SPIRITO E LINGUAGGIO DI
PRATOLINI
Una profonda pietà vive in
[Pratolini] verso le colpe delle
creature, ma anche una spontanea
avversione verso quell'abitudine
della colpa che fa chiamarsi
diritto nella costituzione di
una società egoistica. Dice già
nei primi scritti: «Tu hai
cercato di salvare nel cuore la
pietà», e gli avviene di
accennare a una «volontà di
proteggere lei e me nel
ricordo», pietà nel rifugio
della memoria.
Questa pietà è vigile e nasce
dalla tenerezza stupita, primo
sentimento del Pratolina verso
le azioni e le cose degli
uomini, come verso gli aspetti
della natura. Tenerezza e
meraviglia, doni per eccellenza
poetici, sono alla prima origine
e sostanza del suo guardare,
udire, toccare, patire e perciò
esser capaci di gioia, come
mesta speranza di più generoso
vivere.
Di meraviglie quotidiane parla
egli stesso nel principio delle
Amiche, e altra volta dice: «il
mio stupore delle cose»: e anche
dice che ormai la sola
meraviglia che resiste è quella
del tempo, immenso e breve,
tristemente crudele ed equanime
con lui e con suo padre. Nel
fatto la meraviglia è sempre nel
suo stile, che evoca quel primo
stupore delle sue scoperte.
Ma questa tenerezza stupita e
pietosa non basterebbe a fare
uno scrittore, sebbene non sia
concepibile in alcun uomo senza
il fondamentale senso della
parola, prima e universale
poesia di ogni Adamo e ciò
spiega l'infinita poesia non
scritta che aiuta gli uomini a
vivere e che si alimenta
principalmente di quella dei
grandi scrittori, anche se i
poeti elementari, che son tutti
gli uomini, compresi gli aridi
contabili, di quel debito non si
accorgono. Perché la poesia e la
filosofia propriamente dette,
che altro sono se non le custodi
sacre di una comune facoltà
degli uomini, anzi della facoltà
che li fa uomini? essere uomini
significa essere poeti, dar nome
alle cose e alle azioni: ma
poeti, nel senso eccellente di
questa voce, chiamiamo coloro
che hanno l'ufficio sacrale di
custodire la purezza della
parola e perciò dell'umano e
difenderla dall'inerzia e
dall'abitudine, e finalmente
dalla menzogna, che non è parola
ma antiparola, e vale per la
verità che vuol celare e non per
il falso che proclama, traendoci
assai spesso in inganno. E tutte
le colpe degli uomini sono
sempre una menzogna:
l'antiparola, l'antipoesia,
l'anticreazione.
In quanto poeta che alla parola
crede come alla sua missione,
Pratolina è ispirato da questa
tenerezza germinale, ove la
malinconia è il senso di tutte
le cose arcane nella volontà di
altri esseri umani o naturali o
soprannaturali, e la parola ne
palpita come in un brivido che
ha sempre la mestizia di non
poter chiudere l'infinito e
l'impossibile.
La sua speranza è l'occulto o
palese desiderio di un umano
riscatto e vive di questo
segreto accoramento, di questa
tenerezza albare della sua
meraviglia. E chi non è più
capace di meraviglia non è più
capace di bontà e di speranza.
Nella vita reale di un poeta il
sentimento delle cose, e la
volontà di tradurlo in una forma
che lo costruisca e lo renda
oggettivo, sono un medesimo
processo vitale. Questa sintesi
può essere analiticamente
distinta in una materia del
sentimento e in una forma che lo
rende parola universale; ma nel
fatto esse sono un solo moto
drammatico che si volge tra
chiarezze e oscurità, tra
l'umano e l'animale.
