN UNGARETTI

 

 

S'è dunque detto: una liricità essenziale, emergente dalla più immediata adesione alla vita. Né si trova un critico che per l'uno di questi termini abbia perduto di vista l'altro. Parlando di documento e perfin di referto, il Pancrazi non aveva certo in mente il rigor prosastico, se poi aggiungeva che «da quelle pagine affiorano espressioni di grazia e levità mirabili». S'immagina come la vitale immediatezza conseguita dall'Ungaretti, dovesse colpire un temperamento quale il Thovez. «La morte - si sconta - vivendo» : «Cinque parole; ma quale frondosa apostrofe poteva più potentemente evocare a noi l'angoscia impietrata di un essere irrigidito sul baratro nell'attesa mortale?» E v'è chi ha mirato a rappresentare in atto la profondità di quel processo vita-poesia: «un travaglio, una angoscia e uno strazio di tutto il suo spirito insoddisfatto, che nel significato di un solo vocabolo, nel valore di una lieve pausa si addensa e si ingorga come in un disperato sforzo di liberazione» (Marone). Ecco il Soffici invece a battere sui due termini, in quanto coesistenti: «una parola poetica tanto sostanziata di reale e insieme tanto sottile e alata. Essa ha nello stesso tempo la concretezza delle cose naturali e la vitalità d'un'essenza meramente simbolica»; così il Ferrata: «Qui, il verso libero abbandona ogni diversivo musicale per seguire delle fasi, segnare un tempo che sembra, durante la lettura, scandito da una voce vivente»; e il Franchi, poiché la preghiera può essere anche pura confessione, ravvisò nella prima poesia dell'Ungaretti qualcosa come la «sillabazione d'una preghiera».
Altri affermò intanto esplicitamente, ciò che in tutte queste testimonianze (e nelle loro varianti) rimane più o meno sottinteso; il Cecchi ad esempio, quando scrive che l'Ungaretti «non si decide all'espressione se non in estrema consapevolezza», anzi «comincia da quel raffinamento al quale i più sarebbero contenti di giungere dopo molti sforzi». E questo allora merita particolare attenzione: che la coscienza critica dell'Ungaretti si sia rivelata, in prima istanza, direttamente; cioè attraverso la qualità stessa dell'opera. Fu insomma sentita innanzitutto nei risultati; quasi risposta alla domanda: come altrimenti spiegare il potenziamento di tanta immediatezza di vita in così pura lirica? Infatti altri dati stanno soltanto in funzione di riprova. Riprova la rigorosissima idea che l'Ungaretti ha del lavoro poetico come «mestiere»; il dispregio in cui egli conseguentemente tiene l'«illusione puerile» del «babau ispirazione». Riprova quella sua tormentata incontentabilità, - pure, seguita da presso, quanto istruttiva, - nel riprendere e ritoccare, o addirittura rifare.
E qui sul significato «attuale» dell'approfondito rapporto vita-poesia, quale s'è avuto nella produzione iniziale dell'Ungaretti, - su quella parola lirica scavata con la più acuta consapevolezza, e la novità del suo timbro, - a noi sembra opportuno sentire lo stesso Ungaretti.' Il quale non crede affatto, in generale, che la generazione letteraria italiana dell'ultimo trentennio sia stata una piccola generazione. Dice, riferendosi in ispecie alla poesia: «In momenti estremi il linguaggio è tutto buttato a perdere ogni sostegno descrittivo, e ogni finta; e, simbolo dell'uomo disgustato d'ornamenti, tale linguaggio, irritandosi in infinite sfumature, in infinite titubanze, annientandosi quasi, oggi già s'incide, quanto a efficacia, nella sostanza cruda». O vorremmo dargli torto, se parla di momenti estremi? Soggiunge che dalla travagliata esperienza di questo nostro tempo, l'arte erediterà forse «intense naturalezze».

Ma torniamo all'essenzialità, circa la quale i consensi critici diventano via via più stringenti. Ora, se è vero che in ogni caso la lirica esprime stati d'animo concentrati in un «momento», anche non fu senza ragione che nelle prime poesie dell'Ungaretti si vedessero espressi i piuttosto degli «attimi» : tanto apparve forte la concentrazione. Una volta Ungaretti ha scritto, ripensando alla guerra: «Si era in tale dimestichezza con la morte che il naufragio era senza fine. Non c'era oggetto che non ce lo riflettesse; era, la nostra stessa vita, da capo a fondo, quell'oggetto qualsiasi sul quale cadeva a caso il nostro sguardo. Non era la nostra, in realtà, vita più che oggettiva, il primo oggetto venuto.
Quel concentrarsi nell'attimo d'un oggetto non aveva misura. L'eternità si chiudeva nell'attimo. L'oggetto s'alzava alle proporzioni d'una certezza divina. Non conoscerò più tanta soggezione, né quella libertà ferma. Ho capito perché il Congolese fa gli occhi all'idolo con pezzetti di specchio». Sennonché il passo è tolto dalla risposta ad una inchiesta sulla poesia, che è tutta, in fondo, una personale confessione dell'artista: possiamo ben ritenerne, soltanto, ciò che riguarda quella intensissima sensibilità «puntuale». E fra i modi che risolvono l'aspirazione della poesia moderna a fermare il fugace, anzi il più fugace, l'Ungaretti pone l'«illuminazione favolosa»: ovvio dato personale anche questo. Notiamo quindi alcune delle rispondenze da parte della critica: «spreme da ogni minuto la sua goccia di rivelazione» (Papini ) ; un «attimo che diventa infinito» (Marone) ; «attimi pieni ed esclusivi... quei lampi demoniaci che rischiarano, di colpo, realtà essenziali e senza tempo» (Debenedetti) ; una «stasi incantata» (Capasso).

