PALAZZESCHI POETA E ROMANZIERE
La più riconoscibile
caratteristica della nostra
letteratura post-dannunziana -
s'intende di quella che conta -
consiste nella sua indole
culturale, e appunto, in questo
senso, «letteraria». Poesia e
narrativa, soprattutto poesia,
«di secondo grado», nutrita di
letture, di cultura, di
filosofia; irta di
giustificazioni, di premesse, di
alibi artistici e morali. Né in
ciò si deve, del resto,
ravvisare una menomazione.
L'opera di Palazzeschi è forse
la sola di questo periodo che,
fin dai suoi inizi, abbia
rivelato un accento di intatta,
quasi sconcertante verginità...
Un'opera sconcertante, che
sembra profondare le sue leggere
radici in un mondo nostalgico di
immaginazioni ossessive e
deformate, forse in un nucleo
primordiale di lontanissime
memorie infantili
(fantasticherie solitarie,
cantilene di vecchie donne,
libri di fate: e, non so come,
qualcosa del primo mondo poetico
palazzeschiano, con quel suo
infantile rigore disegnativo,
tutto fiorentino, mi fa pensare
a Pinocchio...).
Un'opera vergine, si direbbe,
fin nella sua espressione
letterale, nella sua sintassi
insieme ingenua e complicata,
nell'uso tutto personale della
punteggiatura.
Nocquero forse alla poesia del
Palazzeschi, e contribuirono a
falsarne il significato, certi
aspetti dell'ambiente culturale
in cui essa sorse, si formò e
rapidamente si spense
(19o5-igio). La vicinanza alla
«Voce» e a «Lacerba» fece
pensare a un gioco
intellettualistico, a una vena
d'umorismo polemico. La
partecipazione al movimento
futurista confuse più che mai le
acque: irreggimentato fra quegli
innocui bombardieri, il nostro
poeta potè passare per una
figura di secondo piano e la sua
lirica parer grigia e poco
ardita in confronto alle
girandole immaginifiche e alle
esplosioni parolibere della
nuova scuola...
Nella poesia di Palazzeschi lo
«stato d'animo» è, quasi sempre,
trasposto. Anche come poeta,
egli pensa per figure, per
dialoghi, per immaginazioni
indirette. Nella sua lirica
prevale, anzitutto, il «mondo»
fantastico: quel mondo
stranamente obliquo e
incorporeo, come emergente da
una lontanissima, sperduta
memoria puerile, quei rigidi
cipressi simili a carabinieri,
quelle vecchie filanti agli
angoli d'un praticello, quei
monasteri, quei palazzi; quelle
fantasmagoriche feste da ballo,
quelle geometriche vedute del
paradiso. E la cena degli undici
infelici, che, a bocca serrata e
ciglia inarcate, guardano il
piatto di scorcio; e il principe
e la principessa Cocchio di
Chiodino, che dormono giorno e
notte senza incontrarsi mai, con
brevi risvegli interrotti da
sbadigli interminabili.
L'assillo della figurazione, del
disegno, è così vivace in
Palazzeschi, che la musicalità
del Líed, del resto
elementarissima nelle sue prime
poesie, ritmata il più spesso
sulla monotona cadenza del
ternario:
|
Il parco è serrato
serrato
serrato serrato da un
muro
ch'è lungo le miglia le
miglia le miglia... |
tende sempre più a liberarsi
dalle pastoie del ritmo, ad
acquistare movenze più sciolte,
senza curarsi di andare a
finire, tratto tratto, nella
prosa più dissonante e smaccata.
La breve favola poetica di
Palazzeschi è tutta in questo
suo passaggio da un mondo
iniziale tramato d'immaginazioni
aeree e vaghissime,
prevalentemente descritto e
musicale - e qui c'entrò per la
sua parte, ma curiosamente
alterata, l'influenza del tempo,
e per dir tutto, il D'Annunzio
«crepuscolare» - a figurazioni
sempre più disegnate e concrete,
sempre più vivificate dai
reagenti dell'ironia, fino allo
scherzo puro della Casina di
cristallo e della Passeggiata. E
sarà quella maggior concretezza
di disegno a portar lo
scrittore, più tardi, a
significazioni umanissime, di
comune umanità anzi, e
addirittura di valore sociale
come notò il De Robertis.
