Caratteri
della tragedia alfieriana
Contro la
tradizione della tragedia classica, tutta conclusa
nell'ultima scena, nell'ultima battuta, l'Alfieri adotta la
soluzione "aperta" della tragedia barocca, che prolunga la
tensione drammatica o in un'azione futura o su una tragica
solitudine d'anima. Proprio questo tema della solitudine
dell'uomo, dell'urto tutto risolto entro i confini
dell'anima, danno vita ai due capolavori, Saul e Mirra.
Un'esasperata esigenza di interiorità, un'ansia magnanima di
grandezza, una virile tempestosa malinconia segnano i tratti
più vigorosamente poetici di tutta l'opera alfieriana e
spiegano perché, nelle tragedie, ali eroi appaiano scialbi
simboli di ideali generosi ma vaghi, mentre l'anima
alfieriana trova la sua espressione più autentica nella cupa
grandiosa tetraggine dei tiranni. Così le Rime nella storia
della tragedia alfieriana si pongono come un primo momento
di esperienze espressive, tanto esse prendono origine da
situazioni drammatiche, mentre offrono ai momenti più alti
della tragedia il risultato di un continuo vigoroso
esercizio di linguaggio lirico.
Mentre la tragedia classica, raciniana, si concludeva in sé,
era l'immagine di un universo chiuso e quindi aveva una
effettiva unità, la tragedia barocca - forse anche per
evadere in qualche modo dagli schemi aristotelici - fa
supporre, oltre l'azione rappresentata, un al di là, una
continuazione della vicenda oltre il calare del sipario. ("Laisse
faire le temps, ta vaillance et ton roi" è la famosa battuta
finale del Cid ). Potremmo dire che alla forma chiusa
classica si oppone una forma aperta: proprio quella che
consente all'Alfieri di prolungare al di là della scena, in
angoscia più drammatica perché più misteriosa, la tensione
tragica delle più alte fra le sue prime tragedie.
Scorre di sangue (e di qual
sangue!) un rio...
Ecco, piena vendetta orrida ottengo;...ma, felice son io?...
(Filippo)
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- O
del celeste sdegno
prima tremenda giustizia di sangue,...
pur giungi, alfine... Io ti ravviso. - Io tremo.
(Antigone)
Oreste, vivi: alla tua destra adulta
quest'empio ferro io serbo. In Argo un giorno,
spero, verrai vendicator del padre. (Agamennone)
... Ahi misero fratello!...
già piú non ci ode;... è fuor di sé... Noi sempre,
Pilade, al fianco a lui staremo... (Oreste)
Ho il ferro ancor; trema: or principia appena
la vendetta, che compiere in te giuro. (Rosmunda)
Te preverrò. - Ma l'altre età sapranno,
scevre di tema e di lusinga, il vero. (Ottavia) |
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Negli
ultimi quattro esempi la tragedia si chiude non
concludendosi ma introducendo chiaramente un'altra azione
drammatica (la vendetta di Oreste, la catarsi del
vendicatore, il tormento dei due coniugi legati dal delitto
e dall'odio reciproco, il suicidio di Seneca e il suo
messaggio ai posteri). Nei primi e più alti esempi (come poi
nel Don Garzia) il sipario invece cala non su un nuovo e
necessario episodio, ma su una solitudine desolata, su un
silenzio raggelato più tragico di qualsiasi aspra vicenda
(«scioglimento... il più terribile a chi ben riflette:
poiché a Creonte... non rimane che l'odio di Tebe, la reggia
desolata e deserta, il regno mal sicuro, e l'ira certa, e
oramai da lui temuta, dei numi» notava già a proposito
dell'Antigone l'Alfieri stesso scrivendo a Ranieri Calsabigi).
All'apertura di una nuova azione si sostituisce l'apertura
su un'anima, che l'episodio rappresentato ha lasciato sola
con se stessa, a misurarsi con se stessa. Sembra che
l'Alfieri dalla tradizione della tragedia barocca elegga
proprio questa forma, aperta ed enigmatica, per affacciarsi
al buio squallore di anime sole colle loro vendette e coi
loro odi, sole nella morsa implacabile di passioni
sconfinate e dispotiche. Non ha ancora identificato quello
che sarà il tema più suo, cosí nella tragedia come nella
lirica: la solitudine dell'uomo con se stesso, insieme
bramata e aborrita. Quando lo intuirà, quando da una
suggestione sottintesa e affidata soltanto come un
suggerimento alla fantasia del lettore, passerà a una
rappresentazione esplicita, allora nasceranno i due
riconosciuti capolavori del teatro alfieriano, Saul e Mirra.
