IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

CINQUECENTO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL CINQUECENTO

L'armonia ariostesca

A ridurre le dilettose storie cavalleresche e gli scherzi capricciosi a poesia, e la piccola poesia erotica o narrante e ragionante a più complessa poesia, a far compiere il passaggio e l'ascesa dalle opere minori alla veramente maggiore, a mediare l'immediato, operò il sentimento dell'Armonia, trasformando quei vari ordini di sentimenti particolari nel modo che ci facciamo a considerare.

Il primo cambiamento ch'essi soffersero non appena vennero toccati dall'Armonia che cantava in fondo al petto del loro poeta, si manifestò nella perdita della loro autonomia, nella sottomissione a un unico signore, nella discesa da tutto a parte, da motivi ad occasioni,da fini a strumenti, nel morire di essi tutti a beneficio di una nuova vita.
La forza magica, che compiva questo prodigio, era il tono della espressione, quel tono disinvolto, lieve, trasmutabile in mille guise e sempre grazioso, che i vecchi critici chiamavano « aria confidenziale » ed enumeravano tra le altre « proprietà » dello «stile» ariostesco, ed in ,cui non solo consiste intero lo stile, ma, poiché lo stile non è altro che l'espressione del poeta e la sua anima stessa, consisteva tutto intero l'Ariosto, col suo cantare armonioso.
Palpabile è quest'opera di svalutazione e di distruzione eseguita dal tono espressivo, nei proemi dei singoli canti, nelle digressioni ragionanti, nelle osservazioni intercalate, nelle riprese, nei vocaboli adoperati, nel fraseggiare e nel periodare, e soprattutto nei frequenti paragoni che formano quadri e non rinforzano la commozione ma la divagano, e nelle interruzioni dei racconti talvolta nel punto loro più drammatico, con gli agili passaggi ad altri racconti di diversa e sovente opposta natura. E nondimeno ciò che vi ha di palpabile, di rettoricamente isolabile e analizzabile, è solo piccola parte del tutto, dell'impalpabile, che scorre come sottile fluido, e non si lascia afferrare con ordigni scolastici, ma, anima qual'è, si sente con l'anima.
E questo tono è altresì la tante volte notata e denominata, e non mai bene determinata ironia ariostesca: non bene determinata, perché è stata troppo per solito riposta in una sorta di scherzo o di scherno, simile e coincidente con quello che l'Ariosto usava talvolta nel contemplare le figure e le avventure cavalleresche; e così è accaduto di restringerla e materializzarla a un tempo. Ma ciò che non bisogna perdere di vista è, che quell'ironia non colpisce già un ordine di sentimenti, per esempio i cavallereschi o i religiosi, risparmiando altri, ma li avvolge tutti, e perciò non è futile scherzo, ma qualcosa di assai più alto, qualcosa di schiettamente artistico e poetico, la vittoria del motivo fondamentale sugli altri tutti.
Tutti i sentimenti, i sublimi e gli scherzosi, i teneri e i forti, le effusioni del cuore e le escogitazioni dell'intelletto, i ragionamenti d'amore e i cataloghi encomiastici di nomi, le rappresentazioni di battaglie e i motti della comicità, tutti sono alla pari abbassati dall'ironia ed elevati in lei. Sopra l'eguale caduta di tutti, s'innalza la Maraviglia dell'ottava ariostesca, che è cosa che vive per sé: un'ottava che non sarebbe sufficientemente qualificata col dirla sorridente, salvo che il sorriso non s'intenda nel senso ideale, appunto come manifestazione di vita libera ed armonica, ener jica ed equilibrata, battente nelle vene ricche di buon sangue e pacata in questo battito incessante. Quelle ottave hanno la corporeità ora di floride giovinette ora di efebi ben formati, sciolte le membra nell'esercizio dei muscoli, e che non si affannano a dar prova della loro destrezza, perché essa si rivela, in ogni loro atteggiamento e gesto. - Olimpia, dopo tante traversie, dopo lungo e tempestoso viaggio per mare, approda col suo amante in un'isola selvaggia e deserta:
 
  Il travaglio del mare e la paura,
che tenuta alcun dì l'aveano desta;
il ritrovarsi al lito ora sicura,
lontana da rumor, ne la foresta;
e che nessun pensier, nessuna cura,
poi che 'l suo amante ha seco, la molesta;
fúr cagion ch'ebbe Olimpia sì gran sonno,
che gli orsi e i ghiri aver maggior nol ponno.
 

