Motivi della
poetica dantesca
Non si tratta, naturalmente, d'un ripensamento
programmatico: le posizioni letterarie nei cui confronti
Dante individua storicamente la propria, rivivono in un
intreccio di ricordi: e se alla memoria s'accompagna
esplicito il giudizio della intelligenza, in essa vibra però
soprattutto la commozione del sentimento. t quella
commozione mista di nostalgia e di compiacimento che ognuno
prova nel riandare le prime, giovanili esperienze della
propria più cara attività, i primi incontri, gli entusiasmi
e i « disdegni » che si fecero poi consapevolezza critica, e
in essa ancora durano. Tali esperienze e incontri rievoca
qui Dante nelle figure di poeti che suscitarono già la sua
ammirazione o la sua insoddisfazione, con tutti gli affetti
congiunti.
Veramente a comprendere nella sua pienezza il significato
che ha il largo spiegarsi del tema negli episodi del XXIV e
del XXVI canto, converrebbe rifarsi indietro, e considerare
questi episodi e questi canti in un più largo contesto, come
momenti culminanti d'uno svolgimento sinfonico. Trama
sottile di memorie con cui Dante congiunge e disgiunge
l'antica e la novella Beatrice, raccordi lanciati nel
passato come a misurare l'itinerario segreto d'una
trasfigurazione fantastica che egli identifica con la
propria maturazione artistica e morale, le affettuose
rievocazioni dalla prima stagione della sua vita e della sua
esperienza d'arte costituiscono in realtà un motivo
ricorrente della seconda cantica. Essa anzi s'è aperta
proprio sotto questo segno, nell'amoroso canto di Casella,
che a tutta la cantica è come un preludio significativo. I
due temi dell'amicizia e dell'arte, fusi là in una sola onda
di nostalgia, ritornano poi variamente svolti e intrecciati.
Ecco ad esempio, l'impressione lasciata nella memoria da una
lettura poetica prender corpo nella figura di Sordello; ed
ecco, accanto alla rievocazione del trovatore mantovano,
anzi proprio entro il suggerimento preciso d'un suo
componimento, il compianto in morte di ser Blacas, nella
valletta che accoglie i medesimi principi che quel compianto
cita, o i loro successori, prender corpo il ricordo
affettuoso d'un amico:
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Ver
me si fece, ed io ver lui mi fei:
giudice Nin gentil, quanto mi piacque... |
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Un altro
amico, o almeno un altro artista che Dante aveva conosciuto
di persona, l'alluminatore Oderisi da Gubbio, gli apparve
curvo sotto il peso imposto ai superbi, nella cornice ove
Dante ha a lungo ammirato il visibile parlare d'altorilievi
in cui l'arte scultoria, per virtù di sovrannaturale fabbro,
trionfa dei suoi limiti naturali. E con Oderisi il motivo
dell'arte, poc'anzi teso all'ideale umanamente
irraggiungibile d'una vittoria assoluta sulla materia, si
ripiega in modulazioni elegiache sul sentimento della
labilità d'ogni gloria artistica: « vana gloria dell'umane
posse, nominanza color d'erba » che presto discolora. Sono
svolgimenti che approfondiscono il tema e lo rendon più
intimo al sentimento della personale esperienza dantesca,
dei suoi travagli e delle sue aspirazioni:
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Così ha tolto l'uno a l'altro Guido
la gloria della lingua, e forse è nato... |
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Breve è la
gloria dell'arte, ma alto il suo ideale nel cuore di Dante,
Il poeta della Commedia si volge al cammino percorso,
ripensa il passato. e nei ricordo commosso del suo intimo
amico Forese Donati, nel rossore di quel verecondo accenno:
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Se
tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente, |
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forse il
memorare comprende e confessa, insieme ad uno sbandamento
della vita, anche uno sbandamento letterario: l'esperienza «
scapestrata » che s'incarnò nella famosa tenzone con l'amico
(e si potrebbe aggiungere nel « Fiore », se, come altri
credette, questa fosse veramente opera di Dante): sconfessa
insomma quell'esperienza che non intende la poesia come
serio impegno morale.
Siamo dunque preparati quando il tema dell'esperienza
artistica riappare nell'episodio di Bonagiunta, dove
l'impegno di Dante più apertamente si dispiega. I famosi
versi che sciolgono il nodo in cui consiste la superiorità
del « dolce stil novo » rispetto alla poesia precedente una
fedeltà espressiva sempre più stretta all'intimo dettato
d'Amore sottintendono una fede assoluta nella trascendenza
della ispirazione amorosa; sì che l'esercizio della poesia
diviene ascesa spirituale ad una contemplazione sempre più
pura dell'essenza d'amore: Amore, da cui muove non la sola
poesia, ma tutta la vita morale dell'uomo, tutta la vita
dello universo, dall'istinto delle minime creature fino alla
circolazione delle sfere celesti.
