I "CANTI ORFICI"
Nel 1914, alla vigilia della
grande guerra, usciva presso
l'editore Ravagli di Marradi, un
modestissimo tipografo, il libro
dei Canti Orfici di Dino
Campana. La rozza copertina
color granturco, la grossolana
carta d'almanacco su cui era
composto, i frequenti errori di
stampa, non costituivano forse,
agli occhi del ricercatore di
curiosità, la minore attrattiva
dello strano volume, dedicato
addirittura a Guglielmo II
Imperatore, e recante, a guisa
d'epigrafe finale, la seguente
iscrizione: «Die Tragódie der
letzten Germanen in Italien».
Anche nella forma esteriore,
dunque, esso portava le tracce
visibili dello squilibrio e
della materiale miseria del suo
autore: e gli squarci e i
bagliori d'altra poesia che vi
si rivelavano fin dalla prima
fugace lettura non bastavano a
togliergli ogni parentela con
quella sorta d'opere reiette e
diseredate, scritte da dolci
maniaci di provincia, che
l'anima curiosa e pietosa riesce
talvolta a scoprire sui
barroccini dei venditori
ambulanti: L'aura della follia
spirava attraverso le pagine del
libro, illuminandovi panorami
febbrili, gorghi di parole
ossessionate e scampananti,
assieme a riuscite mirabili, a
colorite prospettive quasi
sospese in un clima di musica
soavissima e struggente, a
invocazioni d'un disperato
sapore umano. Quanti sono oggi a
possedere questa prima edizione
dei Canti Orfici, ormai
introvabile, di cui forse un
giorno si parlerà come di quella
leggendaria prima edizione della
Saison en enfer che Rimbaud
tentò di distruggere prima della
sua fuga dall'Europa?
Della vita di Campana, non meno
leggendaria di quella del
ribelle scolaro di Charleville,
ormai si sa qualcosa: Bino
Binazzi, nella affettuosa
prefazione alla recente ristampa
dei Canti (1928), ci parla della
sua esistenza girovaga e
venturosa, dei suoi viaggi da un
capo all'altro del mondo,
compiuti sobbarcandosi ai
mestieri più umili e diversi,
dal minatore al saltimbanco, dal
poliziotto al suonatore
ambulante: esistenza tumultuosa
e disperata, che doveva
seppellirlo, a meno di trent'anni
nella celletta di un manicomio;
ci dipinge la grande figura di
Campana attraversante col suo
passo di vagabondo straccione la
variopinta bohème fiorentina e
lacerbiana, ci descrive infine
il suo desolato addio al mondo.
Insomma, quanto basterebbe a un
autore di «vies romancées» per
costruire la più fantastica e
avvincente delle biografie.
Giovanni Boine in una delle sue
acute recensioni della Riviera
Ligure, dove l'inquieto
moralismo riusciva ad
equilibrarsi delicatamente col
gusto critico più sottile e
sereno, dopo aver parlato dei
pregi del libro di Campana,
notava nella poesia italiana di
allora « un fermento
d'esaltazione, come un'ansia di
novità e d'anarchia, un tumore
d'angoscia che cerca sfogo » e
la rettorica sui generis,
rettorica della follia, che
nella maggior parte dei casi
risultava, al momento
espressivo, da una simile
disposizione. E soggiungeva: «Ma
Campana è, se dio vuole, un
pazzo sul serio. Epperciò Te
deum». Senza parere, sotto la
botta scherzosa era adombrata
un'idea profonda. Esistono
esperienze terribili che non è
possibile contraffare a lumi
d'intelletto discorsivo e di
ragion teoretica. Opere come le
Illuminations, o questi Canti
Orfici, se anche destinate a
determinare notevoli influense
letterarie, dal momento che
mettono in luce il palpito più
intimo, la materia, per così
dire, originale e informe della
poesia, svelano un'ispirazione
ancora profondamente implicata
nel movimento carnale
dell'esistenza, un disperato
tentativo d'abdicazione alla
sintesi intellettuale per
assecondare senza sforzo la
segreta durata, l'aereo respiro
della vita indistinta, dove - la
parola è senz'altro idea, e la
realtà trabocca insensibilmente
nel sogno. Si tratta quindi
d'esperienze uniche ed
irripetibili. La follia di
Campana, come l'estasi
visionaria di Rimbaud,
sollecitata ad arte nel delirio
di stanchezza delle grandi marce
attraverso la pianura belga,
rappresentano, per questi due
«hors la loi», il sistema per
raggiungere lo stato di grazia,
la verginità dell'intuizione
primordiale, la misteriosa
alchimia del verbo, che,
smarrendo il suo carico di
significati culturali, i suoi
segni intellettivi e storici,
torna a convertirsi in ebbra
musica o in ermetico simbolo. E
la parola ha sempre in Campana
questo carattere di melodiosità
estatica, che suscita nel
periodo tramato d'echi
ritornanti come un largo
movimento sinfonico, che
accoglie un gioco di prospettive
vaghe, cui unico legame sarà il
gesto del poeta, intento a
determinare le sue immaginazioni
trasferendole sopra un piano di
fissità illusoria e sublime.
