La realtà terrena della "Commedia"
Il Chimenz, preoccupato di evitare alla Commedia
interpretazioni che eccessivamente ne sottolineino l'aspetto
mistico e ascetico, indica come sia costantemente presente
da parte di Dante un'attenzione fervida e appassionata alla
realtà terrena, cosí intensa da non venir meno neppure in
mezzo alle più alte contemplazioni dell'Empireo.
Dante è la prima grande personalità dell'età moderna, che,
pur conservando profondissimo il sentimento di ogni
credente, che la meta finale cui l'uomo deve tendere è il
Cielo, abbia reintegrato, contro il pensiero e sentimento
ascetico medievale, con costante ragionata piena
consapevolezza, la nobiltà-e dignità dell'uomo e della vita
umana, per l'alta considerazione in cui tenne l'intelletto
umano e l'opera che l'uomo è chiamato ad attuare sulla
terra. Basti pensare all'esaltazione ch'egli fece della
virtù umana, non solo ammettendo nel Limbo, contro
l'opinione di san Tommaso e la costante tradizione della
Chiesa romana, le anime degl'Infedeli virtuosi, ma creando
addirittura per quelli tra essi che per l'eccellenza nel
campo del sapere o dell'azione si erano resi benemeriti
dell'umanità (perfino musulmani, il che è ancora più grave
dal punto di vista dell'ortodossia cattolica), un nobile e
luminoso castello, una sorta di Elisio pagano, che gli sarà
rimproverato da sant'Antonino come contrario alla fede. Per
questo sentimento della dignità ed eccellenza dell'uomo,
Dante si stacca nettamente dal Medioevo, e si avvicina al
mondo classico assai piú che non il Petrarca. Egli ebbe
fermissima e profonda la convinzione, ch'era stata già dei
filosofi antichi e sarà di Giannozzo Manetti, di Pico della
Mirandola e, in generale di tutto l'Umanesimo, che l'uomo è
«divino animale» perché dotato della ragione che lo fa
partecipe della «divina natura», e può essere «tanto nobile
e di sí alta condizione che quasi non sia altro che angelo»,
«quasi... un altro Iddio incarnato» (Cono. III, II, 14; III,
VII, 6; IV, XXI, 10); e che perciò, «operando secondo le
virtú morali e intellettuali», dietro la guida della
filosofia, può conseguire la felicità terrestre, che
consiste appunto nell'acquisto del sapere e nell'esercizio
delle virtú. A due fini, infatti, secondo Dante, l'uomo è
stato ordinato da Dio: non alla sola felicità celeste, dopo
la morte, come per gli asceti, ma anche, prima, a quella
terrestre (Mon. III, XVI, 6-8). Prima che Beatrice conduca
Dante alla beatitudine del Paradiso, Virgilio, cioè la
filosofia naturale che indirizza l'uomo all'esercizio delle
virtú morali e intellettuali, lo condurrà alla « beatitudine
di questa vita », al Paradiso terrestre, che appunto tale
beatitudine raffigura (ibidem). Dante non poteva estraniarsi
dal mondo, ripudiare la vita attiva per isolarsi nella
contemplazione dell'eterno, perché egli era dotato di un
temperamento ricco di passioni e pronto a reagire
gagliardamente a tutte le sollecitazioni del mondo esterno,
e, insieme con l'avidità di sapere di cui si è già detto,
aveva una molteplicità e vastità di interessi umani quasi
senza limiti; sicché in lui non meno vivo del sentimento
dell'eterno era il sentimento della missione che l'uomo è
chiamato a compiere sulla terrà, come individuo e come
membro della società: missione che può compendiarsi nelle
parole del suo Ulisse: «divenir del mondo esperto / e de li
vizi umani e del valore» e «seguir virtute e canoscenza».
