Il "sublime" e
la morte nella tragedia alfieriana
Il momento
tipico della tragedia alfieriana è quello della catastrofe
irreparabile: in questo momento il suo linguaggio raggiunge
i toni più alti e nuovi, supera i limiti del gusto
settecentesco per approdare al livello del « sublime » che
colloca i personaggi al di là dei confini della vita comune,
al cospetto della morte. La morte è il grande tema della
poesia alfieriana che il critico illustra in alcune
situazioni fra le più intense e significative; ma il poeta
non si limita a un vagheggiamento stanco e decadente della
morte, poiché proprio dinanzi ad essa le figure della sua
tragedia esprimono una indomabile vitalità ed energia.
La tragedia alfieriana si presenta al poeta nell'aspetto di
una grandiosa irreparabile catastrofe, né a caso, come è
stato osservato, le scene più poetiche si trovano di solito
negli ultimi atti. Ma per giungere a quella catastrofe, che
è il motivo primo e profondo dell'opera, l'autore va
congegnando più d'una volta l'azione con un procedimento
intellettualistico; più d'una volta il suo linguaggio sotto
l'apparente concisione e concitazione si avviluppa in un
frasario scolastico e talora, nonostante le intenzioni del
poeta, più che drammatico, melodrammatico. Ma quando i suoi
eroi hanno dinanzi a sé la visione della propria rovina, la
loro parola si fa nuda ed essenziale e la loro figura
s'innalza statuaria dinanzi a noi. Risuona in quelle parole
il « sublime », aspirazione di tanti critici e lettori del
Settecento, il « sublime » che dischiude all'animo lo
spettacolo di un mondo senza confini. Dov'è la varia società
del secolo, la sua « commedia dell'amore », che sembrava
essere l'unico soggetto dell'arte settecentesca? Siamo
sbalzati, e non già perché così lo richieda il genere
tragico, fuori dai confini della vita di tutti gli uomini;
fuori non soltanto dal piccolo mondo settecentesco, ma da
ogni mondo terreno, sul limite tra la vita e la morte,
poiché gli eroi tutti dell'Alfieri stanno su quel limite, e
dal mondo in cui vivere per loro non è possibile, sono
condotti ad affidarsi alla morte. «Non posso Esser tua mai;
che val ch'io viva?». La morte, è stato detto, è la grande
realtà della tragedia alfieriana; per i suoi tiranni il cui
regno assoluto e totale non è cosa di questa terra e che
sono costretti per ottenerlo a fare il vuoto intorno a sé
chiudendosi in una solitudine mortale e non trovando in
questa solitudine la pace; per i suoi eroi e per le sue
eroine a cui la tirannide toglie prima ancora della vita, la
volontà di vivere, e nel pensiero della morte trovano un
rifugio, un sostegno, un conforto. Non vi è verso nell'opera
dell'Alfieri in cui la morte sia nominata, che non palpiti
di poesia, quasi che con quella parola il poeta avesse
toccato la corda piú intima e più sensibile della propria
ispirazione. Quel motivo che sembrerebbe monotono e privo di
sviluppi si rivela ricco di infinite risonanze: ché i
personaggi nel desiderio della morte liberatrice infondono
tutto il loro ardore vitale, le loro passioni, il loro
carattere. E le parole di Carlo che ha penetrato l'animo del
padre e sa che nulla deve sperare per sé e si presenta nel
suo orgoglio di uomo libero destinato al sacrificio, sono
differenti dalle parole di Antigone, che nella morte cerca
la liberazione dalla vergogna della sua famiglia, la
vittoria sul tiranno, e più ancora su se medesima, sulla sua
debolezza, sulla sua colpa; e da lei differisce la mite
Romilda che alla sua implacabile nemica rivolge
l'appassionata preghiera perché l'amato suo morendo sappia
che con lui, degna di lui, essa è morta:
|
Deh! fa che a un tempo anzi il morire ei sappia,
che a forza niuna io non soggiacqui; e ch'io,
degna di lui, sicura in me, trafitta
non d'altra man che della mia, qui caddi:
e qui, chiamandolo a nome spirai; |
|
e dall'una
e dall'altra differisce Ottavia, che nulla può attendere
ormai se non il supplizio e l'infamia immeritata e pur non
sa vincere in sé un istintivo timore della morte desiderata,
e volge il suo sguardo sospiroso a Seneca maestro del
morire: « La morte, è vero, io temo: E pur la bramo; e
sospiroso il guardo A te, maestro del morire, io volgo », e
più innanzi nell'imminenza della catastrofe a lui riluttante
chiede supplichevole un veleno che la sottragga allo strazio
troppo atroce del supplizio
|
...
