CASSOLA E "IL TAGLIO DEL BOSCO"
Cassola è ormai l'autore di otto
libri; fra i più impegnativi i
romanzi Fausto e Anna e il
recentissimo La ragazza di Bube.
Per quasi tutti i suoi racconti
e romanzi c'è preliminarmente da
chiarire un suo atteggiamento di
fronte alla realtà: a un primo
contatto, questo sembra esser
null'altro che una rigida
volontà documentaristica. Ma
presto ci si accorge come la
realtà di Cassola non sia fatta
di cose, bensì di discorsi
umani, e dunque di pensieri e
affetti e condizioni umane della
vita. Il suo narrare non è quasi
mai descrizione, ma è ancora
azione. Non ha importanza che
egli parli quasi sempre in terza
persona: si sa bene che ormai il
parlare in prima persona non
sia, e non appaia al lettore,
che una pura finzione
letteraria. Sta di fatto che il
suo discorrere è sempre tutto
una dimostrazione di fatti
umani, di semplici sentimenti,
di elementari situazioni: perché
Cassola predilige portare il
racconto fra gente semplice,
della sua Toscana meridionale,
tra colline volterrane e
maremme, tra artigiani e
contadini, e il suo ricordo
corre spesso ai tempi della
guerra partigiana e da questa
zona spesso prende avvio il suo
narrare per portarsi all'oggi o
ad un ieri molto prossimo:
comunque ai margini più vicini
di un'esperienza che ancora noi
stiamo vivendo. E non si vuol
dire che ci sia nell'opera di
Cassola un perdurante, irrisolto
elemento biografico. Questo,
anche se compare, come compare
in ogni forte personalità di
narratore, viene via via
illimpidendosi e consumandosi in
un richiamo più libero e più
diretto alla fantasia. Perché in
Cassola c'è una dimensione di
poesia naturale, condizione di
quella sua poetica fondata sulla
realtà e pronta a comunicarsi
dalle cose all'uomo.
A questa condizione preliminare
della sua narrativa Cassola è
giunto attraverso una
distillazione, nella sua
esperienza, di esempi, che
possono apparire molto generici
quando richiamino Vittorini e
Pavese, ma che divengono molto
circostanziati quando rimandino
al toscano Bilenchi...
L'esperienza della narrativa
bilenchiana, che raccoglieva
moderatamente i vari fermenti di
protesta che nel clima solariano
potevano già aver avuto una
manifestazione e, pur restando
libera e assolutamente autonoma,
si confaceva in modo
estremamente corretto alle
richieste di una letteratura
nuova del tempo tra il '30 e il
'40, e cioè tra le esperienze
diverse ma storicamente connesse
di riviste come «Solaria»
(1926-1936) e «Letteratura»
(1937-1940), è per Cassola di
estrema importanza. Non che sia
la sola, evidentemente. Intanto,
cresciuto alla letteratura
narrativa in un tempo che vedeva
continuare sotto varie forme la
«prosa d'arte» e che insieme
vedeva il diffondersi del
neorealismo, egli da queste
posizioni si difendeva e si
distingueva andando alla ricerca
di una dimensione di narrativa
pura, antiprogrammatica,
sollecitata da un accostamento
alle cose e agli uomini che
poteva anche apparire ingenuo a
chi fosse stimolato soprattutto
da esigenze di complessi
alchimismi verbali e che, di
conseguenza, si impedisse di
vedere nel lineare e prosastico
linguaggio del Cassola qualcosa
di veramente positivo. Ma poi
egli francamente rilevava il suo
amore per una narrativa di cose
e di personaggi in movimento, di
storie tutte umanamente semplici
e proprio in questo ricche, che
con tutta modestia riagganciava
alla narrativa ottocentesca dei
grandi romanzi francesi (in
un'esperienza diretta e
fruttificante anche esempi di
linguaggio) e russi (in una
esperienza fatta su traduzioni
anche pessime), e poi a Joyce
dei Dubliners (per la forza di
cose umane che non si nascondeva
neppure nel piatto esercizio di
cattivi e improvvisati
traduttori). Ma continuare a
citar fonti, al di là di questa
scelta essenziale è un po'
inutile: ché le influenze sono
tante per uno scrittore colto
come Cassola, e forse
indecifrabili a lui stesso, fra
francesi e russi, veristi e
neorealisti. Il segno sempre
riconoscibile della sua misura
di narratore, anche fra vari
fallimenti non trascurabili, è
l'interesse per un'umanità fatta
di caratteri e di sentimenti, di
cose quotidiane che nella loro
qualità disadorna rivelano
veramente la più segreta
intimità...