Il punto d'equilibrio, sotto
l'aspetto propriamente lirico,
il Palazzeschi ebbe a toccarlo
al tempo della Lanterna e dei
Poemi, quando quel suo mondo
d'aeree visioni acquistò un
disegno più secco, il verso
prese ad articolarsi più
liberamente sulla monotonia
della musica, il movimento
narrativo e il «divertimento»
del dialogo e del coro
sottolinearono con più acredine
i sensi di quella sua
singolarissima poesia. Nacquero
allora, se non erro, Abel
Nasshab, il Ritratto di Corinna
Spiga:
|
Vorresti, Peonia,
cavar la tovaglia?
La cena è finita oramai,
quel bianco stasera
m'abbaglia,
non sembra un lenzuolo? |
La Matrigna, Le finestre di
Borgo Tramontano, e tante altre
liriche dove la fantasia,
fissatasi su di un tema
grottesco e ossessivo, su di un
unico punto di sentimento
meravigliato o ironico, non se
ne stacca più, e vi gira
attorno, e se ne suggestiona, e
continuamente riprende il suo
tema in una specie di lunatico
capogiro. Sono le tre fanciulle
imbarazzate di fronte alla
matrigna, che ricominciano
tratto tratto il medesimo
discorso; è la lancia che gira
perpetuamente sul lago,
ospitando una vecchia misteriosa
castellana; sono certe fiabesche
regine, ferme su di un'alta
torre, o imperturbabilmente
erranti, con l'identico passo,
per le solitarie ombre d'un
parco. Non rammento chi ebbe a
parlare, a proposito di questa
fantasia trasecolata e
ossessionante, della riga
tracciata col gesso di fronte a
cui la gallina intimorita
s'impunta. Certo è che la poesia
di Palazzeschi, nella suprema
ironia e inutilità di questo
mondo emblematico e
burattinesco, in questo mulinare
a vuoto dell'immaginazione,
raggiunge i suoi accenti più
lirici, in una sorta di
infantile stupefazione, di atona
e dolente ilarità...
Il Palazzeschi prosatore
s'innesta sul Palazzeschi lirico
in modo naturalissimo, per uno
svolgimento necessario. Il
passaggio dalla poesia giovanile
alla prosa degli anni più maturi
non rappresentò per lui, come
per altri scrittori più
travagliati, la scelta di un
nuovo registro, in opposizione
magari col primo. Già s'è notato
come l'estro inventivo e
figurativo sia essenziale nella
sua lirica, dove talora assume
addirittura, come nelle litanie
buffe del Frate rosso, toni
d'alta commedia (a proposito,
nessuno s'è chiesto perché
Palazzeschi non abbia mai fatto
del teatro). E quelle regine e
beghine, principi misantropi e
dame peccatrici son bene, almeno
in germe, personaggi di fiaba e
di racconto. Anche la-curiosa
vena moraleggiante che
ritroveremo più tardi nelle sue
pagine di prosa ha precedenti
nella lirica. Si ricordi lo
Specchio, o si pensi al
Monastero di Maria Riparatrice,
alla Pizzicheria.
E che altro è forse quel suo
vecchio romanzetto del Codice di
Perelà, se non una lunga poesia
dell'Incendiario, portata ad
assumere le proporzioni del
racconto in prosa? Prosa nervosa
e leggera, piena d'inflessioni
di musica e d'ingenue movenze,
che nulla ha da invidiare ai
versi che l'hanno preparata.
Ignoro in quanti si sia, oggi, a
far conto di questo romanzetto,
così sfogato e musicale, così
pieno d'humour malinconico e
allucinato, così necessario
nella sua incoerenza, dove la
narrazione è ridotta al minimo,
e un libero intreccio di voci
senza corpo dà linea e colore al
racconto. Certo, è opportuno
guardarsi dal dar troppo peso ai
toni ironici e parodistici che
venano qua e là il libro. In
quegli incredibili e pur
veridici personaggi, Re e Regine
da carte da gioco, ministri e
dame da commedia di burattini,
nella passione della Marchesa
Oliva di Bellonda per l'uomo di
fumo e nella morte di Alloro,
potrebbe infatti ravvisarsi
qualcosa come una parodia del
mondo dannunziano al suo
crepuscolo. Ma la parodia è
involontaria, come involontaria
del tutto è la morale che
qualche amico di buona volontà
si provò a trarre dalla favola.
