MUSICA E PAROLA IN D'ANNUNZIO
Qual'è dunque la sostanza poetica dannunziana? È la
musica del senso nelle sue mutazioni di Natura e
Femmina, nata su quella medesima materia che spesso
turba il poeta e lo tira a piombo nell'oratoria e nella
polemica. «La musica é come il sogno del silenzio» dice
il poeta, e qui, nella malinconia del canto, è il sogno
del silenzio lussurioso, o la musica del sogno carnale.
Talora la genialità stilistica del D'Annunzio è una
immersione nella Parola che è «in principio» (O poeta,
divina é la parola), nel senso universale della parola
che è all'origine della natura. È questo uno degli
affetti e dei sentimenti più genuini in lui e quando
egli li esprime sa compiere eletta poesia. Cosa importa
che egli «uomo» si diletti di immagini, epiteti esatti,
metafore, armonie ricercate, squisite combinazioni di
iati e di dieresi, ecc. ? Se questo dilettantismo il
poeta fa diventar materia del suo affetto, egli avrà
compiuta arte, come bene gli avviene talvolta nell'Isotteo
e la Chimera o nel Piacere. I critici, se noi non
c'inganniamo, si fanno tradire da un vieto concetto che
questo amore della parola non possa diventar materia
poetica, forse perché spesso il D'Annunzio ne fu vittima
ed anche nell'esprimerlo vi soggiaceva compiacendosi. O
forse anche perché la parola fu intesa come suono, non
come musica soprasensibile, tutta ideale e rapita, ma
suono che diletta l'orecchio, simile alle carezze.
Si dice talvolta ch'egli è vuoto d'ogni contenuto che
non sia la Parola. Sta bene. Ma questa parola è il suo
contenuto: una vivente sua commozione è quella
d'esprimere, esprimere per esprimere: e talora anche la
morale del poeta è il puro eterno musicale della Parola,
una religione dello spirito, poiché non per nulla in
principio era il Verbo. D'Annunzio talora ha per
contenuto il sentimento stesso della parola: e la parola
ha il senso primigenio e barbarico della vita,
l'immediatezza della vita che si compiace di questa sua
natività. Esprimere: dice D'Annunzio: e questo esprimere
è la parola della parola: è il gusto, l'attività
dell'esprimere in sé stesso, vale a dire l'armonia
sensuale delle cose, la sostanza sensuale del mondo, il
Verbo lirico. Ebbene, in poesia cos'è questo contenuto
se non la Musica?
L'invenzione di alcune belle forme, di alcuni modi
suadenti, ha fatto credere a tutti che D'Annunzio fosse
l'immaginifico per eccellenza; ma le immagini
dannunziane non sono affatto ricche: hanno un'apparenza
vistosa, ma sono sobrie intimamente anche dal punto di
vista della sensualità elementare. E del resto le vere
immagini son tutte cariche di una profondità che noi
chiamiamo di cultura, cioè esperienza viva di pensiero
filtrato nella serie del tempo e dello spazio.
D'Annunzio non ha grandi capacità analogiche per la
metafora e la similitudine; tuttavia manca a lui talora
quella sensività che traduce l'uno nell'altro i sensi e
crea lo svolgimento musicale dei rapporti tra le
sensazioni fuggitive, il ritmo schiarito dei sensi.
L'immagine dannunziana, la quale si svolge assai spesso
nei rapporti della tradizione italiana che noi ci
ostiniamo a chiamare petrarchesca, non ignora dunque qua
e là quella callida junctura che è il proprio
dell'immagine dantesca, e la riposta ragione di ogni
poesia, il trapasso analogico da un senso all'altro in
armoniosa fusione. Una delle maggiori scoperte di
estetica è la unificazione dei cinque sensi nelle arti,
la loro fusione in un elemento che può chiamarsi Musica.
