IL "SAGGIO"
DEL CESAROTTI E LE POLEMICHE LINGUISTICHE DEL '700
I motivi
animatori del Saggio sulla filosofia delle lingue sono
l'affermazione del carattere dinamico della lingua e la
difesa della libertà dello scrittore; nell'illustrare queste
tesi il Cesarotti mette soprattutto l'accento sull'aspetto
individuale della lingua, sulla funzione del genio e del
gusto del singolo scrittore, piuttosto che sui
condizionamenti della tradizione e della società. Il
problema del rapporto fra lingua e società, unità
linguistica e unità culturale e politica è però fra i più
sentiti nelle polemiche settecentesche ed è quello che dà ad
esse un particolare rilievo di novità nei confronti della
tradizionale questione della lingua. L'esigenza di una
lingua viva e comune a tutti gli italiani emerge e viene
vivacemente trasmesso all'età romantica.
Il sentimento della vita inesauribile del linguaggio e la
difesa della libertà dello scrittore sono i due motivi
fondamentali del Saggio sulla filosofia delle lingue del
Cesarotti. Due motivi, com'è chiaro, strettamente legati fra
loro, in quanto il primo costituisce la premessa del
secondo. Come abbiamo detto in principio, il Saggio sulla
filosofia delle lingue non è essenzialmente un'opera teorica
sulla natura delle lingue, e nemmeno un'opera storica sulla
natura e lo svolgimento della lingua italiana. Esso contiene
in realtà molte cose diverse: un complesso di vedute
teoriche sulla natura del linguaggio; una visione della
storia e della natura dell'italiano col connesso problema
toscanesimo-antitoscanesimo; una trattazione di altri
particolari problemi dibattuti dalla cultura del tempo, come
i rapporti fra italiano e latino, italiano e francese; una
personale poetica o rettorica. È in relazione a quest'ultima
che tutto il resto finisce per acquistare il suo preciso
significato. E in ciò.. il Cesarotti antitradizionalista si
colloca anch'egli sulla linea più vitale della nostra
tradizione, che aveva considerato il problema linguistico
sempre in funzione letteraria e nella lingua aveva dato
soprattutto rilievo ai valori estetici e individuali, anche
nel corso del razionalistico e universalizzante salizzante
Settecento. Conferma di questo orientamento e della
personale intensità con cui il Cesarotti lo vive è una
pagina della lettera al conte Napione: tanto píù
significativa in quanto, per esplicita dichiarazione
dell'autore, essa si presenta come definizione e
interpretazione dell'«oggetto» e dello «spirito» del Saggio
sulla filosofia delle lingue.
Il Cesarotti si rivolge agli scrittori italiani e, dopo
averli ammoniti a studiar prima la lingua «da filosofi» se
vorranno «maneggiarla da maestri», ed averli esortati a
diventar «possessori tranquilli delle ricchezze e
dell'indole» della propria lingua, li invita a coltivare
saggiamente il commercio con le straniere, dove troveranno
forse «di che aggiungere all'idioma nazionale qualche tinta
pellegrina che dia rilievo alla sua bellezza senza alterarne
le forme». Quindi così eloquentemente conclude: «allora
provveduti d'un corredo inesausto di segni, di colori, di
torni ben distribuiti e graduati nelle loro classi, colla
facoltà abituale di paragonare e di scegliere, colla
molteplicità degli esempi, allora, dico, sappiate pensare e
sentire, e la figura del concetto verrà a stamparsi
nell'espressione, che sarà conveniente, vivace, italiana e
vostra: voi non sarete più schiavi né dei dizionari né dei
grammatici, non sarete né antichisti né neologisti, né
francesisti né cruscanti, né imitatori servili né
affettatori di stravaganze; sarete voi; voglio dire italiani
moderni che fanno uso con sicurezza naturale d'una lingua
libera e viva, e la improntano delle marche caratteristiche
del proprio individuale sentimento».
Non c'è bisogno di sottolineare la forza e la modernità di
queste ultime affermazioni, che racchiudono senza dubbio la
convinzione più profonda del Cesarotti, ed esprimono nella
maniera più efficace lo spirito animatore dei suoi studi
linguistici: i quali tutti convergono nel dar rilievo
all'individualità dello scrittore, alla sua posizione di
indipendenza rispetto alla tradizione e alla società, alla
sua funzione rinnovatrice e formatrice nei riguardi della
lingua. La mentalità illuministica portava ad attribuire
all'individuo singolo un potere quasi demiurgico. Ciò accade
anche nel campo linguistico. Alla norma esterna, sia
spaziale (l'uso di una determinata società), sia temporale
(l'autorità degli scrittori del passato) si sostituisce la
ragione, il gusto, l'arte del singolo.
