FORMULA PER CECCHI
L'attività poetica aveva in
Cecchi qualcosa di febbrile,
mancava di quelle possibilità di
pieno impiego dell'intelligenza
che urgeva nella sua
personalità. Vi fu così il
periodo di una predominante
attività di critico letterario:
fu addirittura un'orgia di
intelligenza, una profusione di
intuizioni geniali e di
tentativi sistematici («a
giudicare una nuova poesia ci
vorrebbe una nuova filosofia»
dice nel saggio sul Pascoli), in
cui non mancavano però né uno
svolgimento interiore più da
artista che da critico né una
particolare sensibilità per un
certo mondo poetico che non è
quello cristallino dei classici
né quello di un romanticismo più
enfatico. Kipling (l'amore delle
cose, della natura), Chesterton,
i francesi moderni, gli inglesi
più allucinati e visionari, i
prodotti di eccezione, ma tutti
come avvolti in un velo
familiare, in una trasposizione
di sanità, di terra italiana. E
qui si chiarisce un altro
carattere tipico di Cecchi: egli
esaspera dei motivi eccezionali,
dei raffinati misteri, ma
insieme li media, li rende
vicini a noi con un'aria
confidenziale, nostrana, che
pare rispondere ad un bisogno di
chiarezza, di classicità, di
semplicità (e in verità non è
m'ai oscuro, non è mai
contorto), ma più serve ad
insaporire quelle impressioni
più acri o più profumate, in una
pastosità casalinga...
Raggiunto il suo lavoro più
energico e costruito nella
Storia della letteratura inglese
nel sec. XIX rimasta ferma al I
volume (1915), Cecchi, che aveva
fin allora scritto più che altro
sulla Voce, divenne più
propriamente giornalista di
terza pagina, scrittore di
saggi, che per la loro misura,
il loro giro costruttivo, hanno
di fronte indubbiamente gli
esempi dei tipici saggi inglesi,
in cui un critico non impianta
subito un problema, non affronta
lo scrittore direttamente per
darne un giudizio di valore,
secondo il tipo della critica
desanctisiana e idealista, malo
gusta e ngusta nel suo
paesaggio, ne prende spunto per
delle divagazioni, per delle
trovate personali che stanno tra
il puro pezzo di invenzione e il
rigido articolo critico.
Critico-letterato si può dire, a
questo punto, Cecchi
(definizione sommaria che si può
usare anche per altri scrittori
del nostro tempo un Baldini, un
Pancrazi, ad esempio),
critico-letterato che andava
verso il letterato puro, ma
conservava a quest'ultimo certe
caratteristiche del primo e
soprattutto la spietata luce
dell'intelligenza, la curiosità
del conoscere.
Nel 1920, nell'immediato
dopoguerra, mentre si precisava
il rondismo accanto alla
gazzarra di una letteratura
commerciale che doveva aggravare
l'equivoco esistente fra veri
scrittori e pubblico e ridurre
ancor più la letteratura a
questioni di élite, Cecchi
pubblicò il primo volume di
Saggi, capricci e fantasie come
poi ha chiamato il suo genere:
Pesci rossi ai quali seguirono
nel 1927 l'Osteria del cattivo
tempo, nel 1931 Qualche cosa,
poi nel '33 Messico, nel 1936 Et
in Arcadia ego e Corse al
trotto, nel 1939 America Amara,
nel '41 Corse al trotto vecchie
e nuove. La critica letteraria
fu allora abbandonata per la
critica figurativa, di cui
Cecchi aveva già dato un saggio
nel 1912 (Note d'arte a Valle
Giulia) e in cui ci ha poi dato
Pittura italiana dell'800
(1926), Trecentisti senesi
(1928), Lorenzetti (1930),
Giotto (1937). Un cambiamento
anche questo interessante se si
interpreta come una
accentuazione, in quel periodo,
del suo gusto visivo, una
precisazione della sua
sensibilità soprattutto diretta
a vedere, a sentire in primo
piano i valori pittorici,
coloristici.
Pesci rossi sono contemporanei
alla Ronda, la rivista in cui si
sono ritrovati i letterati puri
italiani tra il '19 e il '23, e
che ha portato un gusto più
strettamente letterario,
classicheggiante, neoleopardiano
dopo lo stile generico e
moralistico della Voce. Il
trionfo di Pesci rossi fu così
il trionfo di quel gusto che in
quel libro trova il suo
capolavoro e qualcosa di più, di
più vasto e di meno accademico.