Ma a tale concezione come s'indirizzò Dante se non proprio
attraverso l'esperienza stilnovistica, che movendo dal «
disdegno » per il provincialismo guittoniano, e dal
contrapposto richiamo alla « nuova maniera » del bolognese
Guinizelli, lo unì con pochi altri eletti in un comune
sforzo d'aristocrazia concettuale e formale? Onde brillò a
lui per la prima volta il raggio della rivelazione poetica,
se non appunto dai versi del Guinizelli « padre suo e degli
altri... che mai rime d'amore usar dolci e leggiadre », che
conseguirono cioè intima musicalità e raffinato sentire,
perché si mossero a poetare come già lo stesso Guinizelli
aveva poetato « Con gran disìo pensando lungamente Amor che
cosa sia »? Anzi, non è in fondo sviluppo d'un'intuizione
guinicelliana quella stessa più alta concezione d'Amore per
cui Dante si stacca anche dagli altri stilnovisti? Quella
che per Guinizelli era stata soltanto un'ardita metafora
(ardita sino a rischiare un'irriverenza verso la divinità: «
e desti in vano amor me per sembianti ») diviene per Dante
l'intuizione d'una verità superiore ed essenziale («
Beatrice, loda di Dio vera »). Quella che per Guinizelli era
soltanto verità ottativa, nell'ambito d'una suggestiva
analogia («così dar dovria al vero la bella donna...»)
diviene per Dante una realtà ontologica, metafisica certezza
(« Donna è di sopra che m'acquista grazia ») così egli
supera l'insoddisfazione che il Guinizelli non riusciva,
tormentandosene, a superare, e che il Cavalcanti, con
irritata malinconia, teorizzava pessimisticamente
insuperabile. « Vano amore » è solo quello che pretende «
beato compimento » da un bene imperfetto (« che non fa
l'uomo felice ») e a questo arresta il suo impulso, e «
troppo ad esso s'abbandona » (Purg., XVII, 133-136); solo
quello, insomma, che non sa trascendere la donna terrena,
che tale rimane anche se abbia < d'angel sembianza », nella
celeste Beatrice, « splendor di viva luce eterna » (Purg.,
XXXI, 139).
Proprio dal riconoscere che il Guinizelli non seppe compiere
questo superamento dell'amore terreno, Dante trae il
pretesto strutturale per collocarlo nelle fiamme che
purificano i lussuriosi, sull'ultima cornice del Purgatorio;
così come vi colloca il poeta provenzale Arnaldo Daniello,
il quale una volta aveva affermato di non conoscere uomo,
fosse pure eremita, monaco o chierico, tanto devoto a Dio,
quanto lui stesso, Arnaldo, alla donna del suo canto. Né in
ciò v'è alcuna sconvenienza o contraddizione con la
testimonianza che Dante vuol rendere qui ai due illustri
poeti - testimonianza d'altissima ammirazione per il
Daniello, addirittura devozione filiale per Guido Guinizelli
- : la passione di amore, come dice l'altro Guido, il
Cavalcanti, « in gente di valor lo più si trova », anzi,
come aveva detto proprio Arnaldo, «tutti i più savi se ne
inebbriano». Anzi la ragione strutturale, traducendo in
termini teologici di giustizia divina la ragione stessa per
cui Dante si sentiva superiore a quei due poeti, consente
che la coscienza di tale superiorità sia implicitamente
affermata senza sminuire il valore e il calore delle parole
con cui Dante proclama esplicitamente il suo debito e la sua
ammirazione.
E sono, checché si sia sottilizzato su certe espressioni,
parole inequivocabili, così nel loro valore intellettuale,
come nel loro calore sentimentale, che qui in particolare
c'interessa come radice della vita poetica loro e di tutto
l'episodio. Sicché, se nei riguardi d'Arnaldo esse suonano
riconoscimento d'un primato tecnico nel raffinamento del
volgare, più che l'esattezza oggettiva di questo
riconoscimento sottolineeremo la portata soggettiva ch'esso
aveva per Dante; ricorderemo, cioè, quanto egli dedicò di se
stesso ad elaborare e a realizzare l'ideale d'un volgare <
illustre, aulico, cardinale e curiale », e quanto dunque
doveva scuoterlo tutto ciò che toccasse questa sua fede
tenace e appassionata, questo sforzo di tutta la sua vita,
che, in quanto ansia di perfezione, ha un carattere di
religiosità. Così, se le parole relative al Guinizelli
suonano, in sede storico-letteraria, riconoscimento d'un
caposcuola, insisteremo sul fatto che questa « scuola » si
definisce anzitutto sentimentalmente come « amicizia » e che
quel « capo », o piuttosto « padre », non è tanto un
modello, quanto un iniziatore, e tale non pure nel senso
dello stretto mestiere letterario, ma propriamente nel senso
d'un'intima idealità poetico-religiosa.
Del resto, che cosa sia, che cosa possa essere per uno
spirito totalmente impegnato come quello di Dante, un
rapporto di poeta a poeta, ce l'ha mostrato purdianzi
l'incontro, così caldo di commozione, fra Virgilio e Stazio.
Del quale, io credo, meglio comprenderemo il significato
pregnante, considerandolo come preparazione e prefigurazione
dell'incontro fra Dante e Guinizelli; e dico prefigurazione
proprio pensando al senso tipicamente medievale e religioso
di « figura » nell'esegesi tipologica dell'Antico
Testamento. Perché, in certo qual modo, la poesia classica e
la volgare stanno fra loro, nello spirito di Dante, come
l'Antico e il Nuovo Testamento.
Così sotto l'equazione analogica fra i due incontri - di
Stazio con Virgilio, e di Dante col Guinizelli - c'è, io
credo, una più profonda equazione tendenziale tra
rivelazione poetica e rivelazione religiosa. E se il primo
rapporto non si esaurisce in un ambito puramente letterario,
ma ha un esplicito significato morale e religioso (Purg.,
XXII, 73 : « Per te poeta fui, per te cristiano »), anche il
secondo dovrà essere inteso nella sua pienezza alla luce
della religiosità che informa là « poetica » dantesca. Non è
un semplice fatto letterario che impegni soltanto il
giudizio e il sentimento dello scrittore; ma un fatto di
storia intima che impegna tutto l'uomo, tutti i suoi
sentimenti, tutta la sua vita spirituale. È il ricordo d'una
rivelazione. |