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IL REALISMO
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CARDUCCI POETA DELLA STORIA
Il Carducci ebbe assai per tempo
coscienza della parte che gli
toccava nella poesia del suo
tempo: coscienza così netta e
sicura da togliere ogni dubbio
d'illusione. Con l'eredità dei
pensieri e degli affetti del
Risorgimento aveva ricevuto
anche l'eredità di quell'ideale
poetico; perché, se l'Italia,
dopo Dante, rimase per quattro
secoli priva del poetavate
(appena un accenno ne spuntò in
Torquato Tasso), il moto del
Risorgimento fu contrassegnato
dal riapparire di esso in
molteplici persone: Parini,
Alfieri, Foscolo, il giovane
Leopardi, Manzoni. Dante stesso,
mercè una nuova se non genuina
interpretazione storica, riparlò
allora agli italiani,
rimproverandoli e ammonendoli,
risvegliando in loro le speranze
e facendo sentire i doveri. A
tutti costoro il Carducci si
volse come minor figliuolo a!
padre e ai fratelli; a costoro e
ad altri meno grandi: a Vincenzo
Monti, cui perdonò la levità
politica e che amò perché
d'animo caldo e buono; a
Giambattista Niccolini, del
quale ingrandì la povera poesia,
guardandola attraverso il prisma
delle intenzioni che gli erano
care. Ma forse, fra tutti, colui
che lo improntò di sé più
fortemente fu Vittorio Alfieri
«alma sdegnosa», che gli offriva
quasi un Dante storicamente a
lui più prossimo. E come
l'Alfieri chiamava se stesso
«vate» e tale sentiva nomarsi
dai futuri italiani («O vate
nostro, in pravi secoli
nato...»), così parimente il
Carducci volle considerarsi e
denominarsi. Egli era il «libero
vate», il «sacerdote
dell'augusto vero, vate
dell'avvenire», l'«italico
vate», che usciva alla nuova età
vibrando strofe come spade e
diffondendo il canto come ala
d'incendio; egli saliva «dei
secoli sul monte, triste in
sembiante e solo», e le strofe
levavano il volo intorno a lui
come falchi, e al loro passare
fremevano le ossa dei grandi, e
i giovinetti sognavano la morte
per la libertà in faccia al
cielo patrio. Quando prese a
definire che cosa fosse il
poeta, lo ritrasse sotto figura
di un grande artiere, che getta
nella fornace gli elementi del
pensiero e dell'amore, e ne trae
spade e scudi, serti pei
vittoriosi e diademi per la
bellezza. Quando gli accadde
d'inneggiare a una donna
poetessa, la trasformò, senza
avvedersene, in Corinna e in
Velleda, e se la trasse accanto
vaticinatrice e sacerdotessa,
sorella dell'aedo e del bardo.
Perfino il celiante Enrico Heine
gli si atteggiò come vate, a cui
prestava l'opera sua il dio Thor,
e che faceva piegare sotto il
soffio dei suoi cantici
immortali, i santi e
gl'imperatori. Fin da giovane,
soffocava nel petto i canti
d'amore, perché il nuovo ardore
che l'invadeva richiedeva ben
altro; non potendo operare, come
gli antichi poeti greci, si
proponeva di meditare i cantici
delle memorie, delle glorie e
dei desideri; si giurava sacro
alla patria in ogni sua parola,
e in ogni suo verso; si
vagheggiava sulle tombe degli
eroi come Sofocle radioso nel
trofeo di Salamina. Le ultime
sue vaste poesie furono odi
celebrative pel Piemonte, per le
milizie alpine italiane, pel
Cadore che lottò contro gli
austriaci, per l'epica Ferrara.
Sdegnò sempre il cuore, «vil
muscolo nocivo alla grand'arte
pura»; cioè il portare in
pubblico le proprie private
sofferenze e miserie. Le donne
amate gli fecero sognare Roma e
l'Ellade; e posero in sua
compagnia serti al simulacro
della Vittoria in Brescia.
Non meno evidente è l'aspetto
letterario ed erudito del suo
ideale poetico. Nella lirica,
doveva riversarsi la storia: il
passato gli parve la sola degna
materia, che restasse nei tempi
moderni al poeta. Volle, dunque,
atteggiare a rappresentazione
artistica i ricordi storici
della terra italiana le figure
degli eroi e le leggende, e
nutrire il verso d'ogni sorta di
reminiscenze. Ebbe sempre in
dispregio più o meno secreto
l'artista umile e ingenuo, e gli
preferì quello dotto e sapiente.
Insieme con le allusioni
storiche, la sua forma poetica
cercò corroborarsi di allusioni
e comparazioni mitologiche; e si
svolse con una fraseologia che
segue le movenze dei maggiori
poeti italiani e latini. Non
solamente «scudiero dei
classici» si compiacque
nell'intarsiare le sue giovanili
poesie con frasi, emistichi o
versi interi del Parini,
dell'Alfieri, del Foscolo, del
Leopardi; ma, in tutta la sua
opera, attese a parlare con le
parole stesse dei grandi o con
altre che fossero figlie di
quelle e costantemente le
ricordassero, nobilitate dal
ricordo.
Ora, la passione politica e la
cultura storico-letteraria
potevano in due modi tradursi
nell'arte del Carducci e farsi
contemplazione e poesia. Il
primo era quello in cui operasse
la sola passione politica; e la
poesia che ne sarebbe uscita,
parenetica, gnomica, satirica,
sarebbe stata eticopolitica. Il
secondo era quello in cui la
passione politica e la cultura
storico-letteraria confluissero;
e in questo caso sarebbe sorta
una poesia storica o epica.
