IL
DECADENTISMO ITALIANO
Abbiamo rapidamente visto che senso si debba dare in uno
studio di questo genere alla parola poetica (intenzioni,
modi cari al cuore del poeta, precetti che egli potrebbe
staccare da sé in veste di maestro, contributo della sua
intellettualità alla immediatezza della sua sensibilità)
e come sia utile parlare, in uno studio sul decadentismo
più di poetica che di poesia. Infatti l'esame della
nuova poetica isola il decadentismo più profondamente
che una pura valutazione estetica delle singole
personalità, e lo vede più che nelle «nature», nella
mentalità generale, in ciò che forma il suo clima.
Abbiamo determinato così i limiti dell'espressione
«decadentismo», svalutando ogni posizione di condanna ed
ogni confusione con «decadenza» in genere, e con
«decadenza di romanticismo» in particolare, e affermando
come. essenziale per questo studio una posizione storica
che accolga il decadentismo nella stessa maniera con cui
viene accolta l'espressione «romanticismo»: cioè come
periodo storico individuato da certi speciali caratteri.
I quali, in sostanza, si riducono ad un contemporaneo
approfondimento del mondo e dell'io fino alla scoperta
di un regno metempirico e metaspirituale, da cui le cose
e le personalità germogliano con un senso nuovo, con
un'anima nuova. Da questa rivelazione di un nuovo senso
della vita nasce una poetica che abbiamo articolato nei
vari caratteri comuni ai singoli artisti, e che consiste
soprattutto nella ricerca della musica come mezzo di
conoscenza sopralogica, mistica. Misticismo,
rivelazione, suggestione, evocazione sono infatti le
parole che il critico è necessitato ad adoperare nel
riprodurre le linee, i connotati di questa poetica.
La nuova mentalità si è formata lentamente dal
preromanticismo in poi, attraverso certi lati mistici, e
il contributo di alcuni particolari romanticismi (quello
di Novalis, o Keats, o Poe), fino a manifestarsi
chiaramente, nella metà dell'ottocento, con quelli che
possiamo chiamare i padri del decadentismo (Wagner,
Schopenhauer, Nietzsche, Poe, Baudelaire), e a prendere
completa coscienza nella Francia post-baudelairiana di
Rimbaud, Verlaine, Mallarmé.
Dalla Francia il decadentismo si riespande maggiormente
nelle nazioni che, come l'Inghilterra, erano già
preparate per conto loro, e in quelle che, come
l'Italia, erano scarsamente europee e fortemente
tradizionali.
L'Italia si trova in una posizione specialissima
rispetto alla Francia, all'Inghilterra, alla Germania,
in quanto che manca di un diffuso e sfrenato
romanticismo, di tentativi romantici che possano
paragonarsi a quelli di un Novalis o di un Coleridge.
Manca di uno sfogo romantico, di una tradizione
d'avventura e di rivolta, di cui i nuovi poeti potessero
valersi. D'altra parte nella letteratura italiana era
tenacissima una tradizione secolare, riportabile a quel
letterato superiore che fu il Petrarca, che il
romanticismo non riuscì ancora a spezzare se la
ritroviamo nella sua ultima e più intensa applicazione
nella poesia del Leopardi. Questa tradizione aulica,
decorosa non era più sentita dal di dentro, e pesava
oppressiva, non amata e pur patita sui poeti del secondo
ottocento. In tutti, più o meno, c'è la volontà di
novità e l'insofferenza della tradizione, ma si tratta
più che altro, appunto, di velleità, non di consapevoli
superamenti. Spiccano, fra tutti gli incerti ribelli,
gli « scapigliati », i quali, per primi, si accostano
anche alle nuove correnti straniere, a Baudelaire
soprattutto, ed assumono, per primi, atteggiamenti
pratici di impronta goffamente decadente. Perché, per
mancanza di maturità, tutti i predannunziani si limitano
a volere il nuovo, a fiutare, senza capirli, gli
stranieri, e, in sostanza, a ribellarsi alla tradizione,
equivocando contenutisticamente sul decoroso classico e
sulla libertà moderna. E non hanno quindi che
negativamente un senso rivoluzionario, sì che ricadono
di continuo nei più ingenui romanticismi e negli schemi
tradizionali malamente stravolti. Tanto che questo
periodo di transizione può chiamarsi il periodo del
brutto.
In tutti è chiaro il dissidio irrisolto fra i residui
del passato e l'aspiraziorie al nuovo, e in tutti si
sente, man mano che ci si avvicina a D'Annunzio, un
progressivo accentuarsi di tono decadente, un
concretarsi teorico e pratico del bisogno musicale come
degli atteggiamenti, delle situazioni più propriamente
decadenti.