Che par nata piuttosto, come le
poesie migliori, dalla materia
di confusi ricordi di fiabe e di
cantilene di vecchie donne.
Anche qui, nelle forme trasposte
d'una mitologia puerile, il
poeta incarna le figure del suo
sentimento: sotto la difesa
dello scherzo più teso, e magari
sguaiato, si indovina a tratti
qualcosa di più profondo, come
un'improvvisa stridente
lacerazione...
Ne Le sorelle Materassi
l'esperienza patetica dei Due
imperi ... mancati e della
Piramide, il gusto figurativo e
nostalgico delle Stampe sono
assunti nella più vasta cornice
del romanzo. È la storia di due
mature sorelle nubili, sarte e
ricamatrici di gran rinomanza, e
dello sconvolgimento portato
nella loro vita monotona da un
giovane e bellissimo nipote,
gagliardo e sportivo,
splendidamente naturale ed
egoista, che le incanta e le
soggioga, diventa la loro croce
e la loro delizia, fino al
momento in cui, ridotte in
rovina le due disgraziate,
costrette a pagare il fio delle
sue scapestrataggini, le pianta
per andarsene in America con una
moglie transatlantica e
milionaria scovata a Venezia.
L'amore e la maternità negati
alle due povere vecchie
creature, al loro tramonto
s'accendono insieme in questo
rogo di paradossale e commovente
dedizione.
Il romanzo - che, è bene dirlo
subito, è tra i più belli che
siano stati scritti da molti
anni in Italia - ha, nel suo più
vasto disegno, la stessa
intensità d'ispirazione delle
migliori poesie e delle migliori
«stampe»: la freschezza della
rappresentazione e del
significato raggiunti «non si sa
perché» e «non si sa come»: come
sempre l'opera d'arte vera, che
par nata per miracolo, e ignora
assolutamente le «costruzioni»
astratte, le astratte
«proporzioni» e il non meno
astratto «giudizio morale» che
certa critica vorrebbe per forza
imporre come norma al libero
operare artistico...
Il Palazzeschi de Le sorelle
Materassi, fra i romanzieri
italiani - e non ad altri è
possibile rassomigliarlo, tanto
sono autoctoni e nativi i suoi
modi di narratore - mi fa
pensare allo Svevo di Senilità:
la stessa sciolta musica del
racconto - e di musica, in
questo significato puramente
narrativo, è bene il caso di
parlare -, la stessa esattezza
leggera della notazione e del
dialogo, la stessa acuta
attenzione ai giochi irrazionali
della vita profonda, ai
prodigiosi e lamentevoli
prodotti dell'appassionata
fantasia umana. Ma lo Svevo è
più intellettuale, la sua
visione è più matura: nella sua
divertita constatazione dei
perpetui sotterranei scompensi
tra la coscienza e la vita, per
cui questa ad ogni istante muta
le sue prospettive e imbroglia
le carte in mano alla povera
ragione che stenta a tenerle
dietro, è già un principio
d'equilibrio e di superiore
saggezza. Palazzeschi sta più a
ridosso del suo gioco, quasi vi
si mescola candidamente: e,
comunque, nessuno è più di lui
alieno da un giudizio, anche
negativo: egli resta, pur
componendo le sue fantasie nella
cornice di un romanzo di modello
classico e regionale, il clown
delle antiche poesie
versoliberiste : egli forza, a
momenti, la corda, la padronanza
del gioco psicologico gli
permette di variare
rapidissimamente tutte le gamme,
dalla benevola pietà al riso, e
dal riso alla smorfia che ne è
la conclusione. Così nella scena
della cambiale; così in quella,
ancor più palazzeschiana, se
anche meno intensa, delle nozze
di Remo con Peggy, quando le due
zie Materassi compaiono
anch'esse vestite da sposa, con
lo strascico e i fiori
d'arancio, fra le urla e le
pernacchie della folla
esilarata. Strappi e dissonanze,
quasi di virtuoso violinista,
che a nessun altro che a
Palazzeschi potrebbero esser
permessi, che sono soltanto
suoi.
