La lirica dei Giambi ed Epodi,
nata nella sua parte più
schietta dai primi forti
ricordi, e l'altra che poi venne
formandosi e maturando, quasi un
riflesso e una propagazione di
quella, fu un'irradiazione
appunto d'un sentimento e d'una
passione prepotente, - sogno
antico, istinto antico,
scontentezza antica, - in un
luogo e in un tempo, ch'era quel
tal luogo e quel tal tempo, e in
altri luoghi e in altri tempi
cercati infaticabilmente con lo
stesso commosso desiderio di non
veder tutto morire. Spicca di lì
il volo sempre la poesia
autentica del Carducci, da quel
luogo e da quel tempo, luogo e
tempo perduti, e rifiorisce poi
tutte le volte che trova, per
incanto di fantasia e quasi per
innamoramento, quel luogo e quel
tempo specchiati nelle più
antiche età e civiltà, o degli
Etruschi, o della Roma
primissima, o della Cavalleria o
del Medioevo, dovunque insomma
fosse un riflesso della sua
libera vita di maremmano; ché
così gli parea di tornare un
poco quello che era a dieci e a
quattordici anni. La gioventù, a
ricordarla, s'arricchisce tutta
dal di dentro, musicalmente si
direbbe, con i miti felici della
illusione, delle immaginazioni e
della speranza; l'adolescenza,
età chiusa, età torbida, età di
sordi avvisi, ribolle tutta in
sé, e a risoffrirla, - ché altro
non si può -, basta che ci
riportiamo a quel punto della
vita, a quelle oscure
sensazioni. Carducci cercava la
Maremma e la risognava da per
tutto. Felicità per
disperazione!
Le poesie maremmane, dopo quelle
«comunali», fanno certo il
gruppo più compatto in tutta
l'opera carducciana, e
rappresentano quanto di più
vivo, più vero, più resistente,
il Carducci abbia scritto.
C'entrerà un poco quell'«abito
fiero», quello «sdegnoso canto»,
quell'«odio e amor» di cui dice
nel sonetto Traversando la
Maremma Toscana, cadente alla
fine a un tono mesto, con
espressioni petrarchesche e
leopardiane, ma che vale per
quei primi versi a cui
s'alludeva innanzi, testimoni di
fedeltà alla sua terra, e tanto
orgogliosi:
|
Dolce paese, onde portai
conforme
l'abito fiero e lo
sdegnoso canto
E il petto ov'odio e
amor mai non s'addorme... |
Come qui, in tutte l'altre
poesie scritte in quindici anni
giusti, dal '7I all'85, nate
dalla stessa radice, varie di
stile calde e quiete, con più o
meno di sapor letterario e di
letteraria scrittura, - che è il
proprio della poesia carducciana
nel suo trapasso dal periodo
tempestoso e romantico fino a
prima dell'80, a quello sereno e
meditativo fino ai primi del
'90, - valgono assai meno certe
espressioni elegiache, certe
grazie evocative, certe troppo
contente sommosse («oh, quel che
amai», «oh, lunghe al vento
sussurranti file di pioppi» ,
«mi divincolo in van»), valgono
assai meno della diretta e
potente pittura del paese di
maremma, ore luoghi stagioni, e
di quella selvaggia solitudine.
Nasce quella pittura sempre per
un improvviso sbocco di canto,
s'aprono lembi di cielo e di
antica vita, torna quel gusto
aspro e tutti insieme si
sfrenano, fantasia memoria
desiderio.
