IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: DANTE

Rappresentazione delle dottrine della teologia e dell'allegoria in Dante


Dante crede nella sua teologia, che per lui non è verità da conquistare, ma certezza raggiunta: e qui si piace soprattutto di rappresentarla nel suo ritmo; né si sforza di sillogizzare o polemizzare per convincere sé stesso o gli altri di una così tranquilla fede, ma vuol appunto collocare in questo paesaggio immenso della sua fantasia la bellezza del pensiero che si chiude in forma, la bellezza degli atti di fede e di carità che la religione ispira; vuol cantare la sublime rappresentazione del pensare e del pregare. E se egli dica i versi già citati: «Ciò che non muore e ciò che può morire Non è se non splendor di quell'idea Che partorisce, amando, il nostro Sire», come non accorgersi che la bellezza espressiva di un concetto ha dominato Dante, assai più che non il concetto medesimo? Ecco un esempio che può servire come fondamento nella interpretazione dei canti dottrinali. E s'è detto a suo luogo, come perfino le definizioni, della Fede o della Speranza, mostrano che il senso della rappresentazione sormonta su quello del concetto.
E anche le considerazioni morali e le sentenze han sempre una loro necessità poetica. Così quando nell'XI del Purgatorio esce a cantare per bocca di Oderisi d'Agobbio: «O vana gloria dell'umane posse! Coni' poco verde in su la cima dura», subito la sentenza s'è fatta una pianta dalla tenera cima: e tra poco, ricordato Giotto che oscura la fama di Cimabue, e Cavalcanti che oscura quella di Guinizelli, l'immagine arborea si allea con quella del vento e poi dell'erba; e il senso del tempo a un battito di ciglia. Ricordate?

 
  Non è il mondan rumore altro ch'un fiato
Di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,
E muta nome perché muta lato.

. mill'anni? ch'è più corto
Spazio all'eterno, ch'un mover di ciglia
Al cerchio che più tardi in cielo è torto
................
La vostra .nominanza è color d'erba
Che viene e va; e quei la discolora
Per cui ell'esce della terra acerba.
 

Nel Convivio Dante lasciò alcuni precetti che sembrano nuocere alla interpretazione tutta poetica della Commedia, là dove disse che «le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi»; e prima il litterale, poi l'allegorico « che si nasconde sotto 'l manto di queste favole (dei poeti), ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna», poi il morale «e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti»: infine l'anagogico «cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente dispone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria».

Ma i vari sensi che Dante cerca non sono altro che velocissime comparazioni: di sotto ogni allegoria potreste far apparire il nascosto « come » della similitudine. E in quest'operazione non c'è l'intervento del freddo intelletto che vuol conferire alle parole un significato arbitrario; ma la spontanea associazione delle analogie.
E ciò che talvolta chiamiamo a torto allegoria, è una lingua metaforica, o, per usare un'espressione della scuola, è un paragone continuato, in un linguaggio interamente noto, e formato per via poetica non già arbitraria: un paragone prolungato ove il « come » delle analogie è soppresso. E chi diceva la « selva del peccato » non pronunziava che una immagine, in cui l'anima in tante colpe e si intricate- era paragonata alla selva. E chi diceva « aquila » (e avviene anche oggi) diceva spontaneamente impero: così i segni araldici, metafore primigenie, riprendono il loro primo motivo di favolette poetiche. Allo stesso modo si odono oggi anche più ardite espressioni che son diventate comuni, quali il « fior degli anni », la « primavera della vita ». I sensi figurati prevalevano sui primi significati proprii.
Se Dante scrive che per cielo intende la scienza (così nel Convivio) c'è caso che ciò sia, prima che per una deformazione pratica, per una iniziale immagine lirica, simile a quella per la quale chi dica il cielo di una camera obbedisce ormai ad una parola diventata termine pratico e sprovveduto di poesia, ma che ebbe inizialmente un valor poetico. E se nel Convivio dice occhi per dimostrazioni, dapprima egli ha visto un'immagine. È difficile cogliere in certe allegorie dantesche quel primo nucleo poetico di cui qui si parla; ma bisogna saper vigilare per distruggere appunto il moto arbitrario e abituale dell'allegoria e scoprire il moto lirico dell'origine.
Col che non negherò che nella Commedia siano stati immessi da Dante alcuni passi dottrinali e allegorici e non poetici: come ho additato punti passionali che non sono interamente risolti in poesia; ma il nodo della questione è un'altro: se cioè il carattere dottrinale e allegorico soffochi la poesia o la disperda ed anzi annulli. Qui si affermala superiorità della poesia su ogni altro stato del cuore e della mente di Dante. E ciò non vieta di avvertire come talvolta il carattere della prima visione (il gran paesaggio e l'armonia universale della Divina Commedia) si appesantisca dando origine a parti schematiche, tratti esterni, congegnati (non sentiti per legge spontanea) simili a quelli che nella tragedie fecero introdurre nutrici e confidenti a narrar l'antefatto. Sono i passi stanchi di ogni ispirazione o meglio di ogni elaborazione poetica, e si trovano in Dante come in Omero che talora dormitato in Virgilio o in Ariosto, e nello Shakespeare.

