IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

PALAZZESCHI POETA E ROMANZIERE

 

 

La più riconoscibile caratteristica della nostra letteratura post-dannunziana - s'intende di quella che conta - consiste nella sua indole culturale, e appunto, in questo senso, «letteraria». Poesia e narrativa, soprattutto poesia, «di secondo grado», nutrita di letture, di cultura, di filosofia; irta di giustificazioni, di premesse, di alibi artistici e morali. Né in ciò si deve, del resto, ravvisare una menomazione.
L'opera di Palazzeschi è forse la sola di questo periodo che, fin dai suoi inizi, abbia rivelato un accento di intatta, quasi sconcertante verginità...
Un'opera sconcertante, che sembra profondare le sue leggere radici in un mondo nostalgico di immaginazioni ossessive e deformate, forse in un nucleo primordiale di lontanissime memorie infantili (fantasticherie solitarie, cantilene di vecchie donne, libri di fate: e, non so come, qualcosa del primo mondo poetico palazzeschiano, con quel suo infantile rigore disegnativo, tutto fiorentino, mi fa pensare a Pinocchio...).
Un'opera vergine, si direbbe, fin nella sua espressione letterale, nella sua sintassi insieme ingenua e complicata, nell'uso tutto personale della punteggiatura.
Nocquero forse alla poesia del Palazzeschi, e contribuirono a falsarne il significato, certi aspetti dell'ambiente culturale in cui essa sorse, si formò e rapidamente si spense (19o5-igio). La vicinanza alla «Voce» e a «Lacerba» fece pensare a un gioco intellettualistico, a una vena d'umorismo polemico. La partecipazione al movimento futurista confuse più che mai le acque: irreggimentato fra quegli innocui bombardieri, il nostro poeta potè passare per una figura di secondo piano e la sua lirica parer grigia e poco ardita in confronto alle girandole immaginifiche e alle esplosioni parolibere della nuova scuola...

Nella poesia di Palazzeschi lo «stato d'animo» è, quasi sempre, trasposto. Anche come poeta, egli pensa per figure, per dialoghi, per immaginazioni indirette. Nella sua lirica prevale, anzitutto, il «mondo» fantastico: quel mondo stranamente obliquo e incorporeo, come emergente da una lontanissima, sperduta memoria puerile, quei rigidi cipressi simili a carabinieri, quelle vecchie filanti agli angoli d'un praticello, quei monasteri, quei palazzi; quelle fantasmagoriche feste da ballo, quelle geometriche vedute del paradiso. E la cena degli undici infelici, che, a bocca serrata e ciglia inarcate, guardano il piatto di scorcio; e il principe e la principessa Cocchio di Chiodino, che dormono giorno e notte senza incontrarsi mai, con brevi risvegli interrotti da sbadigli interminabili. L'assillo della figurazione, del disegno, è così vivace in Palazzeschi, che la musicalità del Líed, del resto elementarissima nelle sue prime poesie, ritmata il più spesso sulla monotona cadenza del ternario:
 

  Il parco è serrato serrato
serrato serrato da un muro
ch'è lungo le miglia le miglia le miglia...


tende sempre più a liberarsi dalle pastoie del ritmo, ad acquistare movenze più sciolte, senza curarsi di andare a finire, tratto tratto, nella prosa più dissonante e smaccata.
La breve favola poetica di Palazzeschi è tutta in questo suo passaggio da un mondo iniziale tramato d'immaginazioni aeree e vaghissime, prevalentemente descritto e musicale - e qui c'entrò per la sua parte, ma curiosamente alterata, l'influenza del tempo, e per dir tutto, il D'Annunzio «crepuscolare» - a figurazioni sempre più disegnate e concrete, sempre più vivificate dai reagenti dell'ironia, fino allo scherzo puro della Casina di cristallo e della Passeggiata. E sarà quella maggior concretezza di disegno a portar lo scrittore, più tardi, a significazioni umanissime, di comune umanità anzi, e addirittura di valore sociale come notò il De Robertis.