|
Dove raro ombreggia il
bosco
Le maligne crete, e al
pian
Di rei sugheri irto e
fosco
I cavalli errando van,
Là in maremma... |
con quella caratteristica
sospensione nell'interno della
lirica, quasi un respiro
trattenuto; e con più lunga
sospensione, con più respiro,
con un montare d'onda di canto,
altrove:
|
...e noi, dimani, a
mezzo il giorno, |
Che de le grandi querce a
l'ombra stan Ammusando i cavalli
e intorno intorno Tutto è
silenzio ne l'ardente pian,
Gli piace ogni volta, così,
aggredire l'ispirazione, a certi
momenti che più la commozione è
intensa e trabocca, e le parole
il verso la strofa ne sono
pieni, ne ridondano. S'ha la
sensazione d'un improvviso
fiotto di sangue giovine che fa
ressa al cuore del poeta non più
giovine: di qui il caldo e,
proprio, lo straripare che fa il
periodo. Solo più tardi, in un'odicina
che piacque perfino al ruvido
Oriani, all'incredulo Oriani,
con più d'arte e, nel tempo
stesso, con una levità da
antico, da greco, sommessamente
canterà a sé:
|
La nebbia a gl'irti
colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il
mar. |
In questa scarnita lineatura del
verso brevissimo e quasi
sfuggente, in questa fantasia
gracile e pur tutta vibrante,
noi amiamo riconoscere l'ultimo
segno d'un'arte che molto ha
superato se stessa. San Martino
è dell' '83.
Non ci sarà, lo sappiamo, in
tutte queste poesie, gran
varietà e ricchezza: un'aria,
anzi, sempre affocata, i toni
sempre gli stessi, o foschi o di
luce meridiana, un selvaggio
piacere di risentire l'antica
vita e dimenticare il presente,
cacce, avvolgimenti perigliosi
per sconsolata boscaglia, la
grande estate, canto alto o
silenzio alto, gridìo di rondini
saettanti, ronzio perso d'ore
bruciate, rauche cicale ai
poggi, tutto uguale, tutto
assetato: ma non importa; nasce
di qui torna per rinnovarsi qui
l'empito e l'estro del canto
carducciano. La maremma tu la
ritrovi sotto mille forme, in
tempi e luoghi lontani, ma
sempre quella grandezza
solitaria, quel senso squallido,
quella luce deserta. Giovinetto,
sentì il peso e la bellezza
dell'antica civiltà etrusca, di
quella quasi mitica storia; ma
anche di Roma, ora, che cosa più
lo commuove? i ricordi imperiali
e il loro abbagliante splendore,
o un più remoto tempo, quando
dal «solco di Romolo» torva
riguardava «su i selvaggi
piani»?
|
...ancor lambiva il
Tebro
L'evandrio colle, e
veleggiando a sera
Tra 'l Campidoglio.
E l'Aventino il reduce
quirite
Guardava in alto la
città quadrata
Dal sole accusa, e
mormorava un lento
Saturnio carme... |
e invoca la febbre, e vuole la
solitudine, poiché, sì,
religioso è quel silenzio, la
dea Roma lì dorme, ma anche
perché così gli parrebbe di
respirare aria selvaggia di
maremma, di sentirsi come ai
primi anni in compagnia, lui
solo, con l'auguste antiche
ombre («i lucumoni e gli
auguri»), guardato dalle amiche
piante. (Da notare, anche, il
modo subitaneo di ricuperare
un'immagine della primissima
istoria, quasi di carpirla, per
il timore che gli sfugga, appena
ritrovata, e che non torni più
alla fantasia commossa un
minuto, come quello, felice).