C'è qui la completa analisi delle cagioni del gran sonno in cui cade Olimpia, precisamente dette; ma tutto ciò è chiaramente secondario innanzi al sentimento intimo che esprime l'ottava, la quale sembra piacersi di sé stessa, e si piace in effetto della risoluzione di un moto, di un divenire, che giunge al suo compimento.

Si direbbe, l'ironia dell'Ariosto, simile all'occhio di Dio che guarda il muoversi della creazione, di tutta la creazione, amandola alla pari, nel bene e nel male, nel grandissimo e nel piccolissimo, nell'uomo e nel granello di sabbia, perché l'ha fatta lui, e non cogliendo in essa che il moto stesso, l'eterna dialettica, il ritmo e l'armonia. Con che, dalla comune accezione della parola «ironia» si è compiuto il passaggio al significato metafisico che essa ebbe presso i fichtiani e i romantici, con la cui teoria spiegheremmo volentieri la natura dell'ispirazione ariostesca, se, presso quei pensatori e letterati, l'ironia non fosse stata più confusa col cosiddetto umorismo e con la bizzarria e stravaganza, ossia Con atteggiamenti che turbano e distruggono l'arte; laddove la determinazione critica da noi proposta si tiene rigorosamente nei confini dell'arte, come vi si tenne col fatto l'Ariosto, che non trascorse mai nell'umorismo e nel bislacco, indizio di debolezza, e ironizzò da artista, sicuro della propria forza. E, per avventura, questa è la ragione, o una delle ragioni, onde l'Ariosto non andò a grado agli scapigliati romantici, disposti a preferirgli il Rabelais, e, finanche, Carlo Gozzi.

Fiaccare tutti gli ordini di sentimenti, adeguarli tutti in questo abbassamento, togliere alle cose la loro autonomia, privarle della loro particolare e propria anima, vale convertire il mondo dello spirito in Mondo della natura: un mondo irreale, che non è se non in quanto noi così lo poniamo. E, per certi rispetti, «natura» diventa tutto il mondo per l'Ariosto, superficie disegnata e colorata, splendente ma senza sostanza. Donde anche quel suo vedere gli oggetti in ogni loro tratto, come naturalista che esservi minuzioso e descriva, senza appagarsi del tratto unico che solo rilevano e segnano altri geni d'artisti, senza impazienze passionali e conseguenti sprezzature. Può sembrare che la figura di san Giovanni sia ritratta, al modo in cui è ritratta, per celia:
 
  ch 'l manto ha rosso e bianca la gonnella,
che l'un può al latte, l'altro al minio opporre;
i crini ha bianchi e bianca la mascella
di folta barba ch'al petto discorre...
 

Ma, in fondo, con lo stesso metodo viene ritratta la bellezza di Olimpia, obliando la castità della donna che sarebbe parsa richiedere altra sorta di figurazioni o piuttosto qualche uso di velamenti:
 
  Le bellezze d'Olimpia eran di quelle
che son più rare; e non la fronte sola,
gli occhi, e le guance, e le chiome avea belle.
 

E con lo stesso metodo perfino Medoro, il cui cuore devote, e ardito, il cui giovanile eroismo sarebbe parso richiedere uno sguardo meno attento alla freschezza dell'adolescente e più attento ai tratti che rivelano l'ardimento e la devozione:
 
  Medoro avea la guancia colorita,
e bianca e grata ne la età novella...
 

Le moltissime similitudini dei personaggi, e delle situazioni in cui si ritrovano, coli spettacoli offerti dalla vita delle bestie o da fenomeni della natura, sono anch'esse la parte quasi afferrabile e palpabile di questa conversione del mondo umano in mondo della natura. Non ne faremo la statistica, perché la fece già, con irritante pazienza, un filologo tedesco in un grosso fascicolo, che fa passar la voglia d'indugiarsi anche per un momento sulle similitudini, comparazioni e metafore ariostesche.

