IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

CRITICA LETTERARIA

IL NOVECENTO

 

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CRITICA: IL NOVECENTO

LA POESIA DI SABA

 

 

Saba non appartiene alla schiatta atletica dei poeti giudicanti. In costoro la tragedia della volontà risolve, lucidamente, nella vittoria espressiva: etica e poesia si allacciano in una chiara dialettica. Il problema dello stile, ponendosi nel momento del giudizio e della liberazione dal patire, è reso preciso e rigoroso da necessità etiche e da funzioni, in alto senso, consolatorie; ed assume dati sentimentali in una concentrazione irrevocabile che toglie loro ogni possibilità di ripresentarsi identici, sia pure sotto veste di aneliti musicali e di iterazioni tematiche. Ma Saba non ha un così robusto tessuto morale che gli permetta di scrutare a fondo la propria vita e di portarla a conseguenze disperate e nude: la sua pacata riflessività, la sua intelligenza bonaria e riposata non amano spingersi a cogliere gli ultimi e più rarefatti rapporti dei termini che si agitano dentro la sua coscienza. Di ciò hai conferma nel tono generale del Canzoniere e nella medesima struttura di esso, che può riassumersi come il racconto di semplici situazioni di vita, non mai fermate a lumeggiare una sicura moralità. Ma, più ancora, puoi trovarne riscontro nel modo come Saba sentenzia. Le sentenze entrano nella testura del suo discorso in qualità di pure clausole musicali. Esse compaiono sempre come conclusione prossima di un fatto accaduto: timidissime generalizzazioni e facilmente contenute ai primi risultati. Si direbbe che Saba non sentenzi, se non quando si trovi empiricamente davanti ad una sintesi che si offra, già compiuta, nel corso delle cose: come se, poniamo, in un fatto gli sembri di riconoscere il succo e il sentore segreto di molti altri, già occorsigli. Oltre che si tratta sempre di una materia semplicissima, particolare, cotidiana. Se non a dirittura, non che dare gli echi vasti dell'infinito morale, quelle sentenze non si riducono ad episodi raccontati in maniera appena un poco più smateriata ed astratta. Vedete ridente e preciso nitore di questo detto che per un verso pare ancora attaccato al caso che lo suggerì e, per altro, musicalmente arieggia a sentenza ed ha, press'a poco, la musica di tutte le sentenze che si trovano in Saba: «ai giovanetti è bello di primavera dormir la mattina».
Nemmeno poi si potrebbe collocare Saba tra i poeti che semplicemente si confessano. Si dice di quelli che, se non un superiore equilibrio etico, abbiano almeno raggiunto un'intima concordia; al lume della quale la loro storia d'uomini si raduni ad esprimere una coerente e ragguardevole esperienza. È vero che, nell'Autobiografia, il Nostro sembra accostarsi a questa famiglia di poeti; ma vedremo tra breve che in lui siffatta consapevolezza morale si manifesta solo puntualmente, e come stato miracoloso e d'eccezione.

Per Saba far poesia è un adattare il destino ai gusti di una sensualità onesta e contenuta. E quando si parla di sensualità, qualunque sia poi per esserne la natura, si taglia la strada a tutte le riflesse distinzioni: nel nostro caso, a quella tra moralità e poesia. Invero, per cantarsi le sue musiche, Saba si cerca umbratili rifugi di tutta intimità, dove la sua vita par che si acqueti e si distenda: l'aura, insomma, dei poeti delle horae subsícivae. E solo a questo punto egli si differenzia e stabilisce la sua originalità. Mentre nei poeti delle horae subsicivae il movente è prima Patetico, tutto legato alle condizioni pratiche su cui sorge: e giunge, al limite, a traverso un desiderio di poesia che si faccia sempre più schietto, a gustarsi sensualmente - Saba, tutto all'opposto, si costituisce i valori di intimità che sono propri a quei poeti, ne realizza la psicologia schiva e melanconica, a ciò guidato dal gusto sensuale di stati del sentimento, la cui trascrizione produca certe musiche sensualmente amate. La sensualità è in lui iniziale e dominante: l'invito alla poesia si insinua dapprima per il diletto di musiche e modi canori e di certe semplicissime prospettive e patetiche stilizzazioni e «lumi poetici». Ricostruire, organare per sé una materia musicale orecchiata nei massimi poeti è, si direbbe, tra i primi moti di Saba verso la poesia.