Non v'è lirica, la più breve e fulminea che si possa concepire, nella quale un qualche tratto, parola o periodo, non sia sordo alla forma.
E che Dante abbia in alcuni punti soggiaciuto alla sua teoria che imponeva allegorie e velami, e per poco da poeta si sia fatto allegorista, nessuno negherà.
L'allegoria è per definizione un fatto arbitrario; ma stavolta diciamo erroneamente allegoria una lunga metafora che ha valor di poesia, proprio perché non è più un atto pratico, ma quell'alone che sta tra la parola e il suo velo allegorico, come il carattere della metafora non è nell'essere una parola impropria invece di una propria, ma nel rapporto fra le due, in quello spessore vago della musica e del segno vocale.
Poniamo il caso della cosiddetta allegoria di Matelda. Ella è, sì, la donna che % sì già cantando e scegliendo fior da fiore », ma la parola dantesca poeticamente allegorica (e cioè analogica, non gìa un volitivo gergo verbale) la dipinge come in una seconda vista, ove i gesti scrivono una segreta indefinita melodia. E la commozione del poeta non è nella semplice grazia di quella visione mattutina, ma nella trepida presenza di ciò che ella rappresenta: in rapporto al Paradiso terrestre e al Paradiso celeste: come una musica trascrive un fatto di natura e lo tramuta in una nuova forma. In una figura di donna che l'artista chiamò la Primavera e compose in un paesaggio di favola, vedrò non solo i lineamenti di una donna ma tutte le poetiche allusioni.

Paragonerete Matelda soltanto a una coglitrice di fiori e sia pure più diafana di quelle che appariranno nelle ballate di Sacchetti? Ella coglie i fiori in quel cielo, e per quei celesti fini: in uno spazio e in un giardino mitico; e senza quell'aura e quel giardino nati nell'invenzione di Dante, la figura della donna che canta e sceglie fiori non avrebbe quell'incanto.
La figura e il figurato non son due cose, come ha creduto anche il De Sanctis: son tutt'uno: nella figura è presente, e lo intona di sé, anche il figurato, anche l'allegoria. E l'allegoria nella Commedia o è risolta interamente nell'immagine poetica, e insomma non è più allegoria, o è rappresentata, appunto, come allegoria, come un mistero che assume una nota forma, e poniamo quella delle processioni apocalittiche del Purgatorio; ed è dunque il sentimento di vaghe e incomprensibili immagini rivelate.

Il grifone del Purgatorio è la rappresentazione di una allegoria: e questa è tessuta coi procedimenti stessi delle più note allegorie cristiane, cosicché il suo linguaggio non è astratto, ma iscritto nella tradizione della comune lingua e conoscenza.
L'allegoria dantesca non è né idea filosofica, né costruzione volitiva: è un linguaggio poetico. E come tale è chiarissimo, perché oltre di esso non c'è nulla da cercare; perché in esso è detto tutto quel che il poeta voleva comunicare.
Qual è l'allegoria della Commedia? Il viaggio dell'anima pei regni del peccato e della gloria celeste, Il suo fondamento è dunque la fede cattolica del catechismo; i suoi punti bui son quei medesimi temi che la fede dichiara inafferrabili dalla mente umana, e che la poesia sente dunque soltanto come l'immagine della Rivelazione divina.