Questo apparente naturalizzamento, questo oggettivismo del quale abbiamo insieme mostrato la profonda soggettività, ha indotto alla fallace affermazione, che già ci è nota, circa l'indifferenza e la freddezza osservatrice, tutta versata nelle cose, che sarebbe la forma dell'Ariosto. A1 quale è stato dato compagno, per questa parte; il contemporaneo Machiavelli, che investigò (come si suol dire) con occhio sagace la storia e la politica, ne descrisse l'andare e ne formulò le leggi, ed espresse le osservazioni da lui fatte nella sua prosa con analoga inesorabile oggettività, con scientifica freddezza. In certo senso, ma in un senso assai lontano, è vero che entrambi, in diverso campo e per diversi fini, distrussero un anteriore contenuto spirituale (il Machiavelli, la concezione religiosa medievale della storia e della politica), e naturalizzarono. Ma nient'altro che un detto immaginoso è da tenere quel giudizio sul Machiavelli, il quale, pensatore, scrutava i fatti e li schiariva con un nuovo vigoroso pensiero, e, scrittore, esprimeva nell'apparente freddezza la sua passione severa; e, similmente, nient'altro che metafora è da considerare quella caratteristica dell'Ariosto, naturalista e oggettivo, perché l'Ariosto naturalizzava per ispiritualizzare in nuova guisa, creando spirituali forme di Armonia.
In opposto verso, e in conseguenza di quanto siamo venuti dimostrando, conviene abbandonare le lodi che si sono date all'Ariosto, ora per la sua « epicità », per l'epica nobiltà e decoro, che in lui tanto esaltava il Galilei, ora per la forza e la coerenza che si ammirerebbero nei caratteri dei suoi personaggi, secondo l'avviso di critici vecchi e anche nuovi, e anzi recenti. Come mai potrebbe essere, nel Furioso, epicità, quando nel suo autore non solo mancavano i sentimenti etici dell'epos, ma quel poco, che si può alquanto sottilmente sostenere che pur ne possedesse in retaggio, veniva con tutto il resto disciolto nell'armonia ed ironia? E come mai potrebbero essere nel poema caratteri veri e propri, se i caratteri dei personaggi non sono altro, in arte, che le note stesse, varie, diverse e contrastanti, dell'anima del poeta, le quali s'incorporano in creature che sembrano bensì vivere di vita propria e particolare, e vivono invece tutte della stessa vita, variamente distribuita, scintille dello stesso fuoco centrale? Pessimo pregiudizio critico é quello che reputa che i caratteri vivano per sé; e quasi che possano continuare la loro vita fuori delle opere d'arte di cui sono parti e nelle quali non sono punto dissimili, né dissociabili, dalle strofe, dai versi e dalle parole. Nel Furioso, non essendovi libera energia di sentimenti passionali, non vi sono caratteri ma figure, disegnate bensì e dipinte, ma senza rilievo e rotondità, e con tratti piuttosto generici e tipici che individuali. I cavalieri si somigliano e confondono tra loro, differenziati per bontà e malvagità, per maggiore gentilezza e maggiore rudezza, ,o per attributi estrinseci ed accidentali, e spesso per i soli nomi; le donne, allo stesso modo, come amorose o perfide, virtuose e contente di un solo amore o dissolute e perverse, e spesso per le avventure diverse in cui càpitano e pei nomi che le fregiano. Il medesimo è per le fisionomie dei racconti e delle descrizioni (tipica e non individuale, o poco individuale, è la pazzia di Orlando, alla quale solo per compiacimento rettoneo si è potuta avvicinare da qualche critico quella di Lear), e per le fisionomie degli oggetti, paesaggi, palazzi, giardini, e ogni altra cosa. Perfino sulla coerenza dei caratteri, grossamente intesa, come ubbidienza a un disegno tipico, ci sarebbe da fare (e a ragione sono state fatte) talune riserve, perché i personaggi dell'Ariosto si prendono molte libertà verso sé stessi, secondo i casi nei quali incorrono, o piuttosto secondo i servigi che loro richiede l'autore.

