IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

SPIRITO E LINGUAGGIO DI PRATOLINI

 

 

Una profonda pietà vive in [Pratolini] verso le colpe delle creature, ma anche una spontanea avversione verso quell'abitudine della colpa che fa chiamarsi diritto nella costituzione di una società egoistica. Dice già nei primi scritti: «Tu hai cercato di salvare nel cuore la pietà», e gli avviene di accennare a una «volontà di proteggere lei e me nel ricordo», pietà nel rifugio della memoria.
Questa pietà è vigile e nasce dalla tenerezza stupita, primo sentimento del Pratolina verso le azioni e le cose degli uomini, come verso gli aspetti della natura. Tenerezza e meraviglia, doni per eccellenza poetici, sono alla prima origine e sostanza del suo guardare, udire, toccare, patire e perciò esser capaci di gioia, come mesta speranza di più generoso vivere.
Di meraviglie quotidiane parla egli stesso nel principio delle Amiche, e altra volta dice: «il mio stupore delle cose»: e anche dice che ormai la sola meraviglia che resiste è quella del tempo, immenso e breve, tristemente crudele ed equanime con lui e con suo padre. Nel fatto la meraviglia è sempre nel suo stile, che evoca quel primo stupore delle sue scoperte.

Ma questa tenerezza stupita e pietosa non basterebbe a fare uno scrittore, sebbene non sia concepibile in alcun uomo senza il fondamentale senso della parola, prima e universale poesia di ogni Adamo e ciò spiega l'infinita poesia non scritta che aiuta gli uomini a vivere e che si alimenta principalmente di quella dei grandi scrittori, anche se i poeti elementari, che son tutti gli uomini, compresi gli aridi contabili, di quel debito non si accorgono. Perché la poesia e la filosofia propriamente dette, che altro sono se non le custodi sacre di una comune facoltà degli uomini, anzi della facoltà che li fa uomini? essere uomini significa essere poeti, dar nome alle cose e alle azioni: ma poeti, nel senso eccellente di questa voce, chiamiamo coloro che hanno l'ufficio sacrale di custodire la purezza della parola e perciò dell'umano e difenderla dall'inerzia e dall'abitudine, e finalmente dalla menzogna, che non è parola ma antiparola, e vale per la verità che vuol celare e non per il falso che proclama, traendoci assai spesso in inganno. E tutte le colpe degli uomini sono sempre una menzogna: l'antiparola, l'antipoesia, l'anticreazione.
In quanto poeta che alla parola crede come alla sua missione, Pratolina è ispirato da questa tenerezza germinale, ove la malinconia è il senso di tutte le cose arcane nella volontà di altri esseri umani o naturali o soprannaturali, e la parola ne palpita come in un brivido che ha sempre la mestizia di non poter chiudere l'infinito e l'impossibile.
La sua speranza è l'occulto o palese desiderio di un umano riscatto e vive di questo segreto accoramento, di questa tenerezza albare della sua meraviglia. E chi non è più capace di meraviglia non è più capace di bontà e di speranza. Nella vita reale di un poeta il sentimento delle cose, e la volontà di tradurlo in una forma che lo costruisca e lo renda oggettivo, sono un medesimo processo vitale. Questa sintesi può essere analiticamente distinta in una materia del sentimento e in una forma che lo rende parola universale; ma nel fatto esse sono un solo moto drammatico che si volge tra chiarezze e oscurità, tra l'umano e l'animale.

Pratolini ha dovuto scoprirsi da sé il mondo poetico e lo stile: e ha forse dovuto vincere finanche la vicinanza degli amici che cordialmente lo sostenevano ma seguendo altre tendenze dalle sue. Quel che ancora in Tappeto verde, Via de' Magazzini, Le amiche sente l'aria letteraria in cui egli primamente si mosse, cede ad una più disinteressata memoria che costruisce prima il quartiere, poi l'opera incomparabilmente più ricca del Pratolini, come è uno dei più cospicui frutti del nostro tempo letterario, Cronache di poveri amanti. In ogni suo libro si possono trovare antologicamente, come abbiamo detto, pagine da preferire a parecchie di questo romanzo; ma è raffinatezza fuorviata prediligere quelle più gracili esperienze di fronte a questa sintesi.
Un indizio delle sue letture si cava da vari cenni: Dante, Manzoni dei Promessi sposi, Dickens, Dostoevskij, Jack London, Molnar, Lermontov, Carco, Lorca, Ungaretti e Montale, di cui ad epigrafe del Quartiere egli cita.
Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
E si devono aggiungere per la sua formazione i giovani compagni di Campo di Marte, e anche più l'influsso del racconto cinematografico e talora della tecnica del film, compiutamente trasposta nella tecnica verbale. La parola è pur sempre la sola arte del tutto autonoma, e ogni altra forma d'arte è contenuta nella parola (coscienza fondamentale dell'uomo) e della parola variamente ha bisogno.

Una lingua, questa del Pratolini, per niente letteraria, che si educò nella naturale parlata fiorentina: una lingua fluida, persuasiva, il più delle volte senza esornata eloquenza.
Una sintassi ben modulata ove predominava nel principio l'imperfetto, non quello ottocentesco degli antefatti ma quello di azioni che si susseguono nell'ordine: sicché fu novità in Cronache di poveri amanti il largo uso del presente storico. Non proposizioni gerundive, non ampio gioco di tempi e modi.
Uno stile preciso e pur sempre allusivo, con un dialogo o diretto o a contrappunto, ove talvolta, in ideale simultaneità, come strumenti a due a due (coppie di innamorati o comunque un uomo e una donna), le situazioni si adunano, si sciolgono, danzano, ristanno.

Che cosa si vorrebbe ancora? una più lenta elaborazione della frase e dei suoni che la compongono, sì da evitare gli incontri sgradevoli o le ripetizioni immotivate: e insomma anche per la composizione delle sillabe e lettere l'attenzione che il Pratolini sa portare alla composizione della trama in Cronache di poveri amanti: quella virtù di rendere impossibile per ragioni di suono o ritmo o rilievo una trasposizione, in un movimento di parola, anzi di sillaba, che è il dono e la fatica dei grandi scrittori: quella, ad esempio, per la quale non è possibile scrivere «La vita bene spesa è lunga» dove Leonardo ha scritto «La vita bene spesa lunga è», facendo gravitare sull'è finale tutta la proposizione, e conferendo all'idea una gravità ed una autorità che risiedono proprio nelle giaciture e negli accenti. Direi che Pratolini debba lavorare la prosa come si lavora o si lavorava il verso, non già per far versi ma per trovare il tono che non potrà più essere evitato. E senza che ciò significhi estetismo o sonorismo, fatti esterni e deteriori: anzi ritmo essenziale. Non si chiede la politezza puramente esteriore, contro la quale ha reagito l'età post-dannunziana; si chiede la necessità tonale, in cui si attua la più intima verità di uno stile. Ma Pratolini ha come pochi la virtù di costruire un mondo poetico, con quell'equilibrio che è l'eredità di una letteratura e di un'arte classica, anche se a lui, autodidatta, quella classicità si offrì principalmente nella visione di Firenze e nella parlata del suo popolo. La classicità non è la serie dei nostri grandi libri, che certo aiutano a meglio intender l'uomo: è un modo di sentire e di pensare, mutando la meraviglia in una forma oggettiva.

Francesco Flora

© 2009 - Luigi De Bellis