Del valore e della legittimità di un termine il Cesarotti,
in ultima istanza, fa sempre decidere dallo scrittore di
genio. Questa tendenza può anche arrivare a posizioni
puramente arbitrarie ed astratte, come quando sia il
Cesarotti sia il Bettinelli immaginano la possibilità che
gli scrittori costituiscano una nuova lingua, «ottima»,
trascegliendo i vocaboli migliori dei vari dialetti. Nel
rapporto, che perennemente condiziona la vita delle lingue,
fra individuo singolo e tradizione-società, essi mettono
l'accento sul primo termine: qualche volta trascurando
eccessivamente il secondo. Un estremo opposto sarà
rappresentato nell'Ottocento dal Manzoni, quando vorrà
sottoporre totalmente il singolo alla norma sociale, i
diritti dell'individuo a quelli della collettività.
Insieme con lo studio delle fasi iniziali della nostra
lingua e letteratura, come era accaduto nel Cinquecento, le
polemiche linguistiche del Settecento stimolarono quello per
i rapporti fra lingue e culture diverse. Dal Muratori al
Napione non c'è alcuno dei disputanti che non sia stato
costretto, e sia pure attraverso il raffronto dei «pregi»
rispettivi delle lingue, a considerare i particolari
atteggiamenti mentali e gli orientamenti culturali delle
altre nazioni e a porsi il problema del significato positivo
o negativo dell'incontro fra di essi e quelli della nostra
nazione. Ne risultano posizioni polemiche o in un senso o
nell'altro, con varie gradazioni: e fra i termini estremi
dell'apertura cosmopolitica di un Cesarotti e della chiusura
nazionalistica del Napione può stare per esempio un Baretti,
che, mentre invoca l'esempio della Francia e
dell'Inghilterra per combattere l'accademismo culturale e
linguistico, è avverso all'«infraciosamento» del nostro
idioma. E al Baretti si può avvicinare il Bettinelli quando
afferma che «è ver che la lingua e i libri francesi hanno
ritardato il progresso del nostro linguaggio; ma forse han
giovato, destando il gusto di leggere cose intelligibili a
ognuno; han disingannato molti dalla superstizione verso i
maestri di lingua morta, i quali volevamo che avesser fatto
tutto, e hanno sgombra la strada di molti impacci e sterpi».
Ma la polemica avviava a poco a poco alla considerazione
critica e storica. II «francesismo», per esempio, induceva a
riflettere su di un fenomeno analogo di secoli precedenti e
di questo stesso «francesismo» moderno si tentava, una
spiegazione storica, indagando il rapporto fra due culture
di diverso vigore e capacità, espansiva. Analogamente veniva
prospettato non soltanto il problema pratico dell'uso del
volgare in luogo del latino, ma quello storico dell'influsso
della lingua e della cultura latina sulla lingua e la
cultura volgare, cosí in riferimento allo stile
latineggiante del Boccaccio e dei suoi imitatori come al
rifiorimento delle lettere classiche nel periodo
dell'umanesimo. Nazionalismo e cosmopolitismo, latinismo e
volgarismo erano inizialmente termini di polemica; ma
finivano anche per diventare categorie d'interpretazione dei
fenomeni linguistici e letterari.
L'antitesi nazionalismo-cosmopolitismo, che le discussioni
linguistiche del Cinquecento ignoravano, trasportava il
problema della lingua sul terreno politico. La difesa di una
tradizione linguistica comune, come simbolo di una comunità
di spirito e di cultura e di un'esistenza autonoma di
popolo, non era del tutto nuova. Questo motivo affiora nelle
discussioni cinquecentesche, sia quando si combatte il
fiorentino come dialetto municipale, al quale si contrappone
tanto come realtà storica quanto come ideale l'italiano
comune, sia quando di fronte agli attardati difensori del
latino si esalta il volgare, lingua di un popolo nuovo, con
propria fisonomia e propria storia, anche se figlio ed erede
del latino. Ma nel Cinquecento tale motivo resta marginale e
mai approfondito; l'ambito in cui si svolgono le dispute è
essenzialmente letterario e rettorico, dominato dal
principio della «norma» linguistica e stilistica e dalla
concezione dei «pregi» intrinseci delle lingue. E anche nel
Seicento la rivolta di certi autori contro la Crusca è quasi
soltanto una manifestazione del generale antitradizionalismo
dell'epoca. Ma nel Settecento, e in maniera sempre più
chiara via via che si procede dalla metà del secolo in poi,
appare evidente la connessione fra problemi linguistici e
problemi politici e sociali. Il rapporto fra svolgimento
della lingua e svolgimento della cultura, e della vita in
genere, domina le menti degli scrittori più acuti e più
moderni, i quali avvertono che le infelici condizioni della
lingua in Italia sono il riflesso della situazione politica
e sociale e, inversamente, invocano un mutamento della
lingua che contribuisca a cambiare quella situazione.