Tali avvertenze si provano indispensabili, perché il presupposto dei caratteri oggettivamente rilevati e coerenti, se dà luogo a lode da parte di coloro che li scoprono presso l'Ariosto, dà luogo invece a tacce, del pari infondate, da parte degli altri, che ve li cercano e non ve li trovano. Così il De Sanctis abbassò una volta le creature femminili dell'Ariosto a paragone di quelle di Dante e dello Shakespeare e del Goethe: paragone impossibile, perché Angelica, Olimpia ed Isabella non posseggono certamente l'intensità passionale di Francesca, Desdemona e Margherita, ma nemmeno queste posseggono le armoniose ottave nelle quali le altre si distendono e si cullano ed effettivamente consistono; e, quel che val meglio, né le une né le altre soffrono delle correlative mancanze, che sono mancanze al lume di un pregiudizio critico, ma non reali privazioni e contraddizioni poetiche in sé stesse. Anche il De Sanctis ebbe ad accusare, quasi difetto e privazione, nell'Ariosto la mancanza del sentimento della natura; ma il cosiddetto sentimento della natura (come, del resto, esso medesimo, il grande maestro, insegnava) non dipende dalla natura, sibbene dagli atteggiamenti dello spirito umano, dei sensi di sollievo, di malinconia o di religioso terrore che l'uomo infonde volta a volta nella natura, ritrovandoveli dopo averveli posti; e questi atteggiamenti, nella loro particolarità, erano esclusi in conseguenza dell'atteggiamento fondamentale dell'Ariosto, e se qualche accenno se ne fosse per caso introdotto nel poema, qualche nota sentimentale vi fosse risonata, subito se ne avvertirebbe lo stridore e la sconvenienza. Al Lessing, altro oggettiviste della critica, parve errato ed eccedente i confini della poesia il ritratto ariostesco delle bellezze di Alcina : al che il De Sanctis rispondeva che la materialità, biasimata dal Lessing, era in quella descrizione, il segreto della poeticità, perché la bellezza di Alcina maga, consistendo in un rivestimento fittizio, voleva descrizione materiale. Censura ingiusta, e risposta assai ingegnosa bensì, ma non forse altrettanto vera, perché si è già visto che l'Ariosto, cori quel metodo, descriveva sempre, così le bellezze schiette come le finte, le Olimpie come le Alcine; e la risposta genuina sembra la già data, che invano si cercherebbero nell'Ariosto tratti energici, fisionomie vive ottenute con due pennellate, cose che presuppongono un modo di sentire che egli non possedeva e, in ogni caso, reprimeva. Gli occhi « ridenti e fuggitivi », che sono tutta Silvia, il «doux sourire amoureux et souffrant», che è tutta la spirituale amica della Maison du berger, appartengono non all'Ariosto, ma al Leopardi e al De Vigny.
Vi ha due modi nei quali non bisogna leggere il Furioso. Il primo è quello con cui si legge un libro euritmico di alto soffio morale, come i Promessi sposi, seguendo cioè nelle varie parti il processo di un serio affetto umano, che in tutte le parti, anche nelle più piccole, circola e tutte le configura e le determina; e il secondo, quello che si adotta per opere come, per esempio, il Faust, nelle quali la composizione generale, più o meno guidata da concetti della mente, non coincide del tutto con l'ispirazione poetica delle singole parti e nelle quali conviene discernere parti poetiche e legamenti impoetici, e il lettore, che sia di spirito poetico dotato, trascorre sugli uni per soffermarsi sulle altre e goderle. Nel Furioso, non c'è, o assai lievemente (ossia nella misura della imperfezione di ogni più perfetta opera umana) la inequalità di questa seconda sorta di opere, e c'è, invece, l'equalità delle prime; ma vi manca la particolare forma di serietà passionale, che è nel tutto delle prime e nelle singole parti delle seconde. Si deve perciò leggere in un terzo modo, che è quello di seguire, oltre la particolarità dei racconti e delle descrizioni, un contenuto che è sempre il medesimo e si attua in forme sempre nuove e ci attrae con la magia di questa, insieme, medesimezza ed inesauribile varietà di apparenze.

Benedetto Croce

© 2009 - Luigi De Bellis