Da lunghi anni
uso a mirar dappresso assai la morte,
tu stai sicuro; io non cosí; d'etade
tenera ancor, di cor mal fermo forse;
di delicate membra; a virtú vera
non mai nudrita; e incontro a morte cruda
ed immatura, io debilmente armata:
per te, se il vuoi, fuggir poss'io la vita;
ma di aspettar la morte io non ho forza. |
|
E Saul dopo
avere vagheggiato come una liberazione dal cerchio chiuso in
cui si va rivolgendo, la morte in battaglia per mano dei
nemici, cade, grande come mai non è stato, grande di fronte
all'insolente vincitore, di fronte a Dio stesso, per mano
sua, da re: ma Mirra alla morte guarda per tutta la tragedia
con l'angoscia lagrimosa di una fanciulla, sola con la
coscienza di una colpa inespiabile, e muore infelice come
nessun'altra eroina alfieriana sentendo che vana è stata la
sua lotta eroica e vana la morte stessa.
«Maestro», e poeta, «del morire» è dunque anche l'Alfieri,
il vate che chiama a nuova vita i connazionali? E' questa di
persuasore di morte la parola ultima della sua poesia? Disse
il De Sanctis del Leopardi che «non crede al progresso e te
lo fa desiderare: non crede alla libertà e te la fa amare;
chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù e te ne
accende in petto un desiderio inesausto»: una considerazione
simile si può fare, mutatis mutandis, per il nostro poeta
che del poeta dei Canti è come il maggiore fratello. Non in
lui il melodioso lamento del Leopardi, nel quale si effonde
la nostalgia invincibile per tutti i beni negati ed essi vi
sono fatti in certo qual modo presenti; non il chiaroscuro
del Foscolo, che in ogni verso chiude sempre una duplicità
di sentimenti, lo strazio e il conforto, e la coscienza
tragica della vita sublimata nella poesia dell'armonia; ma
una tensione estrema, nella quale si confondono ardore di
vita e ardore di morte e lo stesso verso, la stessa parola
suonano insieme assoluta disperazione ed esaltazione di una
forza eroica più che umana. L'impeto titanico che si incarna
nei suoi tiranni non può essere se non distruttore (il
titanismo alfieriano ha sempre in sé la coscienza del
proprio limite); il furore che trasporta personaggi come
quelli dell'Oreste si risolve in un'azione frenetica che a
cagione della sua stessa violenza in breve si esaurisce per
placarsi infine in una calma funerea; l'amore stesso non è
per i suoi personaggi espansione dell'animo, benefico calore
che avviva e consola anche se combattuto e doloroso, ma
sempre, per Carlo ed Isabella, per Antigone, per
Clitennestra, per Mirra, amore vietato, sentimento che essi
non possono né fuggire né appagare e che si asside immoto
nel loro animo come forza distruggitrice. Eppure l'orrore e
l'angoscia di quei drammi non spengono il sentimento
tonificante di una singolare energia: così è in ogni
tragedia, così nelle sue maggiori, che nel ritmo più ampio e
pacato permettono al poeta di dare voce più esplicita e più
chiara a quel che nelle precedenti era indistinto e
puntuale. Perciò Saul suscita insieme la nostra pietà e la
nostra ammirazione: se vani e incoerenti sono i suoi atti e
si esauriscono in puri gesti, noi sentiamo in quegli atti,
in quei gesti di una volontà spezzata, un'energia unica, la
quale avrà la sua apoteosi quando tutto sarà caduto intorno
al re ed e-gli affermerà la propria grandezza nel suicidio;
e Mirra, che invano combatte contro un sogno peccaminoso,
invano si dibatte per nascondere la sua colpa, incapace
ormai di salvarsi vivendo la vita degli altri uomini,
destinata fin dal principio alla disfatta, dimostra in
quella lotta un eroismo del quale essa stessa in qualche
momento si esalta. Non è certo dell'Alfieri un
decadentistico vagheggiamento della morte, dell'angoscia,
del nulla: non cerca egli e non cercano i suoi eroi
un'evasione, bensí la loro disperata negazione è ancora
un'affermazione di vita. |