Recentemente, parlando del suo
ultimo romanzo, La ragazza di
Bube, mentre difendeva
l'attualità del romanzo e in
genere della dimensione
narrativa dell'arte contro chi
parla di crisi del «genere»
romanzo e, di conseguenza, cerca
di adeguare il narrare ad una
sostanza lirica che naturalmente
finisce nella ricerca tecnica e
stilistica, egli sosteneva la
necessità della fantasia di
fronte all'esercizio
dell'intelligenza. Con
l'intelligenza, diceva, Flaubert
ha creato Bouvard et Pecouchet,
ma con la fantasia ha creato
Madame Bovary: i narratori
«intelligenti» si gustano nel
momento della lettura, ma
Tolstoi, Dostojewski e Lawrence
restano ben di là della lettura:
incidono sull'animo, sulla vita
e sul modo di guardare al mondo.
Né ci si salva con l'ironia, ma
con una totale guardatura umana
sull'uomo: poiché tutti i grandi
personaggi, concludeva, sono
tragici. E aggiungeva, contro
chi gli pareva carico di
preoccupazioni ideologiche nel
giudicare il suo ultimo romanzo
come una dichiarazione di
fallimento della resistenza, che
per leggere un romanzo bisogna
saper abbandonarsi alla lettura
e che solo così si riescono a
comprendere dall'interno le
ragioni delle azioni degli
uomini fatti personaggi. Questo
ch'egli pensa di sé ha
certamente la validità di una
dichiarazione di «poetica», che
comprende una sua idea sull'arte
di narrare (e sull'arte della
letteratura in genere) e una sua
nozione interna al suo modo di
dirigersi, di trovare la propria
strada. Ma qui preme
sottolineare, a conforto di
quell'urgere di rappresentazione
di umanità che si è detta
condizione fondamentale del suo
narrare, la sua volontà di
puntare su di un libero
esercizio della fantasia
piuttosto che su uno sforzo di
invenzione...
Il taglio del bosco è la storia
di un gruppo di boscaioli che
restano mesi e mesi isolati
nella macchia tra le colline
della Toscana meridionale; è la
storia delle loro varie
reazioni, dei loro vari affetti,
della loro speranza e della loro
sottile disperazione. È
principalmente la storia di
Guglielmo, l'imprenditore del
taglio del bosco, e della sua
fuga dalle cose care, della sua
disperazione per la morte della
moglie. Il racconto anche qui si
svolge lento, volto a notare
ogni più piccola azione o
reazione interiore, pregno di
una enorme tristezza, di quel
senso di interiore solitudine
che si dilata nella continuata
separazione di quei pochi uomini
dal mondo. Ma sono gli atti,
pieni di umana dignità, di
un'enorme semplicità che muovono
il racconto dall'interno. Questi
atti elementari sono compiuti
anche perché soffocano colla
loro quotidianità un mondo in
tumulto.
La luna illuminava una striscia
di impiantito. Guglielmo fece
scattare l'interruttore. La
camera ne restò debolmente
illuminata. Era piccola, con
l'impiantito di mattoni e il
soffitto a travatura. Il letto
matrimoniale, l'armadio e il
cassettone occupavano quasi
tutto lo spazio. Guglielmo si
tolse la giacca e, appressatosi
al cassettone, cavò l'orologio e
lo depose sul marmo. Lo sguardo
gli cadde sulla fotografia della
moglie, ma lo distolse subito.
Quest'onda di sentimenti in
contrasto con le necessità, con
il doloroso obbligo del coraggio
quotidiano e della fatica di
ricordare e pensare,
costituisce, in un ritmo disteso
sempre più vasto e più profondo,
il tessuto vero della
narrazione...
