Dante e Omero
Ora è ben fatto che sappiate cosa fece gran poeta Dante, di
cui voi cotanto vi dilettate per un certo natural senso,
onde egli vi fa poeta che lavorate di getto, non per
riflessione forse men propria, onde egli vi facesse un
imitatore meschino'.
Egli nacque Dante in seno alla fiera e feroce barbarie
d'Italia, la quale non fu maggiore che da quattro secoli
innanzi, cioè nono, decimo ed undecimo. E nel dodicesimo, di
mezzo ad essa, Firenze rincrudelì con le fazioni de' Bianchi
e Neri, che poi arsero tutta Italia, propagata in quella de'
guelfi e de' gibellini, per le quali gli uomini dovevan
menar la vita nelle selve o celle città come selve, nulla o
poco tra loro e non altrimenti che per le streme necessità
della vita comunicando. Nel quale stato dovendosi penuriare
di una somma povertà di parlari, tra per la confusione di
tante lingue quante furono le nazioni che dal settentrione
eranvi scese ad innondarla, quasi ritornata in Italia quella
della gran
torre di Babilonia, i latini da' barbari, i barbari da'
latini non intendendosi, e per la vita selvaggia e sola
menata nella crudel meditazione d'innestinguibili odî che si
lasciarono lunga età in retaggio a' vegnenti, dovette tra
gl'italiani ritornare la lingua muta, che noi dimostrammo
delle prime nazioni gentili, con cui i loro auttori, innanzi
di truovarsi le lingue articolate, dovettero spiegarsi a
guisa di mutoli per atri o corpi avèntino naturali rapporti
alle idee, che allora dovevano essere sensibilissime, delle
cose che volevan esse significare, le quali espressioni
vestite appresso di parole vocali, debbono aver fatta tutta
l'evidenza della favella poetica.
Il quale stato di cose dovette, più che altrove, durare in
Firenze per lo bollore turbolento di quell'acerrima nazione,
come per ben ducento anni appresso, fino che fu tranquillata
col principato, durò il maroso di quella repubblica
tempestosissima. Ma la Provvidenza, perché non si
sterminasse affatto il gener umano, rimenandovi i tempi
divini del primo mondo delle nazioni, dispose che almeno la
religione, con la lingua della Chiesa latina (lo stesso per
le stesse cagioni provvidde all'Oriente con la greca),
tenesse gli uomini dell'Occidente in società, onde coloro
solo che se n'intendevano, cioè i sacerdoti, erano i
sapienti. Di che, quanto poco avvertite, tanto gravi
ripruove son queste tre:
1° che da questi tempi i regni cristiani, in mezzo al più
cieco furore delle armi, si fermarono sopra ordini
ecclesiastici, onde quanti erano vescovi, tanti erano i
consiglieri de' re; e ne restò che per tutta la cristianità,
ed in Francia piú che altrove, gli ecclesiastici andarono a
formare il primo ordine degli Stati;
2° che di tempi si miserevoli non ci sono giunte memorie che
scritte in latin corrotto da uomini religiosi, o monaci o
chierici;
3° che i primi scrittori de' novelli idiomi volgari furono i
rimatori provenzali, siciliani e fiorentini; e la loro
volgare dagli spagnuoli si dice tuttavia « lingua di romanzo
», appo i quali i primi poeti furono romanzieri. Appunto
come, per le stesse precorrenti cagioni, noi nella Scienza
nuova dimostrammo Omero, come egli é il primo certo autor
greco che ci è pervenuto, così è senza contrasto il principe
e padre di tutti i poeti che fiorirono appresso ne' tempi
addottrinati di Grecia, che li tengon dietro, ma per assai
lungo spazio lontani. La qual origine di poesia può ogniuno
che se ne diletti sentire, non che riflettere, esser vera in
sé stesso, ché, in questa stessa copia di lingua volgare
nella quale siamo nati, egli, subito che col verso o con la
rima avrà messa la mente in ceppi ed in difficoltà di
spiegarsi, senza intenderlo è portato a parlar poetico, e
non mai piú prorompe nel meraviglioso se non quando egli è
piú angustiato da sì fatta difficoltà.
Per cotal povertà di volgar favella, Dante, a spiegare la
sua Comedia, dovette raccogliere una lingua da tutti i
popoli dell'Italia, come, perché venuto in tempi
somiglianti, Omero aveva raccolta la sua da tutti quelli di
Grecia; onde poi ogniuno ne' di lui poemi ravvisando i suoi
panari natii, tutte le città greche contesero che Omero
fosse suo cittadino. Così Dante, fornito di poetici
favellari, impiegò il colerico ingegno nella sua Comedia.
Nel cui Inferno spiegò tutto il grande della sua fantasia in
narrando ire implacabili, delle quali una e non più fu
quella di Achille, ed in memorando quantità di spietatissimi
tormenti, come appunto, nella fierezza di Grecia barbara,
Omero descrisse tante varie atroci forme di fierissime morti
avvenute ne combattimenti de' troiani co' greci, che rendono
inimitabile la sua Iliade; ed entrambi di tanta atrocità
risparsero le loro favole, che in questa nostra umanità
fanno compassione, ed allora cagionavan piacere negli
uditori, come oggi gl'inghilesi, poco ammolliti dalla
delicatezza del secolo, non si dilettano di tragedie che non
abbiano dell'atroce, appunto quale il primo gusto del teatro
greco ancor fiero fu certamente delle nefarie cene di Tieste
e dell'empio straggi fatte da Medea di fratelli e figliuoli.
Ma nel Purgatorio, dove si soffrono tormentosissime pene,
con inalterabile pazienza; nel Paradiso, ove si gode
infinita gioia con una somma pace dell'animo, quanto in
questa mansuetudine e pace di costumi umani non lo è, tanto,
a quo' tempi impazienti di offesa o di dolore, era
meravigliosissimo Dante; appunto come, per lo concorso delle
stesse cagioni, l'Odissea, ove si celebra l'eroica pazienza
d'Ulisse, è appresa ora minor dell'Iliade, la quale a' tempi
barbari d'Omero, simiglianti a quelli che poi seguirono di
Dante, dovette recare altissima meraviglia. |