Il «mondo» di Saba si genera per via di suggerimenti e maturazioni di una sensualità siffatta. Si direbbe che la musica gli influenza ed orienta il destino. E quanto più la vita si fa cantabile e colma le esigenze di quella sensualità, tanto più la poesia è continua, trasparente, felice. Entro questi limiti, si potrebbe anche pensare che la poesia di Saba fiorisce sopra una sensualità che si moralizza. Certo che la vita interiore di lui tende, secondo musica, a sistemarsi come uno scorrer lento, a cui il moto sia comunicato più da naturale fatalità che da dinamico ardore. Una vita che si lascia vivere, appagandosi di quanto, senza sforzo, le tocca; con appena un accorato anelito di sentirsi in armonia con le cose e in solidale unanimità con le creature. Le situazioni tendono a comporsi in un equilibrio d'idillio sopra uno sfondo che tiene dell'elegiaco: ne risulta un idillismo animato, non pure dalla grazia di attitudini soltanto plastiche e figurative; ma approfondito, quasi, e fatto penoso da un umido batter di cigli, da un improvviso illuminarsi di sguardi appassionati. Da ultimo, a proposito della sensualità che genera questo «mondo», si potrebbe aggiungere che, come si è ritrovata sulle musiche dei grandi lirici dove risuonano le più gravi e totali esperienze del sentimento, essa aspira, nei limiti in cui ha colte quelle musiche, a ritrovare il suono di quelle profondità. Nel «mondo» di Saba mette voce, soprattutto come musica, anche il murmure della saggezza.
Toccando dei rapporti di Saba con la tradizione dei nostri lirici, vogliamo intendere che egli ne ha raccolto, non diremo lo stile, come d'altronde ha già con espertissima finezza escluso il Cecchi, bensì l'intonazione generica degli stati d'anima, il fremito - a larghe ondate, a diffusi suoni - della melodia. Ha risentito le supreme situazioni patetiche, le attitudini di fronte alla vita, le malinconie; donde trae un composto decoro, e tenerezza nostalgica per qualche indefinita e impossibile cosa vagheggiata, e sperimentate cautele al riguardo d'ogni sgargiante offerta che di sé facciano gli aspetti esteriori. Le quali cautele, distogliendo dall'analizzare i particolari curiosi o pettegoli, solo concedono di renderli per sommi cenni.

D'altronde lo stesso Saba ha indovinato quanto di indistinto e, ancora una volta, di soltanto sensuale fosse nel suo modo di ricevere la tradizione; e ci ha parlato non d'altro che di istinti che l'avrebbero tratto verso quella. Facciamo ancora un passo a definire tale istinto e, forse, ad eliminare altri suppositivi legami di Saba con la nostra tradizione poetica. Si parli pure, se piace, senza indagare quanto contengano di metafora e di cattiva usanza e di sommario vezzo ritrattistico, delle suggestioni di razza. Saba, ebreo, ha una stanchezza morale ereditaria e tanto bene assimilata, che non tenta neppure più di farsi una ragione; una facoltà di rinunzia ad ogni titanismo, che sembra provenirgli da un'antica abitudine, di sangue, a trovarsi dentro un mondo disperatamente accettato. Pare che in lui operino esperienze irrevocabili ed obliate, di cui sia rimasta sola la forale stanchezza; e un amaro sugo della vanità del tutto. La morale, forse, dell'Ecclesiaste, se vogliamo esagerare e trovarle a tutti i costi un nome; se non che Saba ne riceve i soli effetti, e inconsapevolmente, con un modo tutto fisico; la storia se ne è perduta e ne è rimasta una disposizione innata per certe tristezze e sfaccettature del sentimento, umili e affettuose: e volontà di non stonare nel mondo che è dato e che esiste al di fuori di noi, malgrado noi, e che bisogna, comunque, riconoscere così com'è, se si vuol giungere alla desolata conquista di un povero, umano equilibrio.
Raccolte, a modo suo, queste tradizioni poetiche ed umane, Saba ne subisce chiaramente i limiti quanto alla sapienza psicologica ed alle facoltà introspettive: possiamo dire, di fatto, ch'egli non conosce altro che i sentimenti canonici e supremi. È chiaro che i nostri grandi lirici, idillici ed elegiaci, ignorano la notazione degli infinitesimi sentimentali, delle vibrazioni impercettibili, delle tinte d'anima più instabili. Per questi stati che hanno a teatro un paese da limbo, situato non sai bene se già nella coscienza ovvero alle soglie antelucane del subcosciente, siffatta poesia non ha sentito la necessità di trovarsi né linguaggio, né stile, né adeguata musica. Non suole, essa, fissare altro che il suono fondamentale e quasi l'idea eterna delle situazioni psicologiche, di cui quelle delicate sfumature son come lo spettro decomposto. Pare anzi che in essa poesia il tempo non conosca, per le misure sentimentali, se non i grandi intervalli; ogni moto d'anima vi è riflesso dentro come uno specchio tranquillo ed in estrema amplitudine; quasi con quel disinteresse mnemonico che vela, circonfuso di un sorriso antico, il ricordo dei vecchi. I tremiti sono tutti fissati in un gesto statuario o rappresi nel moto senza concitazione di una scena d'idillio: l'esperienza che li accerta non fiorisce nella sorpresa malizia, ancor quasi paradossale, dell'aforismo; ma nella sentenza incisa e marmorea.

Giacomo De Benedetti

© 2009 - Luigi De Bellis