IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

Giovanni Boccaccio

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: BOCCACCIO

Il disegno ideale del Boccaccio

Il Decameron non è soltanto un libro giocondo e lascivo; anzi, le novelle sensuali sono talora più fiacche di quanto non si creda. Ragioni storiche - specialmente i numerosissimi imitatori dei racconti disonesti - hanno contribuito a fissare un giudizio comparativo inesatto: la parte onesta del Decameron non è inferiore a quella licenziosa. Del resto chi ricercasse le testimonianze, meno rumorose, ma costanti, dell'ammirazione che ha accompagnato attraverso i secoli parecchie novelle sane, troverebbe anche qui un fondamento per giustificare il proprio giudizio.
Ma si tratta sempre di testimonianze più che di analisi meritevoli di attenzione: imitazioni, traduzioni, citazioni di linguai e di grammatici.
Il Boccaccio era capace di ritrarre la vita sana e semplice non meno che quella dissipata. Falliva solo quando voleva dare ai sentimenti profondi un'apparenza sovrumana; quando per render nobili i suoi personaggi li gonfiava con un fare sfarzoso e -gigantesco. Anche il Boccaccio ha le sue ore di esteta, specialmente nell'ultima giornata. Ma quando sa trovare l'eroismo nella rassegnazione quotidiana, quando sa dare alla virtù la parola piana che nasce da una lunga abitudine spirituale, allora nessuno è più grande pittore della coscienza retta e forte. Se nella novella di Tito e di Gisippo e in quella di Griselda egli esce enfatico o freddo, questo deriva - più che da una insufficienza morale - da stanchezza fantastica: allora gli vien meno la capacità di tradurre in fatti concreti le virtù astratte. Ma per lo più egli dimostra così quest'abitudine come quella di ritrarre in quadri viventi i vizi dell'umanità. Quando racconta le vicende di Federigo degli Alberighi, del conte d'Anguersa, di Bergamino, dell'infelice amante di Martuccio Gomito, egli ha una potenza di costruttore simile a quella delle più celebrate novelle di beffa e di lussuria.
In tutte le sue novelle riuscite, qualunque sia il loro argomento, si avverte una meravigliosa armonia fra i personaggi e i fatti nei quali essi agiscono, una proporzione perfetta di sfumature fra gli uni e gli altri: sicché tutto sembra nato ad un tempo, e nulla tradisce la goffaggine della fantasia propria de' suoi imitatori, dove è raro trovare un'azione così bene appropriata ad un personaggio, che questa non si possa indifferentemente, cioè con uguale malagrazia, trasferire ad un altro qualunque dei molti appartenenti alla medesima specie.
Quest'armonia è una delle cose che si possono ancora imparare esaminando il Decameron. Un'enumerazione di esempi non giova: ci vuole un commento o uno studio compiuto per far vedere quali osservazioni non indifferenti si possano ricavare dal confronto fra tipi simili e diversi quali sono ser Ciappelletto e la Ciciliana; la Ciciliana, la vedova beffata dallo scolaro e la seduttrice del conte di Anguersa; Calandrino, il giudice marchigiano e Andreuccio da Perugia; ecc. Forse per questo riguardo la minor ricchezza di toni e la minor pieghevolezza di fantasia è proprio nelle novelle erotiche. In queste non sempre il carattere è così ben delineato, che ne sorga inevitabilmente lo sviluppo dell'azione; e certo è più facile ricordare i personaggi degli altri racconti che di questi.
Alla piena soddisfazione che lasciano in noi tante novelle del Decameron contribuisce, oltre questa coincidenza così precisa, una rara padronanza della prospettiva. È relativamente difficile trovare in questo libro un particolare esuberante; dirò di più: non c'è una novella in cui ci sia un personaggio non necessario - nemmeno nelle novelle fallite. Al servo di frate Cipolla è dedicata un'intera pagina descrittiva ma sopprimete Guccio Imbratta, e il suo padrone diventerà una figura più pallida.

Come i personaggi, così i fatti sono perfettamente commisurati; ed ogni novella è un tutto che non si può diminuire, né accrescere, né variare. Leggete, per un esempio luminoso, quella di Martellino. Poche sono quelle che risultano di due parti giustapposte: per esempio, quella di Cimone, che ha una pagina da grande poeta dell'amore ed altre avventure che stanno quasi a sé.
Altri giudizi bisogna correggere o precisare, fugacemente.
Il Boccaccio retore, fiorito. Parecchi ripetono quest'affermazione, sia pure attenuandola... Anche per questo riguardo gli imitatori hanno nociuto alla fama del modello. La verità è che il Boccaccio grande è uno degli scrittori più parchi che abbia avuto l'Italia. Ditemi che cosa si potrebbe togliere alla novella di Calandrino derubato del porco, a quella di Martellino, a quella di Lisabetta...