L'azione sarà allora tutta raccolta entro un'anima; e l'urto
non avverrà piú fra personaggi diversi ma fra le passioni,
le perplessità, le ambivalenze di una sola tormentatissima
anima, di un personaggio di immane forza spirituale, al di
là dei confini mediocri dei comuni mortalí. Il superamento
delle esitazioni, dei compromessi, degli egoismi, delle
viltà, anche se raggiunto attraverso la morte, rappresenterà
- nel re empio-superbo e nella fanciulla empia-innocente -
una catarsi solenne e conclusiva («L'Alfieri è riuscito -
già notava il Gioberti - a dipingerci un tiranno che sente
ripiombare su di se stesso la propria tirannide»).
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Oh
figli miei!... - Fui padre.
Eccoti solo, o re; non un ti resta
dei tanti amici, o servi tuoi. - Sei paga,
d'inesorabil Dio terribil ira?
............... - Empia Filiste,
me. troverai,. ma almen da re, qui... morto. - (Saul)
Oh Ciniro! ... Mi vedi...
presso al morire... Io vendicarti... seppi,...
e punir me... Tu stesso, a viva forza,
l'orrido arcano... dal cor... mi strappasti...
Ma, poiché sol colla mia vita... egli esce...
dal labro mio,... men rea... mi moro...
..................Quand'io....tel... chiesi,...
darmi... allora,... Euricléa, dovevi il ferro...
io moriva... innocente;... empia... ora... muojo.
(Mirra) |
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Dalla forma
aperta l'Alfieri torna cosí alla forma chiusa e conclusa,
classica e neoclassica, attraverso una sublimazione in certo
modo lirica della tragedia: una sublimazione che è insieme
l'ideale approdo del suo lungo e difficile esercizio
drammatico e il punto più alto del suo messaggio poetico.
Come nella vita l'Alfieri mirò a un ideale di bellezza
eroica, così nella sua opera di scrittore puntò decisamente
verso un'assoluta intimità drammatico-lirica, in cui l'anima
dell'uomo, cioè la «sua» anima, fosse non tanto al centro
dell'uníverso, quanto l'universo stesso. Ed è proprio nel
rigore col quale perseguí questa sua vocazione che egli,
come tutti i grandi artisti, pur vivendo la tradizione
culturale del suo tempo, la trascese risolutamente: non
perché romantico o protoromantico, ma per il suo potente e
prepotente temperamento poetico. La solitudine dolorosa ed
eroica, la malinconia patetica ma virile (mai romanticamente
languida), l'ansia di grandezza e di magnanimità in ogni
campo: insomma tutti gli accenti più alti dello scrittore
risalgono a questa risoluta fedeltà, a questa esclusiva
attenzione ai problemi dell'anima, della «sua» anima. «Je
suis moi merce la matière de mea livres... chaque homme
porte la forme entière de l'humaine condition» è l'epigrafe
che l'Alfieri, con parole del «familiarissimo» Montaigne,
avrebbe potuto scrivere in fronte alla sua opera. E di fatti
anche le pagine apparentemente più lontane da questa
vocazione (i trattati politici, le commedie, le satire...)
valgono soprattutto come sforzo dello scrittore di chiarire,
attraverso un distacco oggettivo o una trattazione teorica,
certe pieghe di sé a se stesso drammaticamente.
L'attenzione alle esigenze sempre esasperate della
personalità dell'Alfieri si pone cosí come la condizione
prima anche per «saper leggere» la sua poesia. Il clima
procelloso o pateticamente abbandonato delle pagine più
inobliabili della Vita, gli accenti più elevati e più
solitari delle rime, i personaggi più forti e suggestivi e
la originalissima costruzione delle più caratteristiche
tragedie, appaiono ineluttabilmente determinati e imposti da
quelle esigenze interiori. Gli eroi, che l'Alfieri porta
sulla scena, sono, in generale, al confronto dei tiranni,
scialbi e convenzionali o teatrali e eccessivamente
altisonanti; proprio perché in essi soprattutto si
drappeggia la proclamazione di idee generose ma vaghe, e si
gonfia lo sfogo di sentimenti scomposti e falsati dalla
retorica politica. Nei loro antagonisti, invece, si riflette
l'animo appassionato ed eccessivo, tempestoso e
contraddittorio del poeta, tagliato nella stessa stoffa
sovrumana dei tiranni, degli uomini nati a grandi cose,
virtuose e empie, e ombreggiati sempre da una tristezza
della potenza, di sapore tassiano e moltoniano. («La
cupidità del tiranno non è di ricchezze, la quale è
vilissima cupidità, ... ma è cupidigia di comandare, la
quale suole esser fondata sovra la grandezza de l'animo... e
chi aspira alle cose malagevoli è di grand'animo»: Tasso, Il
forno, 102; I red. 126).