Che posto occupa il Carducci in questa evoluzione della
nostra letteratura? Si sarebbe tentati di dargli un
valore tra di Hugo e del «Parnasse», facendone così un
anello della nostra storia (come tentò il Petrini), ma,
a ragion veduta, sentiamo la necessità di isolarlo e di
riattaccarlo sempre più al romanticismo che non al
nuovo, al decadentismo.
Perché nel suo solido mondo poetico mancano, se non si
vogliono cercare a bella posta dei frammenti falsando lo
spirito dell'insieme, spunti di una nuova sensibilità,
di una sensibilità che superi quella del romanticismo
italiano.
Il decadentismo italiano invece comincia con Gabriele
D'Annunzio e con Giovanni Pascoli. Ma bisogna subito
dire che, anche con questi due poeti, il decadentismo
italiano è ancora limitato, stretto in un'atmosfera
provinciale che si spezzerà davvero solo nel novecento.
Ad ogni modo, mentre prima non si poteva parlare di
vere, organiche poetiche decadenti, D'Annunzio e Pascoli
ci offrono due poetiche, che se mancano di quel
complesso intellettualismo che abbiamo osservato fra i
francesi, debbono pur dirsi sostanzialmente animate dal
nuovo spirito postromantico.
D'Annunzio importa più strettamente un contatto con la
letteratura straniera ampiamente sfruttata, mentre
Pascoli indica un decadentismo indigeno che prova la
diffusione lenta, ma sicura d'uno stesso spirito poetico
nelle varie letterature. La poetica di D'Annunzio,
chiara in tutte le sue opere, prende vari coloriti a
seconda delle sue vicinanze spirituali e dei tentativi
di evasione da se stesso, ed è poetica dell'orafo (Isotteo,
la Chimera), poetica del convalescente (Poema
paradisiaco), poetica del superuomo (i romanzi, le
tragedie), poetica dell'eroe e del martire (le opere
della guerra e del dopoguerra). Ma sostanzialmente sotto
queste varie poetiche, quella vera è una sola, nativa,
personale: la ricerca di una gioia nelle parole
trascinate in un canto che non è mai puro disinteresse
musicale, perché si incentra ed indugia continuamente
nelle parole rendendole significative come persone
viventi, carnali, e non come simboli di suggestione.
Poetica che trova la sua realizzazione perfetta solo una
volta: nella naturalità dell'Alcione.
Anche Pascoli, pur nella costante ricerca musicale,
accresciuta sempre più verso la fine in musica
esteriore, ha come centro della sua poetica
l'espressione delle cose nella loro immediatezza,
l'espressione delle cose come le vede un fanciullino,
con una magia naturale di impiccolimento delle grandi e
di ingrandimento delle piccole, e con un senso del
meraviglioso, del fiabesco che il filosofo farà
coincidere col gusto del primitivismo omerico.
Intrusioni moralistiche, umanitarie, intenzioni non
realizzate di rendere il mistero, l'ignoto, aggravano la
sua poetica fino a condurla alle peggiori cose della
maturità. Qui, come D'Annunzio, è proprio la mancanza
d'una vera intelligenza che fa viceversa accettare
elementi extrartistici ed intellettuali.
Il Pascoli dei Poemi Conviviali rientra nell'ambito del
Convito debosisiano e dell'estetismo, le cui
caratteristiche di ambigua ipervalutazione dell'arte si
ritrovano sia nel peggiore D'Annunzio, sia nel suo
teorico e fedele Angelo Conti.
La poetica degli estetizzanti, dopo un predominio alla
fine del secolo, capitò fra le mani di giovani smagati e
sottili che la spaccarono come una pura e semplice
retorica. Reagivano questi giovani poeti a D'Annnuzio e
a Pascoli, mentre riprendevano in realtà l'uno e
l'altro, specialmente il Pascoli delle piccole cose, il
poeta del particolare umile, della realtà quotidiana.
Sentivano anche la vicinanza dei decadenti verlainiani (Jammes
soprattutto) e ne confortavano una poetica del
quotidiano spassionato, che diventerà poi la retorica di
un'uggia estremamente psicologica.
Come i crepuscolari, così da eredità dannunziane e
pascoliane (energica riproduzione della realtà nella sua
immediatezza più fugace) e da conoscenze francesi,
nacquero i futuristi, che presentano, se originali,
varietà tali da escludere una poetica comune, o restano
puri e semplici imitatori del solo loro poeta:
Marinetti, la cui poesia è realizzata proprio nei
«Manifesti» del futurismo, cioè nella esposizione della
sua poetica. La quale consiste nel gareggiare con la
velocità della vita moderna, e nell'impazzire
spasmodicamente in un uso secentista delle analogie. Con
i futuristi si chiude il primo decadentismo italiano, si
esaurisce il periodo delle imitazioni e dell'europeizzamento.
La Voce, il sorgere dei nuovi poeti che hanno assimilato
e quindi superato i fondamenti teorici delle poetiche
decadenti francesi, segnano un periodo poetico distinto,
di creazione più conscia ed europea. |