Il punto d'equilibrio, sotto l'aspetto propriamente lirico, il Palazzeschi ebbe a toccarlo al tempo della Lanterna e dei Poemi, quando quel suo mondo d'aeree visioni acquistò un disegno più secco, il verso prese ad articolarsi più liberamente sulla monotonia della musica, il movimento narrativo e il «divertimento» del dialogo e del coro sottolinearono con più acredine i sensi di quella sua singolarissima poesia. Nacquero allora, se non erro, Abel Nasshab, il Ritratto di Corinna Spiga:
 

  Vorresti, Peonia,
cavar la tovaglia?
La cena è finita oramai,
quel bianco stasera m'abbaglia,
non sembra un lenzuolo?


La Matrigna, Le finestre di Borgo Tramontano, e tante altre liriche dove la fantasia, fissatasi su di un tema grottesco e ossessivo, su di un unico punto di sentimento meravigliato o ironico, non se ne stacca più, e vi gira attorno, e se ne suggestiona, e continuamente riprende il suo tema in una specie di lunatico capogiro. Sono le tre fanciulle imbarazzate di fronte alla matrigna, che ricominciano tratto tratto il medesimo discorso; è la lancia che gira perpetuamente sul lago, ospitando una vecchia misteriosa castellana; sono certe fiabesche regine, ferme su di un'alta torre, o imperturbabilmente erranti, con l'identico passo, per le solitarie ombre d'un parco. Non rammento chi ebbe a parlare, a proposito di questa fantasia trasecolata e ossessionante, della riga tracciata col gesso di fronte a cui la gallina intimorita s'impunta. Certo è che la poesia di Palazzeschi, nella suprema ironia e inutilità di questo mondo emblematico e burattinesco, in questo mulinare a vuoto dell'immaginazione, raggiunge i suoi accenti più lirici, in una sorta di infantile stupefazione, di atona e dolente ilarità...
Il Palazzeschi prosatore s'innesta sul Palazzeschi lirico in modo naturalissimo, per uno svolgimento necessario. Il passaggio dalla poesia giovanile alla prosa degli anni più maturi non rappresentò per lui, come per altri scrittori più travagliati, la scelta di un nuovo registro, in opposizione magari col primo. Già s'è notato come l'estro inventivo e figurativo sia essenziale nella sua lirica, dove talora assume addirittura, come nelle litanie buffe del Frate rosso, toni d'alta commedia (a proposito, nessuno s'è chiesto perché Palazzeschi non abbia mai fatto del teatro). E quelle regine e beghine, principi misantropi e dame peccatrici son bene, almeno in germe, personaggi di fiaba e di racconto. Anche la-curiosa vena moraleggiante che ritroveremo più tardi nelle sue pagine di prosa ha precedenti nella lirica. Si ricordi lo Specchio, o si pensi al Monastero di Maria Riparatrice, alla Pizzicheria.

E che altro è forse quel suo vecchio romanzetto del Codice di Perelà, se non una lunga poesia dell'Incendiario, portata ad assumere le proporzioni del racconto in prosa? Prosa nervosa e leggera, piena d'inflessioni di musica e d'ingenue movenze, che nulla ha da invidiare ai versi che l'hanno preparata. Ignoro in quanti si sia, oggi, a far conto di questo romanzetto, così sfogato e musicale, così pieno d'humour malinconico e allucinato, così necessario nella sua incoerenza, dove la narrazione è ridotta al minimo, e un libero intreccio di voci senza corpo dà linea e colore al racconto. Certo, è opportuno guardarsi dal dar troppo peso ai toni ironici e parodistici che venano qua e là il libro. In quegli incredibili e pur veridici personaggi, Re e Regine da carte da gioco, ministri e dame da commedia di burattini, nella passione della Marchesa Oliva di Bellonda per l'uomo di fumo e nella morte di Alloro, potrebbe infatti ravvisarsi qualcosa come una parodia del mondo dannunziano al suo crepuscolo. Ma la parodia è involontaria, come involontaria del tutto è la morale che qualche amico di buona volontà si provò a trarre dalla favola. Che par nata piuttosto, come le poesie migliori, dalla materia di confusi ricordi di fiabe e di cantilene di vecchie donne. Anche qui, nelle forme trasposte d'una mitologia puerile, il poeta incarna le figure del suo sentimento: sotto la difesa dello scherzo più teso, e magari sguaiato, si indovina a tratti qualcosa di più profondo, come un'improvvisa stridente lacerazione...