Esasperata esigenza di intimità anche nella costruzione
delle tragedie più originali e più alte: Filippo,
Clitennestra, Saul, Mirra - i suoi eroi più grandi perché
più soli - chiudono e dibattono nel mistero della loro anima
tutto il dramma: le azioni che si svolgono attorno non hanno
che il valore di episodi scelti per dar rilievo teatrale
alla loro desolazione interiore. Anzi le studiatissime
elaborazioni cui lo scrittore sottopose le sue tragedie
mirano, in generale, proprio a liberarle di ogni ingombrante
riferimento esterno, a ridurre risolutamente l'«ambiente»:
mirano cioè alla rappresentazione di una solitudine
esasperata e alla conquista di una violenta intimità, le due
caratteristiche massime del teatro alfieriano.
Non a caso del resto l'esperienza più propriamente lirica,
quella delle Rime - questo «giornale» segreto cui giorno per
giorno l'Alfieri affidava le notazioni più rapide e più
immediate della folla di « occasioni » che caratterizza il
suo esercizio di artista -, si pone proprio come il banco di
prova, il punto di passaggio obbligato tanto per il
narratore della Vita che per il poeta delle tragedie. E quel
tono smisurato, ignaro di qualsiasi semitono morale e
sentimentale, quel linguaggio rapido e intenso, quasi un
parlare prorompente, quel fremere, quel furore - cioè i
caratteri che sono stati identificati come i più originali e
i più continui della scrittura dell'Alfieri nei suoi vari
momenti - discendono da questo rigore lirico, immane e
categorico.
Il rapporto, a prima vista così suggestivo, tra la Vita e le
Rime - che potrebbe richiamare quello fra lo Zibaldone e i
Canti, unico nella storia della nostra poesia - è infatti un
rapporto insolitamente rovesciato proprio per la prepotenza
dell'esigenza lirica: la notazione in versi, la
trasfigurazione degli episodi ha preceduto la narrazione
autobiografica. Non si può respingere l'impressione che
l'Alfieri, quando volle narrare di sé in prosa, abbia
trovato, nelle Rime e nelle note che le accompagnano, una
traccia generale e suggestive filigrane particolari.
Nella storia della tragedia alfieriana le rime
rappresentano, in certo modo, il libro segreto in cui
fermare le prime idee e le prime impressioni, in cui riporre
il ricordo dei vari moti dell'anima, in cui saggiare il
linguaggio più nuovo, in cui tentare i primi impasti di
colore. E se queste note sono spesso nei sonetti ancora
incerte, provvisorie, grezze, non è difficile scorgervi le
filigrane più preziose del mirabile ordito delle tragedie.
Ma d'altra parte lo stesso linguaggio delle rime è tanto
dominato e quasi tiranneggiato dal temperamento eccessivo e
drammatico dello scrittore, da tendere - come ho dimostrato
al altrove - quasi sempre a un'intonazione coturnata, a una
spezzatura teatrale, a una violenza. tragica. I sonetti si
pongono, sí, come il primo e più geloso momento nella genesi
delle tragedie, ma spesso appaiono folgorati e attratti dal
miraggio di quel clima eroico e sovrumano: e spesso nascono
da un drammatico urto di sentimenti e di passioni in
contrasto, da concitati dibattiti interiori, da furori
eroici e da sdegni morali impennantisi su debolezze e
incertezze sempre in agguato.
Come i momenti più alti delle sue tragedie, per la loro
categorica intimità, ricorrono naturalmente a un linguaggio
lirico, così le sue rime più inobliabili muovono
prevalentemente da situazioni e da atteggiamenti drammatici,
in atmosfera tragica. Tragedia, lirica, autobiografia si
staccano da quell'unica ricca, generosa matrice sentimentale
che abbiamo definito con le amate parole di Montaigne: se ne
staccano non quali contemplazioni di se stesso, ma come
prorompenti rivelazioni, folgorazioni abbaglianti, impeti di
furore. Il riflettersi continuo dei modi dell'una forma in
quelli dell'altra, non è effetto di una consuetudine
tecnica, quanto espressione di una necessità di fantasia:
della suprema «ragione» teatrale dell'Alfieri scrittore,
dell'Alfieri «poeta dei gridi dell'anima». |