Contro la svalutazione e la condanna e il disprezzo
ascetici, egli riconobbe come naturale e giusto il misurato
amore alle cose terrene; ed esaltò la magnanimità delle
azioni, le fatiche e i frutti dell'ingegno, in tutti i
campi, gli affetti familiari, l'amicizia, insomma tutto ciò
che di bello, di buono, di nobile c'è nella vita. Quel suo
terribile e quasi continuo sdegno per la corruzione e la
decadenza di ogni valore umano e civile ai suoi tempi è cosa
ben diversa dal disprezzo del mondo da parte degli scrittori
ascetici: è, anzi, la magnanima riprova del suo alto
apprezzamento di quei valori, di cui propugnava ed
affrettava, con la rampogna e col desiderio, la
restaurazione, ch'egli credeva immancabile e vicina, perché
senza quei valori la vita terrena perde il suo pregio,
tradisce la missione impostale da Dio. E aspirò apertamente
e con tutta l'anima alla gloria terrena, non, quella,
s'intende, effimera del successo e del plauso del volgo, ma
quella vera e duratura che il giudizio severo dei posteri
conferisce e sancisce agli animi generosi, ai grandi
intelletti: di essa si preoccuperà perfino in Paradiso, e -
ciò che è ancora più significativo - non ne sarà affatto
rimproverato dal beato a cui confessa questa sua
preoccupazione tutta terrena, come di sentimento
sconveniente là dove ogni affetto e desiderio dovrebbe
essere rivolto solo a Dio. Sta di fatto che neppure
l'esperienza paradisiaca riesce a far staccare l'anima di
Dante dagl'interessi mondani ed a tenerla concentrata e
assorbita, come dovrebbe essere, solo nella contemplazione
dell'eterno e nell'amore di Dio. Già si è notato il suo
tutto umano compiacimento per la nobiltà della sua famiglia,
laddove ci saremmo aspettati, da parte sua, una religiosa
commozione ed esaltazione, quando egli apprende che il suo
trisavolo era morto combattendo per la fede. Parimenti, dal
punto di vista strettamente religioso, sorprenderà che, dopo
ch'egli ha ricevuto una simbolica incoronazione nientemeno
da san Pietro, in segno di approvazione per la sua
professione di fede, il suo cuore voli improvvisamente dal
Paradiso a Firenze, pieno di nostalgia del «bello ovile», ov'egli
aveva dormito agnello, e di amarezza per l'ingiustizia che
lo tiene, innocente, fuori di esso, quasi abbia più cara
dell'ideale incoronazione in Paradiso quella a cui egli
aspira con tutta l'anima nel suo «bel san Giovanni»: moto
umanissimo del cuore (e, poeticamente, un ex abrupto
stupendo, forse il più solennemente appassionato di tutto il
poema: «Se mai continga...» [Par. XXV, 1 segg. ] ), ma
troppo terreno per un pellegrino del cielo, che già ha avuto
una prima visione di Cristo e di Maria, e ora è a colloquio
con gli Apostoli ed è prossimo alla visione di Dio. La
verità è che Dante nel Paradiso portò immutati i suoi
affetti e interessi terreni; e il sentimento di distacco
dalla terra, che naturalmente non può non affiorare qua e là
nella terza cantica, è soprattutto intellettualmente intuíto
come condizione essenziale alla vita di Paradiso, ma non
scaturisce dal più profondo del suo cuore, non rispecchia
un'effettiva condizione d'essere della sua anima: è più
vagheggiato che posseduto. Il suo sorriso per il «vil
sembiante» che la terra mostra dall'alto dei cieli (Par.
XXII, 134-138) è soprattutto una reminiscenza
letterario-filosofica, sapientemente utilizzata a
conclusione di un canto in cui gli accenti poetici più vivi
sono quelli che esprimono i suoi persistenti interessi per
la vita di questa «aiuola che ci fa tanto feroci», e che,
invece, dovrebbe essere campo per l'esercizio delle virtú e
dell'ingegno: sono, infatti, prima, lo sdegno contro la
corruzione e l'avidità di ricchezze degli ordini monastici,
poi, la franca affermazione dell'alto ingegno che natura gli
aveva dato. Anche gli aspetti, diciamo, deteriori del suo
carattere appaiono immutati per tutto il viaggio, tanto
prepotenti e indomabili erano in lui le passioni terrene.