Le necessità d'impostazione e
d'ambientazione del romanzo, in
relazione anche ad una certa
reverenza per i modelli del
romanzo classico ottocentesco,
inducono in qualche punto,
specie al principio, un po' di
gravezza: e forse esso avrebbe
ancor guadagnato da un più
deciso stacco iniziale, che
l'avesse interamente mantenuto
in un'atmosfera meno determinata
e realistica. Ma bisogna poi
vedere le due zitelle chine al
telaio, o, l'anima attraversata
da discordi emozioni, al
passaggio di un reggimento per
le vie del paese; o i ritratti
dell'altra sorella Gisella o
della serva Niobe (quest'ultima
è tra le più felici creature
palazzeschiane); o l'ingresso di
Remo nella vecchia casa
tranquilla, e, attorno alla
inconscia forza animale del
giovinetto, il progressivo
cristallizzarsi dei sogni e
delle fantasie delle due donne;
'o la scena della firma della
cambiale, in cui culmina il
libro, con la sua inattesa
conclusione; e così fino alla
solitudine delle «sepolte vive»
che, rimaste sole con la vecchia
serva, sole e definitivamente
rovinate, trovano una estrema
consolazione nel ricordo,
assunto in un nimbo d'adorante
nostalgia, della grande
avventura che ha riempito la
loro vita. Palazzeschi non ha
bisogno di alterare lo schema
del romanzo, il contorno
bozzettistico delle sue figure,
per raggiungere effetti che
appartengono decisamente ad
un'arte né bozzettistica né
«strapaesana». La sua
«deformazione» è ben più
radicale di quella che si
risolve in novità esteriori: più
egli cerca il tratto
particolaristico e più questo
gli si carica, per vie quanto
mai aliene da simboli
intellettuali, di significazione
intensamente umana. Il
fiorentinismo di Palazzeschi
altro non è che la materia
familiare al poeta, la quale, al
tocco delle sue dita si anima di
significazioni impreviste. Il
suo libro sarebbe potuto
riuscire, in tutto e per tutto,
un onesto romanzo provinciale
alla Moretti, col suo intreccio
e le sue figurette perfettamente
a posto, la sua psicologia e la
sua moralità coerenti e
prevedibili. Ne è uscita,
invece, quella cosa singolare ed
unica che è l'opera di poesia.
Il suo Remo non è che un
ragazzaccio alla moda, di quelli
che tutti abbiamo conosciuto a
un campo di corse o a un
posteggio d'automobili; di
quelli che nel disordine d'una
vita equivoca portano
un'esattezza e un'economia da
ragionieri; che perseguono il
loro scopo, che è quello di non
far nulla, con una tenacia e un
acume degno dei grandi uomini
d'azione. Ma, più il personaggio
è definito, più è concreto e
tetragono nella sua naturalità,
e più esso finisce col
soffondersi d'un alone
d'incantato mistero. Nella
benevola ironia con cui lo
scrittore ce lo dipinge - a
tratti con una specie di
tremante partecipazione al casto
sentimento delle due sorelle -
esso si trasfigura in modo
singolare: «Sotto quella fronte
giustamente spaziosa, il
pensiero era assente o si celava
per non turbare l'armonia e la
freschezza del viso? In ogni
atto era questo calore esterno e
questa freddezza interiore, né
lui faceva nulla per farlo
uscire da tale isolamento, anzi,
vi rimaneva convinto. Freddezza
che dava un senso di sospensione
dopo aver attratto, che
agghiacciava dopo aver acceso».
Si pensa a un giovane iddio
ambiguo, tutto natura e senza
divisione di coscienza,
indifferente al bene e al male,
perché tanto bene che male sono
egualmente, per gli esseri che
l'amano, un dono inapprezzabile.
A voler tradurre in una formula
intellettuale il senso che
l'arte adombra sempre in modo
ciecamente carnale e nativo, si
direbbe che in questo suo
protagonista Palazzeschi abbia
raffigurato, semplicemente, la
vita che insieme ci incanta e ci
offende, e il dolore
incessantemente traduce in
illusione.