IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

CINQUECENTO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL CINQUECENTO

Aspetti della poesia del Michelangelo

Vorrei potere indicare un modo di entrare nella lirica del Michelangelo: un modo comodo, ma in qualche maniera indispensabile. Un minimo di premessa è qui necessario, non foss'altro come enunciato.

Non farò se non richiamare la vostra attenzione su considerazioni di stile: ma che cos'è lo stile, Mi permetto, poiché la serie dei miei predecessori è abbastanza lunga, di offrire anch'io una definizione dello stile. Dirò allora che lo stile mi sembra essere, senz'altro, il modo che un autore ha di conoscere le cose. Ogni problema poetico è un problema di conoscenza. Ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica. Ora, si può dire che noi siamo abbastanza informati circa il modo con cui Michelangelo, in quanto poeta lirico, conosceva il mondo che aveva sott'occhi? Ne lascerò giudicare ai miei ascoltatori, pregandoli di esaminare che posto sia stato fatto alla lirica di Michelangelo in antologie recenti... Sceglierò due antologisti che sono rappresentativi, in modo tipico, della penultima rispettivamente e dell'ultima generazione di letterati italiani, di letterati «à la page». Il primo è Giuseppe Prezzolini, veterano delle battaglie vociane stato, cioè, massima parte della più importante rivista anteriore alla guerra del '15, La Voce, la quale si proponeva soprattutto di modernizzare, europeizzare, speculativizzare l'intelligenza italiana. Il secondo è il nostro amico Enrico Falqui, il quale ha raccolto, in collaborazione con un altro uomo di lettere, Il Fiore della lirica italiana dalle origini a oggi: questo libro mi pare sintomatico d'un'epoca più recente, in cui uomini preoccupati a priori da necessità culturali si sforzano di ritrovare nel passato tracce documentarie della sensibilità contemporanea. Orbene, il Prezzolini, in un'antologia che, per essere scolastica, non è meno istruttiva o meno di buon gusto, presenta con la sua scelta un Michelangelo posseduto da colori metafisici, ossessionato dalla resistenza della materia, ansioso d'eternità e d'anima contro i limiti del tempo e del corpo; sdegnoso della viltà dei suoi coetanei; riferentesi per polemica a una tradizione, mettiamo a Dante. Eccetera eccetera. Cose giuste, ma, a propriamente parlare, biografia, figura biografica di Michelangelo; il Prezzolini è stato equanime, ma ha dato troppo, ha voluto presentare quel che si dice un quadro completo: il psicologismo è stato un difetto fondamentale della sua generazione. Più curioso è che cada in una sorta di psicologismo un apostolo della forma e della grammatica qual è il Falqui. Con questa differenza: che il psicologismo del Prezzolini è un psicologismo troppo esteso, diciamo enciclopedico, e il psicologismo del Fiore è un psicologismo limitato, specializzato, che può addirittura illudersi di coincidere con un particolare stilismo. In effetti la scelta del Falqui e del Capasso ha il merito di mostrare che Michelangelo ha scritto frammenti in sé perfetti, che ha spaccato o sospeso certe forme metriche tradizionali; ma il loro Michelangelo non è se non un poeta che trova la felicità maculata di peccato, l'amore mischiato di morte, la bellezza inficiata di tormento, e che, bruciato da tanto ardore, finisce per riversarsi in Dio. E allora quella scelta si chiarisce essere non una scelta, cioè un'assemblea di cose, ma una riunione di concetti schematici, i quali sommati danno - chi? forse Michelangelo? no, ma il figurino generale dell'uomo intimamente diviso, del «contrasto», del «dissidio», a cui invariabilmente riesce la minore e minima critica romantica.

Ho proceduto, dunque, ad alcuni rilievi negativi. Un che di negativo e di polemico mi verrà ancor buono per sottolineare il significato, e direi l'esistenza, di qualcosa di ben positivo, voglio dire il primo oggetto di questa presentazione. Le antologie citano a preferenza, e coloro che mi ascoltano hanno tutti presente alla memoria, il sonetto alla notte O notte, o dolce tempo, benché nero. Superfluo dire che io approvo questa designazione, e che l'approvo soprattutto in grazia dell'ultima terzina la quale ci mostra in atto l'operosità della notte, il suo procedere economico, familiare, energico e completo:
 
  Tu rendi sana nostra carn'inferma,
Rasciugh'i pianti e posi ogni fatica
E furi a chi ben vive ogn'ir'e tedio.
 

Il motivo della notte ha ossesso per un certo tempo la sensibilità di Michelangelo, ma entro questo «ciclo» - del tutto spontaneo, beninteso - vorrei particolarmente segnalare una lirica che nella raccolta precede la lirica celebre. È un sonetto che c'introduce nel laboratorio di Michelangelo, nel luogo dove si formano le sue riflessioni poetiche. Il sonetto O notte, o dolce tempo era un elogio della notte, e addirittura vi si diceva esplicitamente: «chi t'onor'ha l'intelletto intero». Esattamente alla stessa epoca di meditazione si riferisce quest'antitesi: «pur chi la loda erra». Michelangelo s'è posto il problema della validità di quell'elogio, e lo risolve in fondo con una freddura, un'arguzia: ma il suo riso, come scopriremo meglio tra poco, è sinistro, filosofico, concettuale; è l'equivalente d'una constatazione singolare. Dice il sonetto:
 
  Perché Febo non torc'e non distende
D'intom'a questo globo fredd'e molle
Le braccia sua lucenti, el vulgo volle
Notte chiamar quel sol che non comprende.
E tant'è debol che, s'alcun accende
Un picciol torchio in quella parte, tolle
La vita dalla nott'; e tant'è folle
Che l'esca col fucil la squarcia e fende.
E se gli è pur che qualche cosa sia,
Cert'è figlia del sol e della terra,
Che l'un tien l'ombra, e l'altro sol la cria.
Ma sia che vuol, che pur chi la loda erra,
Vedova, scur', in tanta gelosia
Ch'una lucciola sol gli può far guerra.
 

Questa freddura finale è la controparte, o se vogliamo l'estrema messa a partito, d'un serissimo e disinteressato esperimento. Trovatasi innanzi una simpatia, una privata disposizione sentimentale, il poeta ha bisogno di conoscere l'oggetto che la provoca (la notte); e, provvisoriamente, egli giustifica quella simpatia con l'ordinata, personale azione della notte: la notte esaurisce, abbiamo visto, certi compiti, è « individuata » e rispettabile. Ma ora egli riesamina dall'inizio la cosa: l'assume integra, in solido; non l'analizza, si badi bene; bensì ne mette a prova la realtà, l'esistenza; ne misura la reazione al contatto di certi strumenti. Sperimenta, dico; e con una torcia scruta la tenebra; o addirittura reca, e scopre che l'allontanano, l'esca e la pietra focaia. Ma che, a distruggerla basta una lucciola: «una lucciola sol gli può far guerra». E lo stupore di questo grand'uomo chino, direi, sopra un'occhiale è sovrano e, insieme, primitivo. Fonda una cosmografia per suo conto, tutta sostanziale e poetica, non razionale e classificatoria: non il semplice o il comodo è scelto a criterio per tal forma di scienza, ma la realtà sentita. In altre parole: alla trovata metafisica s'accompagna tutta la verifica immaginata dei corollari.

Gianfranco Contini

© 2009 - Luigi De Bellis