Ne Le sorelle Materassi l'esperienza patetica dei Due imperi ... mancati e della Piramide, il gusto figurativo e nostalgico delle Stampe sono assunti nella più vasta cornice del romanzo. È la storia di due mature sorelle nubili, sarte e ricamatrici di gran rinomanza, e dello sconvolgimento portato nella loro vita monotona da un giovane e bellissimo nipote, gagliardo e sportivo, splendidamente naturale ed egoista, che le incanta e le soggioga, diventa la loro croce e la loro delizia, fino al momento in cui, ridotte in rovina le due disgraziate, costrette a pagare il fio delle sue scapestrataggini, le pianta per andarsene in America con una moglie transatlantica e milionaria scovata a Venezia. L'amore e la maternità negati alle due povere vecchie creature, al loro tramonto s'accendono insieme in questo rogo di paradossale e commovente dedizione.
Il romanzo - che, è bene dirlo subito, è tra i più belli che siano stati scritti da molti anni in Italia - ha, nel suo più vasto disegno, la stessa intensità d'ispirazione delle migliori poesie e delle migliori «stampe»: la freschezza della rappresentazione e del significato raggiunti «non si sa perché» e «non si sa come»: come sempre l'opera d'arte vera, che par nata per miracolo, e ignora assolutamente le «costruzioni» astratte, le astratte «proporzioni» e il non meno astratto «giudizio morale» che certa critica vorrebbe per forza imporre come norma al libero operare artistico...

