IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

CASSOLA E "IL TAGLIO DEL BOSCO"

 

 

Cassola è ormai l'autore di otto libri; fra i più impegnativi i romanzi Fausto e Anna e il recentissimo La ragazza di Bube. Per quasi tutti i suoi racconti e romanzi c'è preliminarmente da chiarire un suo atteggiamento di fronte alla realtà: a un primo contatto, questo sembra esser null'altro che una rigida volontà documentaristica. Ma presto ci si accorge come la realtà di Cassola non sia fatta di cose, bensì di discorsi umani, e dunque di pensieri e affetti e condizioni umane della vita. Il suo narrare non è quasi mai descrizione, ma è ancora azione. Non ha importanza che egli parli quasi sempre in terza persona: si sa bene che ormai il parlare in prima persona non sia, e non appaia al lettore, che una pura finzione letteraria. Sta di fatto che il suo discorrere è sempre tutto una dimostrazione di fatti umani, di semplici sentimenti, di elementari situazioni: perché Cassola predilige portare il racconto fra gente semplice, della sua Toscana meridionale, tra colline volterrane e maremme, tra artigiani e contadini, e il suo ricordo corre spesso ai tempi della guerra partigiana e da questa zona spesso prende avvio il suo narrare per portarsi all'oggi o ad un ieri molto prossimo: comunque ai margini più vicini di un'esperienza che ancora noi stiamo vivendo. E non si vuol dire che ci sia nell'opera di Cassola un perdurante, irrisolto elemento biografico. Questo, anche se compare, come compare in ogni forte personalità di narratore, viene via via illimpidendosi e consumandosi in un richiamo più libero e più diretto alla fantasia. Perché in Cassola c'è una dimensione di poesia naturale, condizione di quella sua poetica fondata sulla realtà e pronta a comunicarsi dalle cose all'uomo.

A questa condizione preliminare della sua narrativa Cassola è giunto attraverso una distillazione, nella sua esperienza, di esempi, che possono apparire molto generici quando richiamino Vittorini e Pavese, ma che divengono molto circostanziati quando rimandino al toscano Bilenchi... L'esperienza della narrativa bilenchiana, che raccoglieva moderatamente i vari fermenti di protesta che nel clima solariano potevano già aver avuto una manifestazione e, pur restando libera e assolutamente autonoma, si confaceva in modo estremamente corretto alle richieste di una letteratura nuova del tempo tra il '30 e il '40, e cioè tra le esperienze diverse ma storicamente connesse di riviste come «Solaria» (1926-1936) e «Letteratura» (1937-1940), è per Cassola di estrema importanza. Non che sia la sola, evidentemente. Intanto, cresciuto alla letteratura narrativa in un tempo che vedeva continuare sotto varie forme la «prosa d'arte» e che insieme vedeva il diffondersi del neorealismo, egli da queste posizioni si difendeva e si distingueva andando alla ricerca di una dimensione di narrativa pura, antiprogrammatica, sollecitata da un accostamento alle cose e agli uomini che poteva anche apparire ingenuo a chi fosse stimolato soprattutto da esigenze di complessi alchimismi verbali e che, di conseguenza, si impedisse di vedere nel lineare e prosastico linguaggio del Cassola qualcosa di veramente positivo. Ma poi egli francamente rilevava il suo amore per una narrativa di cose e di personaggi in movimento, di storie tutte umanamente semplici e proprio in questo ricche, che con tutta modestia riagganciava alla narrativa ottocentesca dei grandi romanzi francesi (in un'esperienza diretta e fruttificante anche esempi di linguaggio) e russi (in una esperienza fatta su traduzioni anche pessime), e poi a Joyce dei Dubliners (per la forza di cose umane che non si nascondeva neppure nel piatto esercizio di cattivi e improvvisati traduttori). Ma continuare a citar fonti, al di là di questa scelta essenziale è un po' inutile: ché le influenze sono tante per uno scrittore colto come Cassola, e forse indecifrabili a lui stesso, fra francesi e russi, veristi e neorealisti. Il segno sempre riconoscibile della sua misura di narratore, anche fra vari fallimenti non trascurabili, è l'interesse per un'umanità fatta di caratteri e di sentimenti, di cose quotidiane che nella loro qualità disadorna rivelano veramente la più segreta intimità...

Recentemente, parlando del suo ultimo romanzo, La ragazza di Bube, mentre difendeva l'attualità del romanzo e in genere della dimensione narrativa dell'arte contro chi parla di crisi del «genere» romanzo e, di conseguenza, cerca di adeguare il narrare ad una sostanza lirica che naturalmente finisce nella ricerca tecnica e stilistica, egli sosteneva la necessità della fantasia di fronte all'esercizio dell'intelligenza. Con l'intelligenza, diceva, Flaubert ha creato Bouvard et Pecouchet, ma con la fantasia ha creato Madame Bovary: i narratori «intelligenti» si gustano nel momento della lettura, ma Tolstoi, Dostojewski e Lawrence restano ben di là della lettura: incidono sull'animo, sulla vita e sul modo di guardare al mondo. Né ci si salva con l'ironia, ma con una totale guardatura umana sull'uomo: poiché tutti i grandi personaggi, concludeva, sono tragici. E aggiungeva, contro chi gli pareva carico di preoccupazioni ideologiche nel giudicare il suo ultimo romanzo come una dichiarazione di fallimento della resistenza, che per leggere un romanzo bisogna saper abbandonarsi alla lettura e che solo così si riescono a comprendere dall'interno le ragioni delle azioni degli uomini fatti personaggi. Questo ch'egli pensa di sé ha certamente la validità di una dichiarazione di «poetica», che comprende una sua idea sull'arte di narrare (e sull'arte della letteratura in genere) e una sua nozione interna al suo modo di dirigersi, di trovare la propria strada. Ma qui preme sottolineare, a conforto di quell'urgere di rappresentazione di umanità che si è detta condizione fondamentale del suo narrare, la sua volontà di puntare su di un libero esercizio della fantasia piuttosto che su uno sforzo di invenzione...

