La coscienza della lingua nel "De
vulgari Eloquentia"
La formazione di una lingua comune, al di sopra del
frazionamento dialettale, avviene secondo Dante attraverso
l'elaborazione da parte di una minoranza fornita di
prestigio sociale, di capacità letterarie e di potere
politico, operando una scelta cosciente sui materiali
linguistici locali e richiamandosi, nella ricerca
dell'ordine e dell'eleganza, al grande modello del latino.
Dante, come dice il critico, fonda nel suo trattato la
retorica, la lingua letteraria volgare, ma è lo stesso
procedimento proprio di ogni lingua che cerca un'unità, non
essendo la lingua letteraria altro che un grado, «il primo e
il più eletto», della lingua comune.
Non è qui nostro assunto di esaminare questa nozione
dantesca della lingua, considerata sotto l'aspetto dell'eloquentia,
cioè del «ben parlare». Vogliamo, tuttavia, rilevare come
nel definire il carattere di quel volgare, che potesse
assurgere ad espressione dell'italianità, libero dalle
scorie del particolare e del municipale, Dante abbia veduto
in azione gli stessi fattori che effettivamente
contribuiscono all'unificazione linguistica. L'attributo di
«illustre» che egli dà a tale volgare è spiegato con il
fatto che esso risplende del magistero dell'arte, illumina
ed eleva gli spiriti ai quali si volge, arreca gloria
all'artefice. L'altro epiteto di «cardinale» ha la sua
ragione nel fatto che il volgare illustre è come il fulcro,
intorno a cui si muovono le parlate municipali e la sua
azione importa un regredire degli atteggiamenti linguistici
più rozzi ed un progresso di quelli elevati e culti. Gli
epiteti di «aulico» e di «curiale» stanno a indicare gli
ambienti, dove maggiormente s'aduna la forza coesiva della
comunità e nei quali, in virtù di tale funzione
accentratrice, più si tende all'unificazione linguistica e,
cioè, la corte come centro del potere politico, e la curia
come esercizio, per dir cosí, periferico di tale potere.
Da tutto questo appare chiaro come Dante veda
nell'unificazione linguistica un'opera di cosciente ricerca
e di creazione, presente sempre a se stessa, da parte di una
minoranza eletta, che, attraverso il magistero dell'arte e
il prestigio di forme più raffinate di vita spirituale e con
l'appoggio del potere politico accentratore delle forze più
vive, dia maggiore uniformità ed ampiezza all'uso
linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi
fondamentali contrassegni genetici.
L'italianità linguistica non era ai tempi di Dante già così
concretata come lo erano l'ellenismo ai tempi di Aristotele
e la latinítas ai tempi, di Varrone e di Cicerone. Ma il
processo di definizione era incominciato con la lingua della
scuola-poetica siciliana e si era affermato attraverso
l'opera dei toscani e dei bolognesi. Una tradizione di
lingua colta era venuta a delinearsi, avendo a motrice
ideale, innegabile e spesso misconosciuta, la lingua latina.
L'opera in volgare dei doctores, se portava nella lingua
poetica i riflessi della lingua dei modelli che seguiva,
ancor più fortemente doveva seguire l'influsso di quella
mentalità, di quel gusto linguistico, che la viva e costante
presenza del latino nella loro coscienza doveva pur
promuovere.
Ora Dante non poté certo prevedere la prevalenza integrale
del toscano nella determinazione della lingua nazionale
italiana, che si ebbe anche, e soprattutto, per merito suo;
tuttavia, bene individuò i fattori, che contribuiscono in
genere alla formazione di una lingua comune e che, in
particolare, hanno contribuito alla formazione della lingua
italiana.
La lingua comune ha sempre la sua culla in un ambiente di
maggior prestigio. Dante ha messo innanzi i maggiori fattori
che qualificano in una comunità un prevalere linguistico,
richiamandosi al magistero dell'arte, all'opera dei doctores,
e all'azione unificatrice del potere politico ed
amministrativo, la corte e la curia. Ma ha soprattutto il
merito di aver messo in rilievo come a questi fattori sia
comune una tendenza al raffinamento e all'elevamento
dell'espressione linguistica, in funzione di un ideale, per
dir cosí, aristocratico.
Il contributo dell'arte nella formazione di una lingua
comune è palese proprio nell'affermazione del toscano come
lingua nazionale; quello del potere politico e del prestigio
complessivo della civiltà è palese nell'affermazione del
latino; fattore aulico e fattore religioso si associano a
determinare la vittoria del neoaltotedesco come lingua
comune della Germania, fattori culturali e fattori di ordine
largamente politico si associano nella determinazione
dell'attico come lingua comune della grecità, e del dialetto
dell'Ile de France come francese comune.
Per ciò che riguarda l'italiano, Dante, come si è visto,
mostra d'intendere anche quanto doveva influire sulla sua
costituzione la vitalità del latino come lingua di cultura,
quando afferma il prevalere della lingua del si, in base al
privilegio di essere essa la più vicina alla lingua
grammaticale 1. Già sin d'allora, il confronto si doveva
porre per lui fra la pronunzia e la struttura del toscano e
quelle della tradizione colta del latino, così che nel
toscano, nonostante il suo ripudio dei volgarismi, egli
veniva quasi inavvertitamente a riconoscere quel «primissimum
signum» dell'italiano comune. L'altro privilegio, quello
dell'eccellenza dei poeti che della lingua del si si erano
serviti, riporta esso pure al toscano, perché non vi può
essere dubbio che le rime dei siciliani erano a lui note in
forma ormai toscanizzata.
Ma, soprattutto, è da attribuire a merito di Dante il
riconoscimento di quell'azione di scelta, di raffinamento,
che presiede alla costituzione e allo sviluppo di una lingua
comune, giacché questa è frutto di una coscienza linguistica
più desta, la quale vuole dotarsi di mezzi espressivi sempre
più perfetti, senza scostarsi da quella data «forma
interiore». Essa opera come criterio istintivo di scelta,
come gusto. F innegabile che questo gusto agisce in funzione
del contenuto di coscienza che si vuole esprimere e che,
perciò, nella lingua comune opera un più vivo e sorvegliato
sforzo stilistico. Quel gusto che a Dante fa ripudiare, i
vocaboli yrsuta, come già a Cicerone gli abiecta atque
obsoleta, non è di ordine diverso da quello del comune
parlante, che evita le espressioni e le inflessioni
dialettali, da lui sentite come volgari, per cercare un
livello espressivo che lo ponga in una sfera superiore.
Che Dante abbia pensato al «volgare illustre» in funzione
delle più alte forme poetiche, nulla toglie alle sue
mirabili intuizioni. È certo che egli si riprometteva di
trattare nei libri successivi anche della prosa d'arte.
Comunque, ha visto la lingua d'arte come un grado, il primo
e il più eletto della lingua comune, tanto che di essa ha
ricercato il fondamento, l'unum, nell'italianità
linguistica. I fattori che portano alla creazione e allo
sviluppo di una lingua comune, sono, per quanto su un piano
storicamente più largo, dello stesso ordine di quelli che
operano nella formazione di una lingua letteraria, appunto
perché questa è un grado di quella. È fatto facilmente
constatabile che l'unificazione linguistica non si attua in
blocco, ma è bensì processo perenne, e che il primo grado è
appunto quello, cui una più desta e alta vita culturale
cerca un'espressione unitaria consona a questo suo primato. |