Il Palazzeschi de Le sorelle Materassi, fra i romanzieri italiani - e non ad altri è possibile rassomigliarlo, tanto sono autoctoni e nativi i suoi modi di narratore - mi fa pensare allo Svevo di Senilità: la stessa sciolta musica del racconto - e di musica, in questo significato puramente narrativo, è bene il caso di parlare -, la stessa esattezza leggera della notazione e del dialogo, la stessa acuta attenzione ai giochi irrazionali della vita profonda, ai prodigiosi e lamentevoli prodotti dell'appassionata fantasia umana. Ma lo Svevo è più intellettuale, la sua visione è più matura: nella sua divertita constatazione dei perpetui sotterranei scompensi tra la coscienza e la vita, per cui questa ad ogni istante muta le sue prospettive e imbroglia le carte in mano alla povera ragione che stenta a tenerle dietro, è già un principio d'equilibrio e di superiore saggezza. Palazzeschi sta più a ridosso del suo gioco, quasi vi si mescola candidamente: e, comunque, nessuno è più di lui alieno da un giudizio, anche negativo: egli resta, pur componendo le sue fantasie nella cornice di un romanzo di modello classico e regionale, il clown delle antiche poesie versoliberiste : egli forza, a momenti, la corda, la padronanza del gioco psicologico gli permette di variare rapidissimamente tutte le gamme, dalla benevola pietà al riso, e dal riso alla smorfia che ne è la conclusione. Così nella scena della cambiale; così in quella, ancor più palazzeschiana, se anche meno intensa, delle nozze di Remo con Peggy, quando le due zie Materassi compaiono anch'esse vestite da sposa, con lo strascico e i fiori d'arancio, fra le urla e le pernacchie della folla esilarata. Strappi e dissonanze, quasi di virtuoso violinista, che a nessun altro che a Palazzeschi potrebbero esser permessi, che sono soltanto suoi.
Le necessità d'impostazione e d'ambientazione del romanzo, in relazione anche ad una certa reverenza per i modelli del romanzo classico ottocentesco, inducono in qualche punto, specie al principio, un po' di gravezza: e forse esso avrebbe ancor guadagnato da un più deciso stacco iniziale, che l'avesse interamente mantenuto in un'atmosfera meno determinata e realistica. Ma bisogna poi vedere le due zitelle chine al telaio, o, l'anima attraversata da discordi emozioni, al passaggio di un reggimento per le vie del paese; o i ritratti dell'altra sorella Gisella o della serva Niobe (quest'ultima è tra le più felici creature palazzeschiane); o l'ingresso di Remo nella vecchia casa tranquilla, e, attorno alla inconscia forza animale del giovinetto, il progressivo cristallizzarsi dei sogni e delle fantasie delle due donne; 'o la scena della firma della cambiale, in cui culmina il libro, con la sua inattesa conclusione; e così fino alla solitudine delle «sepolte vive» che, rimaste sole con la vecchia serva, sole e definitivamente rovinate, trovano una estrema consolazione nel ricordo, assunto in un nimbo d'adorante nostalgia, della grande avventura che ha riempito la loro vita. Palazzeschi non ha bisogno di alterare lo schema del romanzo, il contorno bozzettistico delle sue figure, per raggiungere effetti che appartengono decisamente ad un'arte né bozzettistica né «strapaesana». La sua «deformazione» è ben più radicale di quella che si risolve in novità esteriori: più egli cerca il tratto particolaristico e più questo gli si carica, per vie quanto mai aliene da simboli intellettuali, di significazione intensamente umana. Il fiorentinismo di Palazzeschi altro non è che la materia familiare al poeta, la quale, al tocco delle sue dita si anima di significazioni impreviste. Il suo libro sarebbe potuto riuscire, in tutto e per tutto, un onesto romanzo provinciale alla Moretti, col suo intreccio e le sue figurette perfettamente a posto, la sua psicologia e la sua moralità coerenti e prevedibili. Ne è uscita, invece, quella cosa singolare ed unica che è l'opera di poesia.

Il suo Remo non è che un ragazzaccio alla moda, di quelli che tutti abbiamo conosciuto a un campo di corse o a un posteggio d'automobili; di quelli che nel disordine d'una vita equivoca portano un'esattezza e un'economia da ragionieri; che perseguono il loro scopo, che è quello di non far nulla, con una tenacia e un acume degno dei grandi uomini d'azione. Ma, più il personaggio è definito, più è concreto e tetragono nella sua naturalità, e più esso finisce col soffondersi d'un alone d'incantato mistero. Nella benevola ironia con cui lo scrittore ce lo dipinge - a tratti con una specie di tremante partecipazione al casto sentimento delle due sorelle - esso si trasfigura in modo singolare: «Sotto quella fronte giustamente spaziosa, il pensiero era assente o si celava per non turbare l'armonia e la freschezza del viso? In ogni atto era questo calore esterno e questa freddezza interiore, né lui faceva nulla per farlo uscire da tale isolamento, anzi, vi rimaneva convinto. Freddezza che dava un senso di sospensione dopo aver attratto, che agghiacciava dopo aver acceso». Si pensa a un giovane iddio ambiguo, tutto natura e senza divisione di coscienza, indifferente al bene e al male, perché tanto bene che male sono egualmente, per gli esseri che l'amano, un dono inapprezzabile. A voler tradurre in una formula intellettuale il senso che l'arte adombra sempre in modo ciecamente carnale e nativo, si direbbe che in questo suo protagonista Palazzeschi abbia raffigurato, semplicemente, la vita che insieme ci incanta e ci offende, e il dolore incessantemente traduce in illusione.

Sergio Solmi

© 2009 - Luigi De Bellis