La poesia del Paradiso: il canto XV
Nel Paradiso i fondamentali temi poetici di Dante
raggiungono la foro espressione più alta e profonda, la loro
forma superiore ed epica, così come la sua arte, la sua
parola poetica, le sue capacità costruttive e sinfoniche vi
toccano il vertice delle loro possibilità. In questo regno
di una tensione superiore che pur raggiunge la sua
espressione compiuta e conclusa (la sua misura, non la
smisuranza di Jacopone e il silenzio dei mistici), come i
personaggi divengono piuttosto nuclei lirici, voci in cui la
forza drammatica-plastica dell'Inferno si tramuta in
caratterizzazioni più intime, non bisognose quasi di segni
fisici, di rappresentazioni esterne e vivono intensamente
nella evocazione delle loro storie esemplari e assolute,
così i motivi più validi dell'animo e degli ideali danteschi
raggiungono la loro espressione più sintetica, definitiva,
purificata dai loro aspetti più contingenti e passionali in
una forza di rappresentazione più intima e più serena, di
fondamentale tono epico: evocazione e rappresentazione, non
vaghe larve in un cielo di evasione mistica e ascetica che
abolisca ogni aspetto e ricordo della terra o li riporti
solo nelle immagini di paragone secondo la dubbia
affermazione desanctisiana e crociana), le quali poi
viceversa son sempre intonate a questa dimensione speciale
di una realtà superiore in cui quella mondana ritorna
sublimata e più pura con i suoi affetti, le sue aspirazioni
fondamentali e con la fede spirituale e poetica di chi, come
Dante, vuole una renovatio, una riforma del « mondo » e non
un suo abbandono sdegnoso o elegiaco.
Così avviene particolarmente per il tema civile e cittadino,
per il tema della concreta patria terrena, Firenze, che,
dopo le frequenti e frammentarie apparizioni nelle altre
cantiche e specie nell'Inferno, in toni di invettiva, di
nostalgia appassionata, in forma a volte di ira partigiana e
più strettamente municipale, ritorna nel Paradiso e vi
chiarisce definitivamente il suo rapporto con Dante, con la
sua missione di poeta-profeta, con il significato del suo
esilio, con il suo dolore di esule (su cui tanto giustamente
insistè il Momigliano), con la sua fede nella stessa
soluzione positiva e trionfale della sua vicenda terrena che
egli vede poi nel canto XXV glorificata dalla corona poetica
proprio nel « bello ovile » dove egli « dormì agnello » ,
sul « fonte » del suo « battesimo ». Nel Paradiso questa sua
fede si precisa integralmente, il significato della sua vita
e della sua opera si completa e si illumina e mentre le
parziali, oscure profezie sul suo esilio si spiegano nella
parola di Cacciaguida, perdono il loro carattere minaccioso
e acquistano una luce di suprema certezza personale storica
e divina, pur nel tormento di una vocazione di martirio
intenso, ma ormai chiarito anch'esso nella sua superiore
necessità, interamente rappresentato e non più solo
ansiosamente sofferto come opprimente incubo, così
coerentemente le allusioni inquietanti alla sua missione e
al valore del suo viaggio ultraterreno, paragonato dal poeta
all'inizio dell'Inferno con il viaggio di Enea e Paolo solo
per mostrare la propria inadeguatezza alla funzione alta di
quelle gloriose e sacre personalità, si cambiano nella
nobilitazione e santificazione dei paragoni, espliciti o
impliciti (autorizzati dalla voce del beato che vede nella
mente di Dio) del poeta con Enea, con Cesare, e persino con
Gesù. E ugualmente l'immagine di Firenze, prima tormentosa e
passionale, si sdoppia nel contrasto di quella di un
presente corrotto, e giudicato più con superiore e severo
distacco che con iroso accanimento, e di quella di un
passato e di uno sperato futuro di pace, nella cui
rappresentazione epica e mitica (e assicurata in una storica
realtà dalla testimonianza di uno dei suoi cittadini) le
note più segrete dell'animo di Dante, la sua ricca, delicata
e virile vita di sentimenti familiari e cittadini, la
malinconia dell'esule privo di città e di casa, incerto
della sua tomba, vibrano più intimamente e invece di
espandersi in forme di struggente elegia o di idillio
vagheggiato senza speranza, si traducono in un quadro
poetico di straordinaria perfezione classica. E
autobiografia si supera in assoluta poesia mercé
l'essenziale mediazione della voce di Cacciaguida,
voce-personaggio, vero e intero personaggio di Paradiso,
tutto costruito su note intime, su coerenti componenti di
qualità e di accenti: beato, cittadino della Firenze antica,
morto combattendo per la fede, paterno vegliardo, ricco di
una tensione di affetto e dotato di una superiore misura,
che quella contiene e potenzia fino alla mitizzazione
solenne, semplice e commossa della Firenze « sobria e pudica
» in cui quella voce fonde più interamente gli elementi
epici e sacri, la fermezza testimoniale e la vibrazione
appassionata, che si erano venuti sviluppando nella
elaborazione lenta e progressiva del personaggio e nella
compatta integrale precisazione della scena e del colloquio
con Dante.
