Il gusto
del particolare nell'Ariosto
L'Ariosto ha imitato Omero, prendendo un soggetto per se
stesso appassionato, qual era il furore di Orlando. Egli
ne fa cagione una bellezza amata universalmente da tutto
ciò che v'era di più illustre nell'esercito de'
Cristiani e de' Mori, e che colla bellezza ha forza di
trattenere qualche tempo la sospesa ferocia del popolo
d'Ebuda, e di commover Ruggero tanto fedele a Bradamante,
non meno che i divoti Eremiti. Una cagione così
efficace, per cui aveva fatto Orlando tanti viaggi,
mette della compassione per lui, cui i suoi lamenti e i
suoi sogni vanno insensibilmente accrescendo, fin che al
fine non cercando che d'ostare al suo destino, lo
ritrova nel riconoscimento d'aver perduta ogni speranza,
per essersi ella abbandonata a Medoro. Impazzisce, e più
compassionevole è la sua pazzia, per la quale un Uomo sì
saggio e generoso fa cose così vili e ridicole. Ma
questa passione nata solamente per amore non interessa
vivamente se non coloro, che sono presso poco nel caso
d'Orlando; non è una passione universale, che interessa,
come quelle introdotte da Virgilio e da Omero. Il furor
di Didone mi commove infinitamente più, e il furor
d'Achille per la morte di Patroclo, che la pazzia
d'Orlando, in quella guisa che appunto infinitamente mi
move il dolor dello stesso Orlando per Brandimarte.
Compassionevole è assai la morte di Zerbino tra le
braccia d'Isabella, l'abbandono d'Olimpia, la
condannagione di Ginevra, e tutto il caso di Ruggero
allora ch'egli è impedito di sposar Bradamante. Ma tutte
queste cose sono estrinseche al furor d'Orlando, né vi
si rapportano, né come parti, né come episodj tratti
dalle circostanze dello stesso suggetto...
Merita tutta la lode l'Ariosto d'aver estesa la potenza
delle Fate; perché nel suo tempo il popolo così credeva;
e di non aver dato alle spade, agli elmi, alle corazze,
agli scudi, malgrado tutta la loro fatatura, se non le
qualità che loro convenivano, come di tagliar altre
spade. Fa consister in oltre la più parte degli incanti
in illusioni che poi si discoprono. Ma quel ch'è più
bello, tutto questo sistema d'incanti svanisce a
proporzione che s'accosta al fine: Ruggero getta nel
pozzo lo scudo, Angelica porta in India l'anello; l'elmo
d'Ettore svanisce con Ferraù, Balisarda si perde con
Gradasso ecc. Ma poi l'Ariosto non si può lodare in
quest'altra parte: dà somma forza a Gradasso, a Ruggero,
a Rodomonte. Se egli a proporzione l'accrescesse in
Orlando, sino ad un grado competente ad un Uomo, come fa
Omero e Virgilio, non vi sarebbe inconveniente; ma
dargli una forza che più tira in una scossa che un
argano in dieci, che può maneggiar un'ancora come un
remo, ed entrato nella bocca di un'orca in un battello,
attaccargliela al palato e alla lingua, questo è qualche
cosa di più, che prender con le mani un Eremita nel
collo, raggirarlo due o tre volte in aria, e scagliarlo
nel mare. Tutta la grazia del comico, con cui procura di
rimediar a tali inconvenienti, non lo giustifica
appieno. Perché chi l'obbligava ad unire in un'opera
sola coll'eroico e col tragico il comico, e talvolta un
comico basso ed osceno, che lo stesso Gravina, grande
ammiratore dell'Ariosto, non ha potuto scusare con tutta
la buona intenzione che aveva in suo favore? Pare che
Orazio avesse in vista l'Ariosto allorché nella sua
Poetica scrisse: «Spesso a' gravi principi e che
promettono gran cose innesta parte di un panno
risplendente, mentre o il bosco o l'altare di Diana, o
il giro di un ruscello che scorra per campi ameni, o il
fiume Reno vi descrive, o l'arco piovoso. Non era questo
il luogo opportuno: forse tu sai dipinger un rivo, un
cipresso: ma ciò, che giova se dei dipingere un naufrago
disperato? Al girar della ruota incominciansi un'anfora,
e al fine esce un orciolo. Sia dunque semplice ed uno
ciò che fai». E più abbasso egli dice: «Chi desidera con
portentosa varietà trasformar un corpo, dipinge tra
boschi il delfino e il cinghiale tra l'onde. L'ultimo
fabbro del Circo Emilio sa vivamente imitare nel bronzo
l'unghie e i capelli molli, ma è poscia infelice
nell'opra intiera, perché ci non sa unire il tutto. Io
non torrei più di esser tale quando mi dessi a comporre,
che vivere con un naso diforme, lodato per occhi neri, e
neri capelli». Ho trascritto tutto intero questo passo
perché si vegga, se le novelle di Giocondo, del
Cagnolino, della Maga, della coppa incantata, non
rassomigliano al fiume, all'iride, al ruscello, al
cipresso, al delfino d'Orazio; e se tutte le parti
dell'Ariosto egregie, come l'unghie e i capelli scolpiti
nel bronzo, non compongano poi un tutto per la loro
eterogeneità molto diforme, almeno se si giudica della
Poesia secondo i principi d'Orazio e d'Aristotele,
approvati da tutte le Nazioni, come fondati sulla
convenienza, la sola ed universal regola della Poesia.
Ben se n'è accorto il Tasso, e con meno fantasia ed
ingegno dell'Ariosto, meno se si vuole di felicità
nell'armonia del verso, e nella leggiadria dell'imagini,
ha fatto un tutto regolarissimo, perché composto di
parti tra loro né contrarie né eterogenee, salvo forse
quello della donna che viaggia all'isole fortunate. Se
si compari la fuga d'Angelica a quella d'Erminia, i
funerali di Brandimarte a quelli di Ugone, i tre
castelli d'Atlante al giardino, al castello, alla selva
d'Armida, il viaggio d'Astolfo alla luna a quello di
Carlo e d'Ubaldo al1'isole fortunate; in queste parti si
troverà forse da alcuni, per non dir da tutti, superiore
l'Ariosto di gran lunga al Tasso; ma si cerchi poi il
principio, il mezzo e il fine dell'opera, gli episodi
nati dal capriccio o dalle circostanze del fatto, e si
vedrà nel Tasso cosa sia la forza architettonica di una
mente, che mai non si parte dalle regole della
convenienza. |