Anche nelle prose, dove pure
l'ebbrezza del canto sembra
spesso spegnersi in toni più
riposati e bassi, e fioriscono
visioni dai coloriti
delicatissimi, verdi paesi di
Toscana e di Liguria, la Verna e
la Falterona in un'aria limpida
e antica, i nodi sono
rappresentati da impetuosi
sbocchi verso una vertiginosa
eloquenza musicale. «Mi persi
per il tumulto delle città
colossali, vidi le bianche
cattedrali levarsi congerie
enorme di fede e di sogno colle
mille punte nel cielo, vidi le
Alpi levarsi ancora come più
grandi cattedrali, e piene delle
grandi ombre verdi degli abeti,
e piene della melodia dei
torrenti di cui udivo il canto
nascente dall'infinito del
sogno. Lassù tra i mille e mille
ticchettii le mille voci del
silenzio svelata una giovane
luce tra i tronchi, per sentieri
di chiarie salivo: salivo alle
Alpi, sullo sfondo bianco
delicato mistero. Laghi, lassù
tra gli scogli chiare gore
vegliate dal sorriso del sogno,
le chiare gore i laghi estatici
dell'oblio, che tu Leonardo
fingevi». Il paesaggio acquista,
nelle ampie riprese vocali, un
incanto lievemente allucinato:
«Io vidi dalle solitudini
mistiche staccarsi una tortora e
volare distesa verso le valli
immensamente aperte. Il
paesaggio cristiano segnato da
croci inclinate dal vento ne fu
vivificato misteriosamente.
Volava senza fine sull'ali
distese, leggera come una barca
sul mare. Addio, colomba,
addio!» «A l'antica piazza dei
tornei salgono strade e strade e
nell'aria pura si prevede sotto
il cielo il mare. L'aria pura è
appena segnata da nubi leggere.
L'aria è rosa. Un antico
crepuscolo ha tinto la piazza e
le sue mura...».
Pochi poeti contemporanei,
crediamo, si prestano meglio di
Dino Campana alle citazioni
staccate. E veramente, se di lui
sopravvivessero soltanto alcuni
frammenti, lo storico
dell'avvenire potrebbe
idealmente ricostruire sulla
loro scorta un grandioso
organismo di poesia. Fedeli al
nostro metodo, di rintracciare
nell'opera letteraria l'intimo
principio unitario e operativo
dell'ispirazione che vi si
manifesta, non ci lasceremo
tentare dai comodi dualismi,
facendo di Campana un grande
poeta rovinato dalla follia, e
scindendo con un taglio troppo
netto quanto nella sua opera è
espressione raggiunta da quanto
non è che ebbro vaneggiamento e
incoerente frenesia. Il fatto è
che la potenza evocativa di
Campana non si scioglie che a
stento dall'atmosfera febbrile
che ne costituisce il fondo. La
chiarezza a volte quasi
tangibile delle sue visioni più
pacate ha qualcosa dell'evidenza
illusoria e pericolante dei
sogni, tanto più palese quanto
più irreale. Né ci ingannino i
passi che, a primo aspetto,
posson sembrare soltanto fresco
impressionismo e notazione
immediata, del. genere che
avevan posto di moda a quel
tempo i diari sofficiani (cfr.