L'« onda voluttuosa del periodo » del Boccaccio è una formula che fallisce alla prova di molte pagine. Il Boccaccio fu certo anche nel Decameron uno scrittore eloquente: ma spesso fu un artista di tutt'altra tempra. E anche nella sua eloquenza c'è un atteggiamento che è pura e pessima retorica - quello dei discorsi della novella di Tito e Gisippo -; ce n'è un altro che è un tersissimo specchio dell'anima per esempio, delle seduttrici -; ce n'è un altro che seconda la commozione grandiosa della mente dinanzi a fatti immani - la peste -; ce n'è un altro, infine, che ha un semplice ufficio decorativo, e appare nella cornice del libro.
Le introduzioni e le chiuse delle giornate sono, più che altro, aristocratiche, hanno l'eleganza tenue ma seducente delle curve, delle fronde e dei fiori che circondano l'affresco di una parete. Staccate, quelle pagine sono senza vita; ma nel libro hanno il loro ufficio e anch'esse, con la loro superficialità rivelano l'armonia profonda della fantasia del Boccaccio. Hanno un solo difetto: una certa povertà di motivi; il tema idillico vi ritorna con variazioni troppo scarse.
Anche l'oscenità del Boccaccio è un po' calunniata da giudizi sintetici e scoloriti. Sappiamo tutti che altro è la licenziosità di questo scrittore, altro la licenziosità del Bandello. Ma bisognerebbe che esaminassimo le nostre impressioni. Il Bandello per lo più cerca la sudiceria: a novella finita, si sente che egli non aveva altra mira, e che ci voleva arrivare ad ogni costo. I suoi racconti sensuali non stanno in piedi, e davvero non interessano che i nostri istinti. Il Boccaccio per lo più arriva alla sensualità perché questo è lo sbocco naturale della strada per cui si è messo. Anzi, il momento carnale è il più fuggevole nei suoi racconti lascivi; e di solito esso si esprime con parole che nascono più dalla necessità artistica che dalla compiacenza dell'uomo che scrive. Bisogna badare alla brevità di questi istanti ed alla loro giustificazione psicologica per limitare esattamente la natura immorale del Decameron e per scoprire la serietà che sta a fondamento anche della maggior parte delle novelle licenziose. Non mi posso indugiare, perché questa prefazione non vuol essere che una serie di appunti, e perché il libro è destinato anche agli adolescenti; ma è bene che tutti sappiano che pure nei racconti disonesti il Boccaccio studia quasi sempre con serietà un aspetto dell'uomo. Mi basta accennare alla scena della tentazione nell'orto delle monache: poche linee, d'una densità sintetica ammirevole, che contribuiscono con la potente figura bestiale del protagonista a fare della novella di Masetto di Lamporecchio uno dei capolavori del libro.
La pieghevolezza della fantasia del Boccaccio, così all'ingrosso, non è ignota a nessuno: non per nulla il Decameron si chiama la «commedia umana». Ma questa ricchezza di fantasia non è ancora stata descritta: e l'arte dei libri che non è ricercata in tutte le sue pieghe significative e rappresentata con la concretezza che noi chiediamo ad uno scrittore per conoscere un suo personaggio, finisce per essere più affermata che sentita e posseduta. Conoscere un capolavoro, averne familiare la fisionomia, non è molto facile: una gran parte della sua molteplicità sfugge ai lettori che non abbiano un'intuizione singolarmente rapida. Ci vuole un certo sforzo e una certa abitudine per trovare anche nelle pagine meno robuste i segni continui dell'originalità di uno scrittore. Per questo alcune figure del Decameron sono poco note, o ammirate con un'astrattezza che non ne esplora affatto l'intima vivacità. Non so quanti dei miei lettori si siano fermati sul bellissimo prologo della novella di Bernabò da Genova pensando che il tema, sia pure vecchio, sembra nascere inevitabilmente in quel crocchio di viaggiatori di commercio; né so quanti avranno visto in quella prima pagina il colore e la giocondità dell'ambiente, e poi nel protagonista e nel suo avversario due fra i personaggi meglio studiati e meglio delineati del Decameron. Forse non pochi meditando la novella di Fortarrigo scoprirebbero in lui un delinquente ritratto con sapienza e con potenza; rileggendo quella di Giotto, sentirebbero quanti particolari contribuiscano all'impressione finale, che è assai superiore all'arguzia; fermandosi su quella di Lisabetta, scoprirebbero una malinconia misurata e profonda nella tranquilla pazzia di questa giovane, e una tetraggine uguale che si estende su tutto il racconto; seguendo le avventure di Pietro Boccamazza sentirebbero come esse nascano da quelle strade solitarie e paurose che, non mai descritte di proposito, riempiono di orrore tutto il racconto. E messi su questa via, gusterebbero quasi come una cosa nuova l'immersione dei personaggi nell'ambiente: il deserto insidioso delle campagne fra cui errano, per esempio, Rinaldo d'Esti e la moglie di Bernabò; le sale e gli apparati magnifici da cui traggono il loro colorito più vivo la liberalità di messer Torello e la generosità di Gentile de' Carisendi; il villaggio, patriarcale o grossolano, che costituisce lo sfondo dell'amorazzo del prete di Varlungo e dell'amara sventura di Calandrino derubato e beffato; le viuzze della malavita fra cui s'avvolgono Andreuccio da Perugia e i due amanti di madonna Francesca; la solitudine idillica in cui si posa malinconicamente la tenerezza materna di Beritola; la quiete dell'esistenza primitiva che riconduce nell'anima di Gostanza l'amore della vita.

E riconoscerebbero al Boccaccio una sapienza che va molto al di là della beffa volteriana e libertina e una sostanza umana ricchissima. L'odio che freme nella novella dello scolaro burlato dalla vedova, è terribile come quello dell'Inferno dantesco, e il paesaggio arso e taciturno che si stende ai piedi di Elena ha una ferocia grandiosa che non è né da libertino né da buontempone; il fervore con cui Pampinea richiama la sua compagnia dalla tristezza della peste alle gioie della vita, la bontà di certi personaggi, la sapienza dei grandi del Decameron, la spontaneità di certi rivolgimenti psicologici rivelano un'esperienza, una sanità superiore di coscienza, un'abitudine meditativa a cui si pensa troppo di rado parlando del Boccaccio.
Il quale non fu soltanto un giocondo profanatore di sentimenti rispettabili o sacri, un allegro burlone, un uomo simpatico e buono, ma anche uno degli uomini più completi che abbia avuto la nostra poesia.

Attilio Momigliano

© 2009 - Luigi De Bellis