«Odio e amor» - potremmo dire col poeta maremmano - mai non
s'addormirono nel petto di Dante credente, allo stesso modo
che nel petto del non credente Carducci. La sua fermissima
fede cattolica gli risolse, sul piano trascendentale, le
inquietudini dell'intelletto, ma non valse a pacificargli il
cuore: le virtú specificamente cristiane, che avrebbero
potuto pacificarlo - il perdono delle offese ricevute,
l'accettazione del dolore come pegno di premio celeste, la
rassegnazione, l'umiltà di spirito, gli furono sconosciute.
I suoi nemici personali o semplicemente gli avversari delle
sue ideologie non tralasciò occasione per colpirli. Nel
Convivio (IV, XIV, 11), contro i sostenitori di un'opinione
erronea intorno alla nobiltà scrisse addirittura che
«rispondere si vorrebbe non con le parole, ma col coltello,
a tanta bestialitade». Troppe volte la Commedia riflette
atteggiamenti così violenti e vendicativi da doversi
convenire che il verbo evangelico poco o nulla influì sul
temperamento passionale dell'uomo Dante. Si pensi alle sue
terribili imprecazioni: contro Pisa, che vorrebbe sommersa
nell'Arno con tutti gli abitanti (Inf. XXXIII, 79-84),
contro i Genovesi, che vorrebbe cancellati dalla faccia
della terra (Inf. XXXIII, 151-153); si pensi al desiderio e
alla gioia crudele di veder fare strazio di Filippo Argenti
(Inf. VIII, 52-60), alla ferocia con cui strappa i capelli a
Bocca degli Abati (Inf. XXXII, 97-105). Vero è - diciamo
subito - che la violenza vendicativa di Dante non appare mai
come sfogo, che sarebbe ripugnante, di astio e vendetta
personale, ma come reazione del sentimento di giustizia
offeso, anche se talvolta l'eccesso della reazione (come nel
caso di Filippo Argenti) non risulta bene giustificato e
suscita nel lettore qualche perplessità; ma certo egli
dimostrò di possedere più la violenza dell'odio biblico che
non la misericordia evangelica. Del verbo evangelico solo
l'esaltazione della povertà trovò un'eco viva in lui, ma
soprattutto in funzione polemica contro l'avidità degli
ecclesiastici. Anche la sua incrollabile fiducia nella
giustizia e provvidenza divina non valse a placarlo: gli
sembrava troppo lenta a punire o a portare rimedio, tanta
era l'urgenza della sua passione terrena; e giunge a gridare
a Dio, nel Purgatorio: «Son li giusti occhi tuoi rivolti
altrove?», e nel Paradiso, per bocca di san Pietro: «O
difesa di Dio, perché pur giaci?». Gli mancò quel confidente
abbandono nella volontà di Dio, in cui il comune credente
trova la quotidiana pace del cuore, la rassegnazione e il
conforto nelle traversie della vita. Ma il «paradosso», come
è stato felicemente detto, del Paradiso dantesco è che
atteggiamenti terreni sussistono non solo nell'animo del
poeta, ma negli stessi beati; i quali, malgrado la loro
tante volte proclamata immutabile felicità celeste e
l'ininterrotta fruizione della visione beatifica di Dio, di
fatto non distolgono gli occhi dalle triste vicende della
terra, e ciascuno, nella sfera degl'interessi che ebbe da
vivo, rampogna, si addolora, minaccia, si sdegna: per santo
zelo, s'intende, ma non diverso da quello di Dante, perfino
nell'asprezza dei termini in cui è espresso: san Pietro dice
«cloaca» e «puzza», e Beatrice «porci», come Dante
«puttaneggiare». Le ultime parole che Beatrice pronunzia e
addirittura nell'Empireo! - sono una lode accorata di Arrigo
VII e una condanna sprezzante di Clemente V e Bonifazio VIII.
Nulla più chiaramente di questa paradossale sopravvivenza
dell'umano e del transeunte nel Cielo e nell'eternità
potrebbe dimostrare quanto alieni dall'anima di Dante
fossero misticismo e ascetismo, e quale veramente sia lo
spirito che anima la Commedia. |