La Terna, Immagini di viaggio e
della montagna). L'insidiosa
musica intacca e dissolve da
ogni parte le figurazioni più
serenamente pittoriche,
trascinandole alla fine nel suo
vortice d'echi, dove le immagini
s'accendono e si spengono al
pari di fuochi fatui, in un
palpito struggente e smarrito:
«Io vidi dal ponte della nave /
I colli di Spagna / Svanire, nel
verde / Dentro il crepuscolo
d'oro la bruna terra celando /
Come una melodia! Blù, sulla
riva dei colli ancora tremava
una viola...» E, su questa
strada, si giunge alla breve
lirica di Batte botte dove
l'impressione di un passo
rintronante sul selciato crea
ritmi stranamente concentrici e
ossessivi, o a quella intitolata
Genova, in cui il pensiero,
fissatosi su tre o quattro
parole, si frantuma addirittura
per qualche pagina in un
balbettio demente.
In fondo a questa ispirazione è
sempre un senso continuo di
perdizione e d'abbandono, il
senso di perder terra, la
vertiginosa libertà del
vagabondo. Dalla pampa ai monti
toscani, dal manicomio belga ai
portici bolognesi,
l'immaginazione anticipa il
distacco, rende palpabile il
ricordo, s'innesta
nell'avvenimento per sconfinare
in miti caotici. Dino Campana ha
reso concreto l'anelito più
sensibile della lirica nostra
d'allora, che era di sciogliersi
da ogni legame intellettuale e
storico per tuffarsi
nell'emozione vergine, per
cogliere il flusso informe della
realtà alla sua prima sorgente,
per sopprimere il tempo in una
smarrita adesione alle cose: ma,
come s'è detto, una simile
disposizione implicava ben altro
che il semplice esercizio della
poesia. Oggi, che guardiamo a
molte cose con occhio più calmo,
non si dice ancora che tale
esperienza sia del tutto finita,
e che non debba portar frutto.
Ma da quanto abbiamo scritto è
agevole dedurre che non
condividiamo del tutto
l'opinione, espressa da qualche
recente critico, di un Campana
poeta classico e tradizionale
tradito dall'epoca. È forse
soltanto questione di parole, ma
crediamo che classicità non
possa sussistere senza ordine e
sistema; e, come s'è visto,
l'estro del Campana tendeva a
ben altro che alle figurazioni
pacate e al senso contemplante
della vita. Certo si è che, nei
suoi momenti più alti, egli
sembra aspirare a una sorta di
primitività scabra e solenne, a1
esempio nel poema in prosa La
notte, dove figure di cortigiane
e ricordi erotici sorgono come
da una atmosfera affocata e
immemoriale di rito barbarico.
In altri, le immagini della
campagna toscana, le limpide
architetture latine appaiono e
spaiono nella evanescente musica
delineandosi colla purezza di
frammenti antichi. Ma questo
mondo sembra nella lirica di
Campana, il frutto d'una
irraggiungibile aspirazione, o
talvolta di una estatica sosta
sul suo tragico cammino, più che
d'un saldo e naturale possesso.
Forse la riposata bellezza delle
architetture e delle piazze
italiche, dei vichi dove al
crepuscolo « ancora in alto
battaglia il lungo giorno di
fantasmi d'oro », rappresentano
nella poesia del povero Dino ciò
che le immagini di una ideale
grecità significarono negli
ultimi canti di un altro
glorioso folle, del grande
Hólderlin. Anche Campana, a
quanto si dice, si riteneva un
barbaro in esilio, anelante al
mito mediterraneo e all'ebbrezza
orfica. E la sua Musa non ebbe
il fermo profilo delle Minerve,
ma il volto fuggitivo d'una
romantica creatura del Sogno:
|
Non so se tra rocce il
tuo pallido
viso m apparve, o
sorriso
di lontananze ignote
fosti... |
E certo qualcosa di romantico
egli ebbe, nelle lontananti
melodiosità dei suoi versi, nel
suo gusto di una prosa ritmica e
sognante, se pure nella sua
opera non ci è dato incontrare
né il dramma culturale né
l'irrompente ansia religiosa di
un Hólderlin. Ma è con un simile
atteggiamento che lo vediamo
desolato volgersi, sulle soglie
estreme della pazzia, a un
ideale mondo di salute e di
forza, avvolto nell'olimpica
luce mediterranea, quale gli
sorrideva, oltre il corruttibile
tempo, dalla bianca gioventù
delle statue.