Perché è chiaro che la cultura
storico-letteraria, da sola, è
impotente alla poesia, avendo
già la propria spiccata forma
teoretica, che è la conoscenza
storica: per cangiarsi in
materia poetica, dev'essere
messa in fermentazione dal
lievito della praxis o, come si
suol dire, dal sentimento: e,
nel caso nostro, dal sentimento
politico e morale del Carducci.
Questa seconda forma di poesia
sarebbe stata più complessa
della precedente, operando in
essa con forze congiunte e in
modo armonico tutti gli elementi
dell'animo del poeta; tanto da
meritargli il nome di poeta
della storia. Ma il poeta
etico-politico, o storico-epico,
o quale che sia, ha sempre in sé
una terza materia che chiede di
essere formata: la sua propria
vita, le proprie lotte, angosce
e gioie, il dramma dell'uomo e
quello stesso dell'artista, che
passa per vittorie e disfatte, e
carezza illusioni e soffre
delusioni. Questa terza materia,
che non è mancata in nessun
poeta (doveva averla perfino il
padre Omero quantunque non ce ne
restino documenti!) non poteva
mancare al Carducci; e la terza
poesia, che sarebbe uscita dal
suo stato d'animo è quella che
chiameremo personale o
autobiografica.
Tre forme, le quali, in questo
punto in cui il risultato della
nostra indagine ci pone innanzi
solamente le varie forze
spirituali del Carducci
analizzate in astratto, debbono
essere considerate ancora come
tre mere possibilità. La poesia
non si deduce: si fa, e si
osserva quand'è fatta. Che vi
siano le condizioni per essa non
vuol dir niente: la fiacchezza
dello spirito del poeta e una
serie di cagioni secondarie (che
tutte poi, in fondo, si
risolvono nella prima) possono
impedire che alla condizione
segua il condizionato, che la
possibilità diventi realtà. E
non solamente c'è codesto
pericolo in genere, ma c'è poi,
in ogni materia di poesia, un
pericolo particolare, che nasce
dalle viscere stesse di quella
materia. Così, per quel che si
attiene al Carducci, le tre
possibilità di poesia che erano
in lui, si accompagnavano con
altrettante possibilità di
pervertimento o di bruttezza
poetica. Infatti, l'impeto
etico-politico può, per mancanza
d'ispirazione e di lavoro
fantastico, restare duro e
grezzo atto morale e politico;
e, in questo caso, sorge la
poesia politica in senso
peggiorativo, che diremo
praticistica o pratica. La
materia storico-epica può
restare semplice erudizione
storica; e, in questo caso, si
ha quella bruttezza che si
chiama poesia erudita o
professionale. Infine,
sottospecie di questa
perversione, l'accoglimento
della forma tradizionale può
restare semplice ossequio
esterno, fredda imitazione; e,
in questo caso, si ha la poesia
letteraria. Come le tre
possibilità positive non sono
senza relazione tra loro e
talora si congiungono in uno
stesso oggetto così le tre
possibilità negative si
accoppiano anche variamente o si
danno convegno tutte e tre negli
stessi componimenti; e si ha
allora una poesia che è insieme
pratica ed erudita, o pratica e
letteraria, o, addirittura,
pratico-erudito-letteraria.
Bisogna tener presenti queste
possibilità di pervertimenti; ma
bisogna. a un tempo guardarsi
dal cattivo ragionare di quei
critici, i quali, vedendo la
rupe Tarpea presso il
Campidoglio, scorgendo la
possibilità di certi errori
intrinseca a certe forme di
attività, reputano a priori
patologiche e infelici quelle
attività, e ne condannano
anticipatamente i prodotti. A
questa stregua nessuna bella
poesia, anzi nessuna buona opera
umana potrebbe mai nascere,
perché la debolezza è
inscindibile dalla forza e
l'impurità dalla purità, essendo
la forza e la purità, non la
semplice privazione di quelle,
ma la vittoria sopra quelle.
Soggiacque il Carducci alle
forze distruttive che aveva
dentro di sé,, e fu egli quel
poeta pratico, erudito,
letterario, professorale, che
alcuni dicono e dice ora il
Thovez? Ovvero usci sempre
trionfante dal cimento, e fece
sempre grande e schietta poesia,
come sembrano affermare i suoi
proni adoratori, o come, almeno,
non eravamo lungi dal credere
noi, giovinetti, quando la
maledizione a Pio IX e
l'abbraccio al sinigagliese ci
destavano pari o maggiori
entusiasmi della Faida di Comune
e dell'Idillio maremmano? Ciò
non può essere determinato se
non dalla lettura e dall'esame
della sua poesia stessa.
Preliminarmente non si può
esprimere se non una
probabilità: cioè che entrambe
le tesi estreme siano fallaci.
Non è da aspettare che il
Carducci rimanesse sempre vinto,
perché in questo caso sarebbe
difficile spiegare la fama da
lui ottenuta e l'efficacia
esercitata, e questo stesso
fervore di esame, di critica e
di discussione intorno all'opera
sua. Ma non è da aspettare
neppure, che la sua opera
poetica, disseminata lungo un
cinquantennio, sia tutta di pari
pregio. Egli dovè passare (e ciò
accadde in realtà) per vicende
.di squilibri equilibri e nuovi
squilibri, e raggiungere
faticosamente la poesia per
perderla da capo e rimettersi a
quella ricerca e a quella
fatica, cui solo la morte dà
tregua.
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Benedetto Croce | |
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