Da quel libro a Qualche cosa non
vi è tanto svolgimento di nuovi
atteggiamenti, di nuovi motivi,
quanto affinamento della
costruzione, precisazione della
prosa ivi manifestata. Già nel
primo pezzo che dà il titolo al
libro, c'è il risultato, c'è la
poetica, c'è la natura di
Cecchi. Egli dopo la costrizione
della critica ha come liberato
il suo fondo più vero, e l'ha
avviato ad esprimersi in una
forma che della critica mantiene
la capacità di lucida ricerca
dopo essersi trovato una misura:
il saggio, pienamente adatta
alla sua natura.
Cecchi ha attuato in Pesci rossi
un tipo di prosa nuova, in cui è
protagonista una specie di
sensibilità dell'intelligenza,
un connubio perfetto di queste
due qualità: l'intelligenza
enuclea nella realtà (e la
realtà è tutto, un libro, un
pezzo di natura, un personaggio)
un motivo originale e lo svolge
con un discorso sensibile, di
immagini, di riferimenti agli
aspetti più segreti della realtà
stessa. Quando questo mezzo di
conoscenza sensibile è più
stanco, le due qualità si
sdoppiano ed operano
isolatamente e si hanno pezzi
sofistici, paradossali spesso,
in cui è soprattutto ammirevole
la bravura, la coerenza
dell'intelligenza o invece, più
raramente, pezzi di puro
abbandono al colore, alla
visibilità, alla descrittività.
Quando lo scrittore è ispirato,
la sua sensibilità, la sua
capacità di vedere, è guidata
intimamente da una intelligenza
vigile, esperta, che la conduce
in un regno di rapporti più
misteriosi e profondi; e la
sensibilità li rende chiari,
morbidi, evidenti. E l'incanto
maggiore nasce da questa
collaborazione, nasce dall'aria
vitrea, matematica, acre
dell'intelligenza e dal calore,
dalla concretezza della
sensibilità, che si fondono nei
momenti migliori in un unico
tono. Se prendiamo il saggio
iniziale di Pesci rossi, noi ci
avviciniamo subito in questa
operazione di alta letteratura,
scopriamo il metodo di Cecchi :
vi sono dei pesci rossi visti in
un globo di vetro: ecco il dato
primo della sensibilità. Ma non
son visti superficialmente, così
come sono; sono visti nel
segreto dei loro movimenti:
«nuotavano con uno slancio, un
gusto di inflessioni del loro
corpo sodo, una varietà di
accostamenti a pinne tese, come
se venissero liberi per un
grande spazio. Erano
prigionieri. Ma s'erano portati
dietro in prigione l'infinito.
Il più straordinario però era
questo: soltanto visti di
profilo eran pesci veri e
propri». Ecco l'intervento
dell'intelligenza che libera
l'immagine dalla sua fissità. I
pesci rossi sono l'immagine di
altri rapporti più profondi: «di
faccia eran vecchi mostri
arcigni dell'epoca dei Han:
draghi millenari imbronciati;
una maschera rossa di malinconia
impersonale o disumana. Di
profilo evocavano canneti e
graziose scogliere». E il gusto
si accresce nel descrivere, si
raffina, si allarga, si muove
ormai in un'atmosfera irreale,
magica in cui nasce spontanea
un'altra immagine, un altro
riferimento: i pesci rossi nella
loro mostruosità indefinibile
suggeriscono, evocano l'immagine
dell'oriente, di un mistero
grave di brividi, libero da
precise determinazioni; ed ecco
che la cultura dello scrittore
entra, libera da ogni severità
critica, e delle citazioni di
poesie giapponesi vengono ad
accrescere l'impressione del
mostruoso che può essere sempre
presente in un idillio
orientale: «Tutte le volte che
una poesia dell'antica Cina o
del nuovo Giappone mi
trasportava nell'atmosfera del
più insospettabile idillio,
sapevo che bastava guardarvi un
po' meglio e fra l'erba del
prato idillico avrei visto
luccicare la coda di un drago, e
fra i rami dell'arbusto il viso
argenteo di uno spettro. Tutte
le volte che nell'angolo di una
pittura scorgevo il pellegrino o
la volpe o il gallo cedrone
stringersi, rannicchiarsi come
impauriti sotto il dilagare del
cielo, sapevo che essi avevano
non una, ma mille ragioni di
spavento perché quel cielo era
davvero troppo bianco e troppo
deserto per non essere un cielo
serpeggiato di invisibili
demoni». Oriente, un polo
dell'umanità di fronte a cui è
l'Occidente, amante del limite,
dell'unità del mondo: «Per noi
la fantasia e il sogno hanno da
essere soprattutto credibili,
organici, penetrabili, abitabili
e si direbbe comuni. E per
questi altri hanno da essere
soprattutto remoti e strani».
Ecco la linea di un saggio
cecchiano: uno sviluppo di
immagini e di intuizioni
dell'intelligenza che si
fondono, si aiutano; ecco la
linea del suo movimento snello e
penetrante, magico e familiare.