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IL REALISMO
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CARDUCCI CRITICO DEL LINGUAGGIO
POETICO
Due motivi a me paiono
fondamentali nella poetica del
Carducci: il senso della forma,
il gusto del rhétoricien, la
ricerca amorosa del linguaggio
poetico, e l'esigenza
dell'umanità, della sincerità,
della fede nell'esercizio
dell'arte. Una poesia non
sollevata e sostenuta nel suo
tono e un'arte atea sono, per il
Carducci, la negazione della
buona letteratura. Tutti i
giudizi sui classici e sui
contemporanei sono costantemente
ispirati a questi principi, dei
quali l'uno è pretta eredità
umanistica, risentito con
polemica vigoria dopo la
linguistica e stilistica
rilassatezza del Settecento e
ancor più del romanticismo; e
l'altro procede da motivi cari
all'Alfieri, al Foscolo e ai
pensatori romantici. Dove manca
l'uomo, manca anche la
coscienza, manca quindi anche
una coscienza artistica orecchio
ama educato la musa, mente
ingegnosa e sensi virili. Per
cotesto criterio di vita morale,
riflessa nella letteratura, il
Carducci si apparenta
spontaneamente al De Sanctis: è
tutta la critica romantica che
sbocca fatalmente in questo mito
rinnovatore dell'uomo. Ma la
moralità del De Sanctis ha più
un'inclinazione etico-politica,
e il rigorismo dello storico
poco perdona alla virtù
dell'ingegno e alla buona
tecnica del «dittatore»; mentre
la moralità del Carducci è più
placabile, una moralità di tipo
ancora umanisteggiante: un buon
rhétoricien, un buon letterato,
molti peccati si lascia
perdonare da questo pur severo
giudice. Da Petrarca, artefice
espertissimo e però grande poeta
anche nelle liriche civili e
religiose, a Boccaccio,
presentato tutto perduto nel suo
ideale d'artista, sovrano ed
estraneo ad ogni richiamo; a
Vincenzo Monti «il maggior poeta
ecletticamente artistico che
l'Italia da gran tempo avesse
avuto», erede di tutta
«l'abitudine poetica dell'Italia
d'allora», a Giacomo Leopardi
autore delle canzoni
patriottiche, difese, sì, per il
loro contenuto, ma anche perché
rivelano il precoce scudiero dei
classici, in ogni momento il
Carducci è fedele a questo
principio della moralità
risoluta e conchiusa nella
retorica artistica. I due
motivi, che avevamo per un
momento distinti, così
confluiscono spesso e si
risolvono in uno solo. «Il
Sainte-Beuve, che era il
Sainte-Beuve, soleva dire che
molto in letteratura dipende
dall'aver fatto un buon corso di
retorica», scriveva il Carducci
nel suo famoso saggio di Critica
e arte del 1874. Ed egli
ricordava ai romantici italiani
che il romanticismo francese era
tutto impregnato e intramato di
classica disciplina; si studino
i poeti del romanticismo
francese per vedere «quanto
dedussero e imitarono dalla
versificazione e dallo stile
classico, troppo classico, della
vera Pleiade, dalla lingua del
Ronsard e da quella del Marot,
del D'Aubigné e di Régnier».
Perché non bisogna dimenticare
che in Francia «il manifesto
critico della nuova scuola fu il
libro del Sainte-Beuve su
Ronsard e i poeti del secolo
decimosesto».
Codesto atteggiamento spiega
certi aforismi, che possono
scandalizzare i bigotti
dell'estetica, ma che sono
aforismi pregnanti di verità e
serbano un loro particolare
significato, storico-polemico.
«Se la poesia ha da essere arte,
ciò che dicesi forma è e ha da
essere della poesia almeno tre
quarti» (III, p. 420). E, in
forza di cotesto principio, il
Carducci supera ancora la bassa
concezione romantica
dell'arte-genio, dell'arte
ispirazione estemporanea,
dell'arte dono liberale di
Apollo. «L'ispirazione è una
delle tante ciarlatanerie che
siamo costretti ad ammettere e
subire per abitudine». E altrove
ancora ribadisce: «Quella che i
più credono o chiamano troppo
facilmente ispirazione, bisogna
farla passare per il travaglio
delle fredde ricerche e tra il
lavoro degli istrumenti critici,
a provar s'ella dura. Quella che
gli accademici chiamano eleganza
e i pseudoestetici dicono forma,
non è male vedere se resiste
alla polvere e al grave aere
degli archivi» (XII, 516). E
aborriva dalla gloriosa pretesa
che l'arte fosse autoctona,
indigena e nativa, per così
dire, nella mente dell'artista;
l'arte è tradizione, scambio
universale di esperienze,
trasfigurazione di classiche
bellezze. Non si ricercano le
fonti di una poesia per
deprimere l'originalità di un
artista, ma, se mai, per
esaltarne la sua capacità
rinnovatrice e trasfigurativa.
Nella poesia di Angelo Poliziano
«Omero prendea la sembianza di
Dante, Virgilio quella del
Petrarca; e nel tutto era
Angelo, l'omerico giovinetto,
che rinnovava il linguaggio
poetico d'Italia» (XX, 341). E
ironizzava codesto mito
dell'arte-antistoria, parto
estemporaneo, nata o nascitura
come una driade dalla scorza
della quercia, battendolo in
breccia in altri esempi tipici
della nostra storia civile e
politica.
È il vecchio autoctonismo degli
aborigeni, per cui i nostri
padri volevano esser sbucati
fuori dai lecci e dai sugheri
anziché provenuti da altra terra
e da altra gente: è il mistico e
metafisico primato di Vincenzo
Gioberti; è il monarchico
«l'Italia fa da sé» di Carlo
Alberto. Codeste borie di povera
gente, cacciate oramai dal regno
dei fatti e della critica
superiore, vorrebbero mantenere
la loro ragione di essere almeno
in letteratura (III, 208).
Ciò che conferisce un
significato, non soltanto
polemico, ma di valutazione
critica e d'interpretazione
storica, a quello che il
Carducci scrisse a proposito del
suo noviziato d'artista. «Mossi,
e me ne onoro, dall'Alfieri, dal
Parini, dal Monti, dal Foscolo,
dal Leopardi; con essi e per
essi risalii agli antichi, m'intrattenni
con Dante e col Petrarca; e a
questi e a quelli, pur nelle
scorse per le letterature
straniere, ebbi l'occhio sempre»
. Il richiamarsi a una
tradizione era per il Carducci
riconoscimento di poesia, era un
blasone di nobiltà; non si nasce
da genitori ignoti: la poesia
vera è sempre tramite storico, e
bisogna saper risalire ai
principi, come voleva
Machiavelli, quando l'anima di
una nazione si sfibra in
letterarie flaccidezze. Questo
il significato della rivoluzione
poetica da lui operata, definita
con concetti e termini suggeriti
dall'autore stesso: rivoluzione
apparentemente antiromantica,
che voleva essere invece un
irrobustimento storico
dell'esperienza romantica,
giacché, senza il linguaggio
storico della poesia, non può
nascere mai, vera, nuova poesia.
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Luigi
Russo | |
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