Paragonando le condizioni dell'Italia con quelle dei paesi
più progrediti e civili, come la Francia e l'Inghilterra, da
una parte si osserva che la mancanza di una unità di vita
politica e sociale impedisce lo sviluppo della cultura e
della lingua; dall'altra si lamenta che l'attaccamento agli
atteggiamenti linguistici e stilistici tradizionali, sia nel
senso spaziale (esclusivismo toscaneggiante) sia nel senso
temporale (purismo e accademismo trecentistico e
cinquecentistico), ostacola la diffusione della cultura e il
rinnovamento della società. Il senso dell'importanza sociale
e politica della lingua è così diffuso nel Settecento che
persino un tradizionalista come il Salvini afferma che
l'unità della lingua «influisce nell'unità de gli animi,
necessaria al ben essere de gli uomini, de le case, e de gli
stati». Quello che il Salvini, agli inizi del secolo, appena
intravede, si fa sempre più consapevole nel corso di esso: e
questa consapevolezza culmina nel libro del Napione, alle
soglie del secolo seguente, il quale la arricchirà di altri
motivi e vibrazioni passionali.
L'unità spirituale e culturale, per la quale è necessaria
l'unità linguistica, è interpretata non soltanto nel
significato geografico (donde la polemica contro il
toscanesimo e la richiesta di un italiano «comune»), ma in
quello sociale, e sia pure ancora entro notevoli limiti (che
nel resto, di fatto, nemmeno il romanticismo riuscirà a
superare del tutto). Rispetto alle polemiche precedenti è
questo uno degli aspetti più nuovi e più vivi. Si vuole una
lingua moderna, più semplice e agile della lingua
tradizionale, perché per mezzo di essa la cultura possa
uscire dall'ambito ristretto degli studiosi specialisti e
diffondersi in più larghi strati della società. L'Algarotti
lamenta che la lingua dei nostri antichi, quella che fu
perfezionata da Dante, Boccaccio, Villani, Petrarca e dai
loro seguaci del Cinquecento, non sia mai diventata comune a
tutta l'Italia, ma ai soli studiosi e letterati, e oggi
suoni agli orecchi di « tutte le ben educate persone, e ben
nate », e specialmente delle donne, come morta o straniera.
E il Bettinelli, commentando questo passo, osserva con
parole che si direbbero manzoniane in anticipo, che «resta
dunque a fissarsi la lingua viva, ed a farsi universale, ad
uso di tutti». Ma il motivo, come s'è visto, ritorna, con
maggiore o minore insistenza e intensità, in tutti i
disputanti, dal Muratori al Napione. In quest'ultimo
l'aspetto politico e quello sociale del problema mostrano
con chiarezza la loro connessione. Infatti egli invoca
contemporaneamente unità e integrità linguistica come difesa
dell'integrità nazionale di fronte alle altre nazioni, e
l'adozione dell'idioma volgare e comune (contro latino e
dialetti, oltre che contro le lingue straniere) nella vita
culturale e sociale, per cementare in profondo l'unità e la
stabilità della nazione, avvicinandone le classi sul piano
della cultura: meglio si governano i popoli illuminati, ma
«la cultura universale non si diffonderà mai in una nazione,
il popolo sarà sempre rozzo, feroce, indomabile dove non sia
sparsa quella certa cognizion di lettere, che ottener non si
può se non mediante la lingua propria». Siamo naturalmente
molto lontani dalle posizioni romantiche del Manzoni, il cui
democraticismo linguistico e culturale è sorretto da un
profondo sentimento cristiano dell'uguaglianza di tutte le
anime e della necessità, che diventa per lo scrittore un
dovere, di far penetrare in tutte la luce della verità:
sentimento cristiano che non traspare per nulla dalle parole
del Napione, il quale guarda al popolo con distacco,
dall'alto, e non è tanto preoccupato di una sua intima
elevazione morale quanto di un semplice suo raffinamento
d'istruzione e di costumi che lo renda più docile, più
facilmente governabile. Eppure è significativo che anche lo
spirito meno aperto forse fra i principali attori delle
dispute linguistiche settecentesche, si volgesse più o meno
consapevolmente verso un ideale di comunione spirituale
entro- l'ambito della nazione. E non bisogna dimenticare che
il Napione combatte l'uso di una lingua diversa da quella
nazionale anche perché ritiene più vantaggioso per tutti il
fatto che ogni singola nazione, usando della propria lingua,
progredisca nella cultura e abbia un suo carattere e
scrittori originali, di quel che non sia la possibilità per
alcuni dotti di comunicare più facilmente fra di loro. Qui
egli sembra preannunziare vagamente, oltre il cosmopolitismo
del Cesarotti, fondato su di un'aristocrazia culturale
dall'accento fortemente individualistico, la concezione
romantica, e specialmente mazziniana, delle nazioni che
organicamente collaborano, ognuna con la propria
personalità, a formare una grande «famiglia» per un ideale
di comune perfezionamento. L'aspetto politico-sociale del
problema della lingua, al quale il Settecento dava già tanto
rilievo, era comunque quello che avrebbe dominato le
discussioni linguistiche dell'Ottocento. |