Quella rappresentazione della Firenze antica è certo il
momento più alto, la meta suprema del canto XV, ma errerebbe
chi volesse isolarlo antologicamente come lirica a sé,
perché esso vive e si giustifica nella complessa unità dei
canti di Cacciaguida e più immediatamente nel suo accordo
con tutta la prima parte del canto XV, con il finale
epico-storico della vicenda di Cacciaguida e della sua morte
in battaglia, e presuppone insieme le particolari condizioni
poetiche del Paradiso in cui solamente una simile
rappresentazione poteva raggiungere la sua limpida potenza,
la sua essenzialità e semplicità. Come d'altra parte tutti e
tre i canti, posti non a caso nel centro della terza
cantica, in una lunga sosta dell'ascesa paradisiaca (ma
quell'ascesa continua nell'intimo, nel perfezionamento di
quel grande tema e degli elementi danteschi che esso
implica), non costituiscono, come spesso è stato detto, un
semplice inserimento parentetico di temi mondani privati
nella diversa poesia del Paradiso,. ma una sublimazione e
una sintetica chiarificazione di questi nelle condizioni di
quel regno e di quella poesia, la quale poi, dopo questo
momento, in cui lo stesso significato dell'opera e della
vita di Dante è definitivamente chiarito in termini
assoluti, potrà riespandersi con nuovo slancio nella
rappresentazione più diretta dell'ineffabile, dei misteri
della fede, delle visioni paradisiache, senza con ciò
perdere il centrale riferimento alla missione di Dante e a
questo sviluppo di un tema fondamentale della Commedia, che
qui, rivisto nel suo aspetto più alto ed intero, si
ricollega chiaramente anche alla sua vita nelle altre
cantiche.
Valore centrale dei tre canti nel Paradiso, valore di
potente equilibrio nel suo svolgimento, nell'accordo di uno
sviluppo superiore del motivo civile-municipale e di quello
della missione di Dante (i canti centrali del Paradiso
rispondono ai canti centrali dell'Inferno dedicati a
Firenze, il dialogo di Dante con Brunetto e con i fiorentini
che « a ben far poser gl'ingegni », nonché ai canti
purgatoriali di Guido del Duca e di Marco Lombardo,
dell'esaltazione di un passato di valore e cortesia) proprio
nel cielo di Marte e nel segno della croce dei combattenti
per la fede: quel cielo di Marte di cui Dante nel Convivio (II,
XIV) sottolineò il significato simbolico di centralità
armonica, perché «annumerando i cieli mobili esso cielo di
Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti», mentre
accennando al suo significato di annunciatore di
rivolgimenti politici e all'apparizione, in figura di una
croce, « di una grande quantità di vapori dello cielo di
Marte in Fiorenza nel principio della sua distruzione »,
Dante sembra in quel passo alludere ad una relazione
presente anche nella genesi sentimentale e fantastica di
questi canti, fra la centralità del cielo di Marte, la
figura della croce dei combattenti per la fede, il contrasto
tra la Firenze decaduta e la Firenze ideale del passato e
della sua speranza. Il canto XV vive così in questo
complesso nodo di rapporti tematici, vive come introduzione
agli altri due canti, a cui fornisce la base necessaria di
slancio, il completamento della scena, la elaborazione della
voce di Cacciaguida e dell'immagine della Firenze antica, ma
vive anzitutto in se stesso, nella sua forte unità
particolare (anche se intensificata proprio da un tensione
che attende ancora ulteriore sviluppo, folta di temi
nascenti) e nel rapporto necessario fra la prima parte e il
mito poetico altissimo che rie scaturisce al sommo e ne
assorbe e trasvalora l'intensa accensione paradisiaca e
affettiva, essenziale ad alimentare la superiore purezza in
un passaggio di gradi di approfondimento lirico, in uno
svolgersi della poesia più alta da un impeto spesso più
lirico-eloquente, ma mai privo di congeniali componenti
schiettamente poetiche, mai riducibile a puro momento di
struttura esternamente narrativa.
