IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

I "CANTI ORFICI"

 

 

Nel 1914, alla vigilia della grande guerra, usciva presso l'editore Ravagli di Marradi, un modestissimo tipografo, il libro dei Canti Orfici di Dino Campana. La rozza copertina color granturco, la grossolana carta d'almanacco su cui era composto, i frequenti errori di stampa, non costituivano forse, agli occhi del ricercatore di curiosità, la minore attrattiva dello strano volume, dedicato addirittura a Guglielmo II Imperatore, e recante, a guisa d'epigrafe finale, la seguente iscrizione: «Die Tragódie der letzten Germanen in Italien». Anche nella forma esteriore, dunque, esso portava le tracce visibili dello squilibrio e della materiale miseria del suo autore: e gli squarci e i bagliori d'altra poesia che vi si rivelavano fin dalla prima fugace lettura non bastavano a togliergli ogni parentela con quella sorta d'opere reiette e diseredate, scritte da dolci maniaci di provincia, che l'anima curiosa e pietosa riesce talvolta a scoprire sui barroccini dei venditori ambulanti: L'aura della follia spirava attraverso le pagine del libro, illuminandovi panorami febbrili, gorghi di parole ossessionate e scampananti, assieme a riuscite mirabili, a colorite prospettive quasi sospese in un clima di musica soavissima e struggente, a invocazioni d'un disperato sapore umano. Quanti sono oggi a possedere questa prima edizione dei Canti Orfici, ormai introvabile, di cui forse un giorno si parlerà come di quella leggendaria prima edizione della Saison en enfer che Rimbaud tentò di distruggere prima della sua fuga dall'Europa?

Della vita di Campana, non meno leggendaria di quella del ribelle scolaro di Charleville, ormai si sa qualcosa: Bino Binazzi, nella affettuosa prefazione alla recente ristampa dei Canti (1928), ci parla della sua esistenza girovaga e venturosa, dei suoi viaggi da un capo all'altro del mondo, compiuti sobbarcandosi ai mestieri più umili e diversi, dal minatore al saltimbanco, dal poliziotto al suonatore ambulante: esistenza tumultuosa e disperata, che doveva seppellirlo, a meno di trent'anni nella celletta di un manicomio; ci dipinge la grande figura di Campana attraversante col suo passo di vagabondo straccione la variopinta bohème fiorentina e lacerbiana, ci descrive infine il suo desolato addio al mondo. Insomma, quanto basterebbe a un autore di «vies romancées» per costruire la più fantastica e avvincente delle biografie.

Giovanni Boine in una delle sue acute recensioni della Riviera Ligure, dove l'inquieto moralismo riusciva ad equilibrarsi delicatamente col gusto critico più sottile e sereno, dopo aver parlato dei pregi del libro di Campana, notava nella poesia italiana di allora « un fermento d'esaltazione, come un'ansia di novità e d'anarchia, un tumore d'angoscia che cerca sfogo » e la rettorica sui generis, rettorica della follia, che nella maggior parte dei casi risultava, al momento espressivo, da una simile disposizione. E soggiungeva: «Ma Campana è, se dio vuole, un pazzo sul serio. Epperciò Te deum». Senza parere, sotto la botta scherzosa era adombrata un'idea profonda. Esistono esperienze terribili che non è possibile contraffare a lumi d'intelletto discorsivo e di ragion teoretica. Opere come le Illuminations, o questi Canti Orfici, se anche destinate a determinare notevoli influense letterarie, dal momento che mettono in luce il palpito più intimo, la materia, per così dire, originale e informe della poesia, svelano un'ispirazione ancora profondamente implicata nel movimento carnale dell'esistenza, un disperato tentativo d'abdicazione alla sintesi intellettuale per assecondare senza sforzo la segreta durata, l'aereo respiro della vita indistinta, dove - la parola è senz'altro idea, e la realtà trabocca insensibilmente nel sogno. Si tratta quindi d'esperienze uniche ed irripetibili. La follia di Campana, come l'estasi visionaria di Rimbaud, sollecitata ad arte nel delirio di stanchezza delle grandi marce attraverso la pianura belga, rappresentano, per questi due «hors la loi», il sistema per raggiungere lo stato di grazia, la verginità dell'intuizione primordiale, la misteriosa alchimia del verbo, che, smarrendo il suo carico di significati culturali, i suoi segni intellettivi e storici, torna a convertirsi in ebbra musica o in ermetico simbolo. E la parola ha sempre in Campana questo carattere di melodiosità estatica, che suscita nel periodo tramato d'echi ritornanti come un largo movimento sinfonico, che accoglie un gioco di prospettive vaghe, cui unico legame sarà il gesto del poeta, intento a determinare le sue immaginazioni trasferendole sopra un piano di fissità illusoria e sublime. Anche nelle prose, dove pure l'ebbrezza del canto sembra spesso spegnersi in toni più riposati e bassi, e fioriscono visioni dai coloriti delicatissimi, verdi paesi di Toscana e di Liguria, la Verna e la Falterona in un'aria limpida e antica, i nodi sono rappresentati da impetuosi sbocchi verso una vertiginosa eloquenza musicale. «Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall'infinito del sogno. Lassù tra i mille e mille ticchettii le mille voci del silenzio svelata una giovane luce tra i tronchi, per sentieri di chiarie salivo: salivo alle Alpi, sullo sfondo bianco delicato mistero. Laghi, lassù tra gli scogli chiare gore vegliate dal sorriso del sogno, le chiare gore i laghi estatici dell'oblio, che tu Leonardo fingevi». Il paesaggio acquista, nelle ampie riprese vocali, un incanto lievemente allucinato: «Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato da croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull'ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio, colomba, addio!» «A l'antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell'aria pura si prevede sotto il cielo il mare. L'aria pura è appena segnata da nubi leggere. L'aria è rosa. Un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura...».