Il taglio del bosco è la storia di un gruppo di boscaioli che restano mesi e mesi isolati nella macchia tra le colline della Toscana meridionale; è la storia delle loro varie reazioni, dei loro vari affetti, della loro speranza e della loro sottile disperazione. È principalmente la storia di Guglielmo, l'imprenditore del taglio del bosco, e della sua fuga dalle cose care, della sua disperazione per la morte della moglie. Il racconto anche qui si svolge lento, volto a notare ogni più piccola azione o reazione interiore, pregno di una enorme tristezza, di quel senso di interiore solitudine che si dilata nella continuata separazione di quei pochi uomini dal mondo. Ma sono gli atti, pieni di umana dignità, di un'enorme semplicità che muovono il racconto dall'interno. Questi atti elementari sono compiuti anche perché soffocano colla loro quotidianità un mondo in tumulto.
La luna illuminava una striscia di impiantito. Guglielmo fece scattare l'interruttore. La camera ne restò debolmente illuminata. Era piccola, con l'impiantito di mattoni e il soffitto a travatura. Il letto matrimoniale, l'armadio e il cassettone occupavano quasi tutto lo spazio. Guglielmo si tolse la giacca e, appressatosi al cassettone, cavò l'orologio e lo depose sul marmo. Lo sguardo gli cadde sulla fotografia della moglie, ma lo distolse subito.
Quest'onda di sentimenti in contrasto con le necessità, con il doloroso obbligo del coraggio quotidiano e della fatica di ricordare e pensare, costituisce, in un ritmo disteso sempre più vasto e più profondo, il tessuto vero della narrazione...

Di fronte agli atti consueti, che distendono e alleviano la fatica di vivere, ci sono gli attimi di riposo, in cui la mente ricomincia a riandare a quanto è irrimediabilmente perduto, in un timore di perdersi, in un riconoscimento di un'intima mancanza di volontà di vivere. Guglielmo era stanco e sedette fuori del capanno. La pendice di fronte era interamente in ombra. Il taglio aveva la forma di triangolo isoscele: il torrente ne costituiva la base e i tre alberi isolati il vertice. Ora l'abbracciava con uno sguardo d'insieme, ora aveva l'occhio ai confini: risaliva il sentiero, correggendone mentalmente le rientranze; scendeva lungo la tagliata e di là saltava alla scanalatura, percorrendola con lo sguardo fino al punto in cui strapiombava sul torrente. La macchia cupa dei lecci lo rallegrava quanto il bianco filiforme dei carpini e dei frassini e il verde chiaro dei pini; la traccia rossastra del sentiero come la striscia livida della scanalatura.

Il lavoro distrae e allontana dai consueti dolorosi ricordi della mente e a questo servono anche gli ingarbugliati racconti di Francesco, cuoco e insieme novellatore del gruppo: serve perfino seguire le inutili e interminabili partite a carte durante le lunghe sere d'inverno nel capanno. Ma non si può impedire che sempre quei ricordi e quei pensieri ritornino. Se gli stati d'animo di Guglielmo sono seguiti con pazienza nel loro svolgersi, gli altri personaggi hanno ognuno un carattere, che si esprime in umori, in speranze, in mezze parole magari: la socievolezza di Francesco, l'acre, silenziosa solitudine di Fiore soprattutto. Viene Natale e, mentre i più se ne ritornano a casa per pochi giorni, Guglielmo e Fiore restano nella macchia; ma anche in questo particolare momento le confidenze nascono a fatica, si è quasi schivi di parole e la solitudine che è dentro sale come una marea. Così il tempo si svolge senza sorprese, tutto volto a questa indagine sui sentimenti e sui caratteri: ci sono ancora molte pagine di intensità straordinaria, come quelle della notte che Guglielmo passa in uno scarno colloquio col carbonaio, e ne segue gli atti, come a studiare, nella solitudine di quegli, la propria. Fino alla pagina conclusiva, in cui Guglielmo torna a casa e si ferma, prima, al cancello del camposanto.
Aveva messo il sacco a terra, e si era appoggiato al cancello del camposanto. Non gli era mai accaduto di sentirsi così disperato, nemmeno nei giorni della disgrazia. Per qualche momento farneticò addirittura: pensava di stendersi li in terra e lasciarsi morire.

«Rosa» mormorò. «Rosa» disse ad alta voce. «Rosa, aiutami tu. Rosa, mandami un po' di rassegnazione!».
Un rumore di passi lo fece voltare. Distinse la brace ardente di un sigaro e una figura confusa che veniva su per la strada.
«Vuoi una mano, Guglielmo?» disse l'uomo passandogli accanto.
«No, grazie» rispose Guglielmo. «Faccio da me».
Aspettò che l'uomo si fosse allontanato, rimise il sacco in spalla e riprese il cammino.
Pensava che Rosa avrebbe dovuto aiutarlo. Non era possibile continuare così. Lassù dal cielo doveva dargli la forza di vivere. E guardò in alto. Ma era tutto buio, non c'era una stella.

Il taglio del bosco è certamente un grande racconto, non solo per l'unità del tono, dell'atmosfera che sa creare, ma soprattutto perché in quel lineare sforzo di una narrativa semplice e naturale non si trovano battute false; perché il mondo sentimentale dei personaggi si sente crescere come un dramma denso, e tutti i personaggi, quelli che appena compaiono e quelli che sono al centro del racconto, sono necessari.

Riccardo Scrivano

© 2009 - Luigi De Bellis