Tutto il canto XV vive in una sua unità dinamica e
all'interesse narrativo sempre crescente nel continuo segno
di una attesa e di uno svolgimento più alto, allo sviluppo
della scena celeste in cui si giustifica il tono altissimo
del dialogo, corrisponde integralmente un continuo
arricchimento di motivi e di toni sentimentali e poetici
sempre più interni e lirici, in una progressione e
articolazione di parti tutte ascendenti che conducono sempre
più all'interno, ad una visione-evocazione più assoluta, più
nitida e mitica: prima fulgore luminoso e immaginoso, poi
ardore di affetti, poi intima evocazione, prima grandiosità
di spazi infiniti, poi rappresentazione di domestica pace
sin nel chiuso delle case fiorentine. E così il linguaggio
si approfondisce e si svolge coerentemente dai temi più
aperti di solennità sacra dell'inizio a quelli più
affettuosi dell'ardore paterno di Cacciaguida, a quelli
mitico-storici della evocazione della Firenze « sobria e
pudica » e del grande finale, senza mai perdere l'eco
sollecitante e la preparazione dei toni e dei motivi prima
acquisiti.
Un'ascesa verso la grande poesia dell'ultima parte, ma in un
rapporto di parti inseparabili, nello svolgersi e
purificarsi di una generale tensione ispirativa, in cui i
più aperti motivi paradisiaci (luce e musica, progresso del
sentimento paradisiaco di Dante, intensificarsi del sorriso
di Beatrice, comunicazione dei beati nella mente di Dio)
concorrono a costituire la base altissima ed intensa su cui
si attua la poesia dell'ultima parte, a elaborare gli
elementi di nobilitazione e santificazione della voce di
Cacciaguida, il tono epico-religioso e storicamente
testimoniale in cui la rappresentazione della Firenze antica
può superare le condizioni di un semplice e isolato idillio
nostalgico da parte di un «laudator temporis acti». Come,
ripeto, negli ultimi versi la narrazione della vita di
Cacciaguida e della sua morte in battaglia al servizio della
fede e dell'Imperatore, e la stessa intonazione sacra e
cavalleresca, marziale e civile, in cui essa è scandita,
approfondiscono l'incanto di pace della Firenze sobria e
pudica, viva di affetti dolcissimi e ricca di intimità fin
nei rapporti più semplici e naturali, nella poesia della
casa, della culla, delle cose semplici e schiette, ma
insieme eroica e santa, capace di combattere fino al
sacrificio per i propri sublimi ideali, ben lontana così da
un mediocre quieto vivere, impegnata in un esercizio alto di
virtù supreme, nella scelta fra valore e disvalore, fra
carità e avidità egoistica e corrotta, fra l'« amor che
drittamente spira », e la « cupidità »...
Né si trascuri di osservare come proprio questo fondamentale
tema di contrasto che innerva tutto il canto fino alla
contrapposizione finale fra il « mondo fallace lo cui amor
molte anime deturpa » e la «pace» celeste, venga assicurato
ed evidenziato robustamente all'inizio della prima parte,
costituendo una linea tematica che raccoglie e sorregge in
una direzione unitaria la caritatevole benevolenza dei
beati, la intima disposizione affettuosa di Cacciaguida, di
Beatrice, di Dante nel loro colloquio, e dà allo stesso
contrasto tra la Firenze « sobria e pudica », concorde, e la
Firenze moderna corrotta e divisa, il suo valore di
esemplificazione concreta di una verità universale e
centrale nella poesia del Paradiso, e di tutto il poema,
conferisce un ulteriore rilievo al mito della Firenze
antica, la cui pace nasceva per Dante non solo e non tanto
da una situazione sociale, economica, politica (il Comune
aristocratico dell'epoca prefedericiana non turbato
dall'inurbamento dei villici) quanto e più dall'adesione dei
suoi cittadini all'amore dei beni sostanziali, alla
cristiana e civile carità. |