Pochi poeti contemporanei, crediamo, si prestano meglio di Dino Campana alle citazioni staccate. E veramente, se di lui sopravvivessero soltanto alcuni frammenti, lo storico dell'avvenire potrebbe idealmente ricostruire sulla loro scorta un grandioso organismo di poesia. Fedeli al nostro metodo, di rintracciare nell'opera letteraria l'intimo principio unitario e operativo dell'ispirazione che vi si manifesta, non ci lasceremo tentare dai comodi dualismi, facendo di Campana un grande poeta rovinato dalla follia, e scindendo con un taglio troppo netto quanto nella sua opera è espressione raggiunta da quanto non è che ebbro vaneggiamento e incoerente frenesia. Il fatto è che la potenza evocativa di Campana non si scioglie che a stento dall'atmosfera febbrile che ne costituisce il fondo. La chiarezza a volte quasi tangibile delle sue visioni più pacate ha qualcosa dell'evidenza illusoria e pericolante dei sogni, tanto più palese quanto più irreale. Né ci ingannino i passi che, a primo aspetto, posson sembrare soltanto fresco impressionismo e notazione immediata, del. genere che avevan posto di moda a quel tempo i diari sofficiani (cfr. La Terna, Immagini di viaggio e della montagna). L'insidiosa musica intacca e dissolve da ogni parte le figurazioni più serenamente pittoriche, trascinandole alla fine nel suo vortice d'echi, dove le immagini s'accendono e si spengono al pari di fuochi fatui, in un palpito struggente e smarrito: «Io vidi dal ponte della nave / I colli di Spagna / Svanire, nel verde / Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando / Come una melodia! Blù, sulla riva dei colli ancora tremava una viola...» E, su questa strada, si giunge alla breve lirica di Batte botte dove l'impressione di un passo rintronante sul selciato crea ritmi stranamente concentrici e ossessivi, o a quella intitolata Genova, in cui il pensiero, fissatosi su tre o quattro parole, si frantuma addirittura per qualche pagina in un balbettio demente.

In fondo a questa ispirazione è sempre un senso continuo di perdizione e d'abbandono, il senso di perder terra, la vertiginosa libertà del vagabondo. Dalla pampa ai monti toscani, dal manicomio belga ai portici bolognesi, l'immaginazione anticipa il distacco, rende palpabile il ricordo, s'innesta nell'avvenimento per sconfinare in miti caotici. Dino Campana ha reso concreto l'anelito più sensibile della lirica nostra d'allora, che era di sciogliersi da ogni legame intellettuale e storico per tuffarsi nell'emozione vergine, per cogliere il flusso informe della realtà alla sua prima sorgente, per sopprimere il tempo in una smarrita adesione alle cose: ma, come s'è detto, una simile disposizione implicava ben altro che il semplice esercizio della poesia. Oggi, che guardiamo a molte cose con occhio più calmo, non si dice ancora che tale esperienza sia del tutto finita, e che non debba portar frutto.
Ma da quanto abbiamo scritto è agevole dedurre che non condividiamo del tutto l'opinione, espressa da qualche recente critico, di un Campana poeta classico e tradizionale tradito dall'epoca. È forse soltanto questione di parole, ma crediamo che classicità non possa sussistere senza ordine e sistema; e, come s'è visto, l'estro del Campana tendeva a ben altro che alle figurazioni pacate e al senso contemplante della vita. Certo si è che, nei suoi momenti più alti, egli sembra aspirare a una sorta di primitività scabra e solenne, a1 esempio nel poema in prosa La notte, dove figure di cortigiane e ricordi erotici sorgono come da una atmosfera affocata e immemoriale di rito barbarico. In altri, le immagini della campagna toscana, le limpide architetture latine appaiono e spaiono nella evanescente musica delineandosi colla purezza di frammenti antichi. Ma questo mondo sembra nella lirica di Campana, il frutto d'una irraggiungibile aspirazione, o talvolta di una estatica sosta sul suo tragico cammino, più che d'un saldo e naturale possesso. Forse la riposata bellezza delle architetture e delle piazze italiche, dei vichi dove al crepuscolo « ancora in alto battaglia il lungo giorno di fantasmi d'oro », rappresentano nella poesia del povero Dino ciò che le immagini di una ideale grecità significarono negli ultimi canti di un altro glorioso folle, del grande Hólderlin. Anche Campana, a quanto si dice, si riteneva un barbaro in esilio, anelante al mito mediterraneo e all'ebbrezza orfica. E la sua Musa non ebbe il fermo profilo delle Minerve, ma il volto fuggitivo d'una romantica creatura del Sogno:
 

  Non so se tra rocce il tuo pallido
viso m apparve, o sorriso
di lontananze ignote fosti...


E certo qualcosa di romantico egli ebbe, nelle lontananti melodiosità dei suoi versi, nel suo gusto di una prosa ritmica e sognante, se pure nella sua opera non ci è dato incontrare né il dramma culturale né l'irrompente ansia religiosa di un Hólderlin. Ma è con un simile atteggiamento che lo vediamo desolato volgersi, sulle soglie estreme della pazzia, a un ideale mondo di salute e di forza, avvolto nell'olimpica luce mediterranea, quale gli sorrideva, oltre il corruttibile tempo, dalla bianca gioventù delle statue.

Sergio Solmi

© 2009 - Luigi De Bellis