Pratolini ha dovuto scoprirsi da
sé il mondo poetico e lo stile:
e ha forse dovuto vincere
finanche la vicinanza degli
amici che cordialmente lo
sostenevano ma seguendo altre
tendenze dalle sue. Quel che
ancora in Tappeto verde, Via de'
Magazzini, Le amiche sente
l'aria letteraria in cui egli
primamente si mosse, cede ad una
più disinteressata memoria che
costruisce prima il quartiere,
poi l'opera incomparabilmente
più ricca del Pratolini, come è
uno dei più cospicui frutti del
nostro tempo letterario,
Cronache di poveri amanti. In
ogni suo libro si possono
trovare antologicamente, come
abbiamo detto, pagine da
preferire a parecchie di questo
romanzo; ma è raffinatezza
fuorviata prediligere quelle più
gracili esperienze di fronte a
questa sintesi.
Un indizio delle sue letture si
cava da vari cenni: Dante,
Manzoni dei Promessi sposi,
Dickens, Dostoevskij, Jack
London, Molnar, Lermontov,
Carco, Lorca, Ungaretti e
Montale, di cui ad epigrafe del
Quartiere egli cita.
Codesto solo oggi possiamo
dirti: ciò che non siamo, ciò
che non vogliamo.
E si devono aggiungere per la
sua formazione i giovani
compagni di Campo di Marte, e
anche più l'influsso del
racconto cinematografico e
talora della tecnica del film,
compiutamente trasposta nella
tecnica verbale. La parola è pur
sempre la sola arte del tutto
autonoma, e ogni altra forma
d'arte è contenuta nella parola
(coscienza fondamentale
dell'uomo) e della parola
variamente ha bisogno.
Una lingua, questa del
Pratolini, per niente
letteraria, che si educò nella
naturale parlata fiorentina: una
lingua fluida, persuasiva, il
più delle volte senza esornata
eloquenza.
Una sintassi ben modulata ove
predominava nel principio
l'imperfetto, non quello
ottocentesco degli antefatti ma
quello di azioni che si
susseguono nell'ordine: sicché
fu novità in Cronache di poveri
amanti il largo uso del presente
storico. Non proposizioni
gerundive, non ampio gioco di
tempi e modi.
Uno stile preciso e pur sempre
allusivo, con un dialogo o
diretto o a contrappunto, ove
talvolta, in ideale
simultaneità, come strumenti a
due a due (coppie di innamorati
o comunque un uomo e una donna),
le situazioni si adunano, si
sciolgono, danzano, ristanno.
Che cosa si vorrebbe ancora? una
più lenta elaborazione della
frase e dei suoni che la
compongono, sì da evitare gli
incontri sgradevoli o le
ripetizioni immotivate: e
insomma anche per la
composizione delle sillabe e
lettere l'attenzione che il
Pratolini sa portare alla
composizione della trama in
Cronache di poveri amanti:
quella virtù di rendere
impossibile per ragioni di suono
o ritmo o rilievo una
trasposizione, in un movimento
di parola, anzi di sillaba, che
è il dono e la fatica dei grandi
scrittori: quella, ad esempio,
per la quale non è possibile
scrivere «La vita bene spesa è
lunga» dove Leonardo ha scritto
«La vita bene spesa lunga è»,
facendo gravitare sull'è finale
tutta la proposizione, e
conferendo all'idea una gravità
ed una autorità che risiedono
proprio nelle giaciture e negli
accenti. Direi che Pratolini
debba lavorare la prosa come si
lavora o si lavorava il verso,
non già per far versi ma per
trovare il tono che non potrà
più essere evitato. E senza che
ciò significhi estetismo o
sonorismo, fatti esterni e
deteriori: anzi ritmo
essenziale. Non si chiede la
politezza puramente esteriore,
contro la quale ha reagito l'età
post-dannunziana; si chiede la
necessità tonale, in cui si
attua la più intima verità di
uno stile. Ma Pratolini ha come
pochi la virtù di costruire un
mondo poetico, con quell'equilibrio
che è l'eredità di una
letteratura e di un'arte
classica, anche se a lui,
autodidatta, quella classicità
si offrì principalmente nella
visione di Firenze e nella
parlata del suo popolo. La
classicità non è la serie dei
nostri grandi libri, che certo
aiutano a meglio intender
l'uomo: è un modo di sentire e
di pensare, mutando la
meraviglia in una forma
oggettiva.