IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

CINQUECENTO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL CINQUECENTO

Ironia del Furioso

L'elemento dell'arte negativo e dissolvente aveva già percorso tutto il suo ciclo a Firenze, giunto sino alla pura buffoneria. Il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura, hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo il lato comico. L'Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la cavalleria, come fece il Cervantes, e nel suo mondo s'incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e anche grotteschi, come la Gabrina, con la stessa indifferenza che s'incontrano episodi tragici ed elegiaci. Ma, se il suo riso non è intenzionale, non è neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori buffoneggiando, come fece poi il Berni nel suo Orlando. Il suo riso è più serio e più profondo.
È il riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni qualità; è, se non ancora la scienza, il buon senso, generato da un sentimento già sviluppato del reale e del possibile, è il riso precursore della scienza.
Ludovico è innanzi tutto un artista. A questo mondo cavalleresco egli non ci crede; pur se ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più serio a lui che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un amore, un interesse semplicemente di artista. La sua immaginazione se lo assimila, ne acquista una piena intelligenza, fa e disfà, compone e ricompone, con assoluta padronanza, come materia di cui conosce tutti gli elementi, e che atteggia e configura a suo genio. La materia in Dante così resistente e scabra qui perde i suoi angoli e le sue punte, e come cera, riceve tutte le impressioni. L'immaginazione le si accosta sgombra di ogni preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e vi si oblia, e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore è scomparso nella creatura. L'obiettività è perfetta. Ma guarda bene, e vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco riverente di colui che l'ha creata, e che in certi momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la mano. Non sai se è di te che si burli o della sua creatura, e a ogni modo ci mette una grazia, che gli daresti un bacio. La burla ti coglie improvviso, nella maggiore serietà della rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti disfà in un istante le creazioni più interessanti, e ti avviene così spesso, che non ti abbandoni più e prendi guardia, e ti avvezzi a poco a poco a quell'ambiente equivoco nel quale si aggira quel mondo. Quando l'autore sembra interamente scomparso dalla sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che un bel momento metterà fuori il capo e ti farà una smorfia. Di sotto a quella obiettività omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d'ironia l'elemento subbiettivo e negativo...

Vedi come concepisce. Il protagonista non è il savio Orlando, ma Orlando matto e furioso. Questo tipo della cavalleria così trasformato è già una concezione ironica. Ma guarda ora come vien fuori questa concezione. Il momento della pazzia è rappresentato con tale realtà di colorito, che la tua illusione è perfetta. Ci si vede una profonda conoscenza della natura umana nelle sue più fini gradazioni. È un «crescendo» di particolari e di colori, che ti rendono naturalissimo un fatto così straordinario. Venuto in furore e matto, il poeta te lo abbandona alle risate del pubblico. Ad una scena tenera succede la più schietta allegrezza comica, la caricatura spinta fino alla buffoneria. Anche il modo come Orlando riacquista il senno, ha un profondo senso comico. Secondo le tradizioni del medio evo, l'uomo non può trovare la pace che nell'altro mondo. È la base della Divina Commedia. Il poeta materializza questo concetto e lo rende comico, cavandone la bizzarra concezione, che ciò che si perde in terra, si trova nell'altro mondo. Di qui il viaggio di Astolfo sull'ippogrifo nell'altro mondo, che è una vera parodia del viaggio dantesco. Il fumo e il puzzo gli impedisce di entrare nell'inferno; ma all'ingresso trova le prime peccatrici, punite, come Lidia, per la soverchia crudeltà verso gli amanti. È il. concetto della Francesca da Rimini preso a rovescio, e divenuto comico. Poi sale al paradiso terrestre, e in un bel palagio di gemme trova san Giovanni evangelista, Enoch ed Elia, che gli dànno alloggio in una stanza e provvedono di buona biada il suo cavallo, e a lui dànno frutti di tal sapore,
 
  che a suo giudicio sanza
Scusa non sono i due primi parenti
Se per quei fur sì poco ubbidienti.
 

Astolfo vi trova buon cibo, buon riposo «e tutti comodi». È il paradiso terrestre materializzato. Di là, «uscito dal letto», con san Giovanni ascende sulla Luna. Qui la parodia prende forma satirica, senza fiele e in aria scherzosa. In un vallone è ammassato ciò che tu terra si perde:
 
  Le lacrime le i sospiri degli amanti,
L'inutil tempo che si perde a gioco,
E l'ozio lungo d'uomini ignoranti;
Vani disegni che non han mai loco,
I vani desiderii sono tanti,
Che la più parte ingombran di quel loco.
Ciò che in somma qua giù perdesti mai,
Là su salendo ritrovar potrai.
(XXXIV, 75)
 

Per comprendere questa ironia, bisogna ricordare che la Luna era come un castello di Spagna o un castello in aria nelle idee popolari, e anche oggidì uno che vive nelle astrattezze si dice che sta nel regno della luna. Là si trova in varie ampolle un liquore sottile e molle, che è il senno che si perde in terra.
 
  Di sofisti e di astrologhi raccolto
E di poeti ancor ve n'era molto.
(XXXIV, 85, vv. 7-8)
 

Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con gli astrologhi e i poeti. Dove il medio evo vedea il maggior senno, egli vede vacuità e astrazione. La fine è di una schietta allegria:
 
  E vi son tutte l'occorrenze nostre;
Sol la pazzia, non vi è poca, né assai,
Ché sta qua giù, né se ne parte mai...
(XXIXIV 81, vv. 6-8)
 

Questo inondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore e non amore, questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un'alta ispirazione artistica. Il poeta considera il mondo non come un esercizio serio della vita nello scopo e ne' mezzi, ma come una docile materia abbandonata alle combinazioni e a' trastulli della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è così serio artisticamente, come è serio il lavoro di Omero, di Virgilio o di Dante, e ci è insieme la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò dal punto di vista del reale uno scherzo, o come dicea il cardinale Ippolito, una corbelleria. E sarebbe stato una corbelleria, se l'autore avesse voluto dargli più serietà che non portava, e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la corbelleria diviene una concezione profonda di verità, perché il poeta è il primo a riderne dietro la tela, ed ha l'aria di beffarsi lui de' suoi uditori. Questo stare al di sopra del mondo, e tenere in mano le fila, e fare e disfare a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d'immaginazione è ciò che dicesi capriccio e umore. Se non che il poeta è zimbello spesso della sua immaginazione, e si oblia in quel suo mondo, e gli dà l'ultima finitezza. Di che nasce che l'umore piglia la forma contenuta dell'ironia, e tu ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso confondono i loro confini, e dove tutto è superficie, passioni, caratteri, mezzi e fini, superficie meravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione, che all'ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una frase ironica, dispare, ma dopo di aver destata la tua ammirazione e suscitate in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco dell'immaginazione, dove si rivela un così alto sentimento dell'arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno. E perché questo è fatto senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro in antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l'uno nell'altro, sono la rappresentazione artistica dell'un mondo con sopravi l'impronta dell'altro. In questa fusione più sentita che pensata, e che fa dell'autore e della sua creazione un solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza come opera di pura arte il lavoro più finito dell'immaginazione italiana, e per il profondo significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito umano.

Francesco De Sanctis

© 2009 - Luigi De Bellis