D'altra parte s'intende: quanto più è pura, tanto più la lirica dà concretezza a qualcosa d'ineffabile. Invero la parola ineffabilità, presso i critici dell'Ungaretti, ricorre ad ogni tratto; insieme con quelle altre indicate: stato di grazia, incanto (qualcuno disse pure prodigio, magia). E neanche qui si può tralasciare un indiretto documento autocritico «la poesia moderna si propone di mettere in contatto ciò che più è distante. Maggiore è la distanza, superiore è la poesia. Quando tali contatti dànno luce, è toccata poesia. In breve, uso, e forse abuso, di forme ellittiche». Ricordiamo però il Porto sepolto: «Vi arriva il poeta - e poi torna alla luce con i suoi canti - e li disperde - Di questa poesia - mi resta - quel nulla - d'inesauribile segreto»: fu agevole ad ognuno riconoscere che, in questi due ultimi versi, l'Ungaretti definisce ineffabilmente la sostanza ineffabile della propria poesia. Scrive il Debenedetti Ungaretti passa da realtà che interessano sensi difficilissimi e riposti ad altre, la cui traduzione verbale, per via del suono e della figura, vada a colpire più accessibili sensi e tuttavia riesca atta a riprodurre le risonanze interiori che l'impressione iniziale aveva mosse». E i rilievi specifici che l'ineffabilità comporta, non sono davvero mancati: circa le «immagini e sensazioni lontanissime» (De Robertis) ; circa il valore «vergine» che, in queste, vengono ad assumere le parole (Debenedetti, Marone). «Da questa terrazza di desolazione - in braccio mi sporgo - al buon tempo» ; e il Marone così commenta: «il senso di vastità e di lontananza è reso così profondo e impalpabile che invano cerchiamo di scoprirne il segreto fra le parole elementari». Masi riscontrino, in rapporto alla ineffabilità, soprattutto le attente analisi del Debenedetti e del Capasso.

E non minore attenzione doveva spettare ai valori di suono, che dell'ineffabilità costituiscono, senz'altro, l'elemento precipuo. Citiamo il Papini: «la stessa brevità dei versi e dei poemi perfeziona l'incanto impalpabile» ; il Marone: «si vede subito quale nuovo valore egli scopra nel senso fantastico di alcuni chiari vocaboli, cogliendone perfino a sua meraviglia i toni fonetici, il fruscio impalpabile delle sillabe»; il Montano: «certo dolcissima eco sospesa per tutto tra sillaba e sillaba... un conosciuto e sempre nuovo incantesimo: la figura nascente dal suono» ; il Debenedetti: «Ogni parola porta il peso di una sua storia e come di una sua pena, occulta nell'essenza, sensibilissima in quello che ne è il valore musicale... S'aggiunga a questi valori della parola la conscia magia del ritmo che è fondato soprattutto sul gioco di silenzi tra cui cadono le singole parole e che genera, intorno ad esse, stupefatti richiami di quelle regioni donde furono rapite». Come alle «confessioni», anche su questo punto, dell'Ungaretti, avremo tuttavia da riferirci particolarmente al seguente passo del De Robertis, che sembra svolgere quella felice espressione del Ferrata: «una voce vivente»: «Può parere strano, ma, proprio, non si può intendere la poesia di Ungaretti, senza prima riferirsi a un modo di «recitarla»; anche se poi recitarla sia in effetto impossibile, per una quasi povertà tonale e assenza di caldo. Allora bisognerà dire che quella ha da essere una recitazione muta, fatta solo mentalmente. Sulla sua pagina scritta, l'occhio è preso, e l'anima smarrita. Con quella versificazione gracile, con quelle poche sparute sillabe a ogni verso, e con le pause a ogni respiro, soppressa l'interpunzione e soppressi perforo gli interrogativi, è forza dar peso agli intervalli, che parlano anch'essi, misurarli idealmente, e legar le parole in una sorta di enfasi tenuissima che avvolga le particole dei versi, armoniose e, direi, imbevute di essenze. Un'«ars oratoria», insomma, assunta come pura cosa intelligibile, ma da non tradursi in pratica mai. Come se, ragionando per assurdo, una musica non si potesse che capirla solo leggendo, e a realizzarla si sperdesse tutta quanta. È forse l'estremo grado a cui è arrivata la poesia letta e, nel tempo stesso, il principio, l'embrione d'una poesia che domani torni ad essere detta.

Alfredo Gargiulo

© 2009 - Luigi De Bellis