Di fronte agli atti consueti,
che distendono e alleviano la
fatica di vivere, ci sono gli
attimi di riposo, in cui la
mente ricomincia a riandare a
quanto è irrimediabilmente
perduto, in un timore di
perdersi, in un riconoscimento
di un'intima mancanza di volontà
di vivere. Guglielmo era stanco
e sedette fuori del capanno. La
pendice di fronte era
interamente in ombra. Il taglio
aveva la forma di triangolo
isoscele: il torrente ne
costituiva la base e i tre
alberi isolati il vertice. Ora
l'abbracciava con uno sguardo
d'insieme, ora aveva l'occhio ai
confini: risaliva il sentiero,
correggendone mentalmente le
rientranze; scendeva lungo la
tagliata e di là saltava alla
scanalatura, percorrendola con
lo sguardo fino al punto in cui
strapiombava sul torrente. La
macchia cupa dei lecci lo
rallegrava quanto il bianco
filiforme dei carpini e dei
frassini e il verde chiaro dei
pini; la traccia rossastra del
sentiero come la striscia livida
della scanalatura.
Il lavoro distrae e allontana
dai consueti dolorosi ricordi
della mente e a questo servono
anche gli ingarbugliati racconti
di Francesco, cuoco e insieme
novellatore del gruppo: serve
perfino seguire le inutili e
interminabili partite a carte
durante le lunghe sere d'inverno
nel capanno. Ma non si può
impedire che sempre quei ricordi
e quei pensieri ritornino. Se
gli stati d'animo di Guglielmo
sono seguiti con pazienza nel
loro svolgersi, gli altri
personaggi hanno ognuno un
carattere, che si esprime in
umori, in speranze, in mezze
parole magari: la socievolezza
di Francesco, l'acre, silenziosa
solitudine di Fiore soprattutto.
Viene Natale e, mentre i più se
ne ritornano a casa per pochi
giorni, Guglielmo e Fiore
restano nella macchia; ma anche
in questo particolare momento le
confidenze nascono a fatica, si
è quasi schivi di parole e la
solitudine che è dentro sale
come una marea. Così il tempo si
svolge senza sorprese, tutto
volto a questa indagine sui
sentimenti e sui caratteri: ci
sono ancora molte pagine di
intensità straordinaria, come
quelle della notte che Guglielmo
passa in uno scarno colloquio
col carbonaio, e ne segue gli
atti, come a studiare, nella
solitudine di quegli, la
propria. Fino alla pagina
conclusiva, in cui Guglielmo
torna a casa e si ferma, prima,
al cancello del camposanto.
Aveva messo il sacco a terra, e
si era appoggiato al cancello
del camposanto. Non gli era mai
accaduto di sentirsi così
disperato, nemmeno nei giorni
della disgrazia. Per qualche
momento farneticò addirittura:
pensava di stendersi li in terra
e lasciarsi morire.
«Rosa» mormorò. «Rosa» disse ad
alta voce. «Rosa, aiutami tu.
Rosa, mandami un po' di
rassegnazione!».
Un rumore di passi lo fece
voltare. Distinse la brace
ardente di un sigaro e una
figura confusa che veniva su per
la strada.
«Vuoi una mano, Guglielmo?»
disse l'uomo passandogli
accanto.
«No, grazie» rispose Guglielmo.
«Faccio da me».
Aspettò che l'uomo si fosse
allontanato, rimise il sacco in
spalla e riprese il cammino.
Pensava che Rosa avrebbe dovuto
aiutarlo. Non era possibile
continuare così. Lassù dal cielo
doveva dargli la forza di
vivere. E guardò in alto. Ma era
tutto buio, non c'era una
stella.
Il taglio del bosco è certamente
un grande racconto, non solo per
l'unità del tono, dell'atmosfera
che sa creare, ma soprattutto
perché in quel lineare sforzo di
una narrativa semplice e
naturale non si trovano battute
false; perché il mondo
sentimentale dei personaggi si
sente crescere come un dramma
denso, e tutti i personaggi,
quelli che appena compaiono e
quelli che sono al centro del
racconto, sono necessari.