E quando Dante invita a guardar la dottrina che si nasconde sotto i suoi versi, non intende già una dottrina ignota, che come tale sarebbe sempre celata s'egli non la svelerà, ma la comune dottrina delle scuole e della Chiesa. Invita cioè a sentire più profondo il respiro della figura ch'egli rappresenta; anzi è da dire che egli rappresenta una figura col presupposto che il suo lettore conosca anche il figurato, ed egli avvisa di non fermarsi all'esterno: quella di Dante è una fictio rettorica, simile alle preterizioni che affermano di tacere proprio quello che stan dichiarando (Cesare taccio).
Dante credeva al mistero, credeva alla Rivelazione, cioè al gran racconto della vita, della morte e dell'eterno, foggiato dal Cristianesimo come parola di Dio.
Dante ha voluto rappresentare come oscura e incomprensibile per la mente stessa dell'uomo tanta parte del mondo che egli esprime: non perché egli la comprenda e la voglia nascondere a chi legge, ma perché è materia della fede comune, e la sua arcana oscurità è da lui formata secondo l'intima forma delle comuni credenze religiose.
E non é già che la lettera ci sia per i profani - come diceva il De Sanctis - e che invece gli iniziati debbano leggere di là dalla lettera é -la lettera stessa che si approfondisce fino a svelare ogni segreto. Il mondo apparente e l'occulto sono una sola parola.
Ed ecco che, per questa via, anche gli studi come quelli ai quali così strenuamente attese il Pascoli in Minerva oscura, La mirabile visione, Sotto il velame, ricercando i simboli della Divina Commedia, si mostran legittimi e utili, sol che la ricerca aiuti a illuminare il linguaggio della rappresentazione, e non converta, invece, la rappresentazione e la poesia in espedienti per l'allegoria. La ricerca a cui noi miriamo è sempre una ricerca di elementi poetici; e la conoscenza di tante dottrinali allegorie vale a farci approfondire il senso e il tono della parola poetica. Le figurazioni artistiche e religiose in cui la fede cristiana in dodici secoli espresse plasticamente la visione della vita oltremondana, avevano fatto della cosiddetta allegoria un linguaggio proprio e diretto: i racconti e i viaggi nel regno dei morti, da tutte le fonti cristiane e pagane affluivano allo spirito di Dante per assumer un nuovo significato poetico.

Le visioni dell'Apocalisse di San Giovanni; la lettera di San Paolo ai Corinzi in cui raccontò d'essere stato ratto insino al terzo cielo, ove udì arcane parole che all'uomo non è dato favellare; tutti i racconti che di. quella Visio Pauli s'ebbero più tardi, e per esempio nel secolo XI, con ogni particolare sul viaggio oltremondano tra i reprobi dell'inferno (ove Belzebù ha in bocca i dannati), e tra i beati del cielo; le fantasiose orride visioni d'Irlanda, come la Navigatio Sancti Brandani all'Isola Perduta che le mappe medievali segnano con precisione geografica nell'Atlantico, non lungi dalle Canarie; il pozzo rivelato dal Signore a San Patrizio (il Purgatorio di San Patrizio), ove poi Owen discese e conobbe la bocca dell'Inferno, per passar poi su per un ponte al Paradiso deliciano o terrestre; la Visio Tungdali con l'Inferno, e il muro e il prato del Purgatorio, e poi il Paradiso: le più varie visioni con le quali i cristiani elaborano l'immagine corporea dell'oltretomba, lino a quella di Frate Alberico che popolò l'Inferno di spaventosissime pene, confluiscono, per vie segrete o consapevoli, nella Commedia e vi si affinano sino alla classica pienezza dell'arte. Dico secondo quell'arte latina che gli aveva fatto conoscere l'omerico approdo di Ulisse all'Erebo, la Via Lattea del ciceroniano Sogno di Scipione ove son beati gli uomini che giovarono all'umana civiltà; sopra tutto il viaggio di Enea nell'Averno qual è narrato da Virgilio nell'Eneide, e quale Dante medesimo ricorda insieme al rapimento di San Paolo al cielo (« Io non Enea, io non Paolo sono »).

Anche le arti figurative avevano, per così dire, sciolte le allegorie, popolando le chiese di affreschi in cui la rivelazione del mondo delle anime dopo la morte dei corpi era narrata e fatta concreta nei modi del colore: con ingenua terribilità era rappresentato il giudizio universale con Cristo giudice; e a fianco del Signore la Vergine Maria, l'eterno femminino religioso, cinta dalla rosa dei beati. Le arti avevan già solidificati i simboli cristiani, avevan dato figura ad angeli e demoni, e alle anime umane separate dal corpo una figura come di luce e d'eco. Anzi, tra l'arte di Dante che soprattutto nel Paradiso lavorò figure il cui corpo era solo un rilievo di luce, e l'arte dei pittori trecenteschi, si istituisce una spontanea affinità. Un medesimo estro sembra ispirare le preganti figure di Giotto, espresse nel disegno e nel colore, e le figure che Dante disegnò in una parola che tende per vie musicali alla luce. E affreschi veri e propri, figurati mediante suoni vocali, ma il cui senso emotivo non può esser per noi che un accordo di colori, splendono nel Paradiso dantesco; ed hanno non soltanto il medesimo gesto delle figure di Giotto ch'è nel rito cattolico, ma una medesima tenerezza d'arte.

Francesco Flora

© 2009 - Luigi De Bellis