Sono, è vero, lampeggiamenti di
poesia, sono illuminazioni; ma
troverà poi finalmente il tema
più suo, quello più vicino alla
parte più segreta di sé, ai suoi
più segreti pensieri, il tema
atto a infiammarlo. Troverà,
troverà quel mesto e felice
accordo di antico e di moderno,
di storia e di vita sua, già
pregna di storia, che gli darà
saldo appoggio e pure non lo
legherà; quella realtà soltanto
autobiografica, allora, quel
colore, quel paese, quell'aria,
le sue passioni stesse, si
trasfigureranno; e acquisterà in
ricchezza il poetico accento,
nascerà forse la più bella
poesia carducciana, la più vera
di tono, la più espansivamente
propria, la più elegantemente
rustica, la più classicamente e
famigliarmente romantica, la più
virginea, calma, calda, e più
parlante. Nasceranno la Canzone
di Legnano, Su i campi di
Marengo, Faida di comune, Comune
rustico; con maggior pienezza
lirica e durata la Faida, con
frammentaria potenza le altre,
dalla Canzone di Legnano, tutta
tesa in una progressione di
strenua eloquenza, ma con
particolari d'una lucida
verdezza, a Su i campi di
Marengo, con quel fosco e forte
e improvviso incominciamento, e
la ridente gloriosa trionfante
stretta finale, in mezzo però
tutto franto, lavorato troppo,
troppo fermo a certi ricordi,
quasi con epigrammatica
scrittura, tra pungente e
facile, fino a Comune rustico,
tra queste poesie di ispirazione
«comunale» la più
letterariamente squisita, la più
quieta e la più lenta di
sviluppi, la più vicina alla
malinconia, con quella
superbissima chiusa del sole
benedicente. C'è un che di
assorto e di fisso a un punto
del tempo che la fantasia, a
posta, ha rallentato, per più
goderlo, e il «piccolo senato» è
la trasfigurazione d'una
semplice e santa vita, quasi un
fiabesco fregio, una verità
lietamente apparsa sotto forma
-di scherzo immaginativo. La
mano dell'artista Carducci rare
volte fu esperta e sicura come
qui, e lenta per leggiadria, non
per lassezza. La scena respira
come in una lieta figurazione
mitica, e la complessità del
periodo strofico dà qualcosa di
più seducente. È dell'anno '85,
di quando la poesia, prima
d'abbandonarlo, più
malinconicamente sorrise al
Carducci, e per questo con più
fascino e bellezza. Arte
consumata, allora, e tono mesto
fecero un accordo dei più
intensi, qui e altrove,
s'intende, in tutte quante le
espressioni di poesia minore,
minore e maggiore, che prima,
quasi per divinazione,
s'avvertirono in Nella piazza di
S. Petronio, e che per quella
punta di virile malinconia che
le preserva dall'eloquenza
eroica delle odi maggiori,
dall'accento ispirato e
grandeggiante, vestendole invece
di tenui crepuscolari e commossi
colori, di tenuità ignote,
stanno e rimarranno nel futuro,
più in alto dell'altra, più
glorificata, poesia maggiore.
Ma la cima più alta, forse,
della poesia carducciana, quella
che alle due o tre odi nominate
innanzi sembra dare il tono e la
ragione, è Faida di comune,
ultima fiamma, alla fine, guizzo
lirico della passione antica di
maremmano. Dal verso rapido
scolpito netto popolaresco, al
tema e ai particolari del tema,
all'aria che vi crea intorno, a
quel misto di rappresentazione e
descrizione, e fugacissimo gioco
di trapassi che il ritmo
abbellisce, tutto è qui
divertimento e fantasia. Il
poeta, come un dio, dall'alto
guarda e sorride. I pisani, sì,
nobili, e Banduccio e Uguccione;
ma belli, o come! - e vi si
mescola l'antico sangue, - i
lucchesi, quelle facce, quei
gesti, e loro nomi e canzoni.
L'animo del Carducci in guerra
ha trovato come quella guerra
possa diventare spinta lirica
puro sgorgo creativo. Quei
borghi sanno di maremma,
somigliano tanto alla maremma;
così quei colori, quegli
aspetti, quei dispetti, e odio e
amore, come suonano in due versi
d'uno dei suoi sonetti più
belli. Pure, tutto pare
inventato; e tra cronaca e vero
storico e vero geografico, più
vero è il riso dell'artista che
è riuscito a rendere
poeticamente accettabile fin la
sua ira d'uomo di parte. Per
questo Faida di comune, nella
poesia carducciana, piglia tanto
campo.