Questa scoperta era matura per il senso dell'arte
d'oggi, la quale si differenzia nel tono da quella
antica (sia detto con infinita discrezione) come
capacità di trapassi analogici, che ai cervelli pigri,
privi cioè di larghe esperienze sensibili, sembrano
arbitrari. Le cose più remote possono aver coerenza
analogica, quando sian veramente sentite (e ciò,
s'intende, per diretta partecipazione sintetica di uomo
a uomo) in un tempo in cui la metafora deve considerarsi
come l'espressione magica del mutarsi eterno di una cosa
in un'altra, sicché la similitudine è solo trapasso e
metamorfosi, e quasi metempsicosi.
Quando D'Annunzio sente il principio qui espresso dirà
per esempio:
«una solitudine lontana come una ricordanza musicale,
fatta di segni e d'intervalli costanti». E qui non c'è
una schietta fusione, ma assai suggestivo quel tempo
musicale fatto campagna e solitudine. Ma quando
scriverà: «sentivamo sofrire le loro voci», quel
patimento delle voci, tolto analogicamente alla capacità
umana di soffrire, è cosa sensibilissima e toccante
rischiarata in lirica...
La musicalità è il tono fuso dominante della poesia
dannunziana: la musica è veramente lo «spirito» del
senso dannunziano. Così le persone e le cose son modi
lirici di musica, quand'egli le doma: restano musica
grezza, e cioè senso, quando egli non le vince.
Ma anche in un più rigido significato si può parlare di
musica e di metro. A parte le poesie legate dannunziane,
di solito la prosa del poeta ha un ritmo che si può
scandire in versi, i quali nativamente risaltano nella
loro costituzione di accenti, in arsi e tesi, e sono il
modo stesso musicale del discorso ad alta tensione
melica. Non si tratta di versi arbitrariamente staccati,
da qualsiasi punto, e con parole che non hanno né un
compiuto significato né la giusta accentuazione di
pronunzia: ché allora troppi prosatori creerebbero degli
endecasillabi. Son nodi melodici che non possono
sfuggire e non è capriccio da parte nostra segnare: son
colti sempre dopo una pausa di senso e di voce nel
naturale ritmo del periodo sintattico. Questi versi nati
in una calura recitativa e cantata, che è propria di
tutta la prosa dannunziana, si sentono nelle loro
cadenze...
Quasi tutto Alcione è musica: bisogna giudicare per
andanti, adagio, allegretto, sostenuto e così via: per
desiderio e non per realtà. Ed appunto per questa
essenza melodica si notano qui più che altrove le
dissonanze e noi non diremo, per recare un primo
significativo esempio, che il trapasso
dall'endecasillabo al verso di tredici sillabe sia
musicalmente esatto nella Sera fiesolana. E per ragioni
musicali disturba l'arcaismo voluto perfino delle parole
Laude, Laudato, ecc. Ma guai a criticare l'Alcione come
in genere tutti i libri dannunziani coi criteri notarili
della verosimiglianza e della nettezza delle immagini:
non esistono in nessun poeta immagini nette e nitide,
cioè ferme e pietrificate (anche il marmo è vivente
nelle statue) perché le immagini son mobili, d'aria
mossa, di zeffiro, di respiro. La musica ha una
semplicità che si conquista: e i rapporti lontani dei
paragoni bisogna saperli cogliere: una sinfonia di
Beethoven è un paragone poetico, tutto cioè un tessuto
di analogie per ogni senso. Di solito quando si parla
d'immagini e fantasmi limpidi ci si fa schiavi di
termini statici; ma ogni visione è rapporto con la
nostra personalità, e solo in noi può farsi chiara.
Bisogna molto insistere sui rapporti musicali...
La massima realizzazione verbale di questa musicalità è
quella che esprime nell'Alcione il mito della femmina e
della natura in reciproca trasmutazione. In questo
reciproco influsso di natura e donna, che formano
magicamente gli aspetti della Lussuria dannunziana, si
devono trovare gli spiriti del mito, in cima al quale,
come in un ritorno al creatore, c'è la trasformazione
del poeta stesso in una Femmina...
Dove meglio la musica si costruisce, è nell'Oleandro,
che noi crediamo la più genuina espressione del
temperamento dannunziano. Movendo da un affetto tutto
sensuale in cui la femmina e la natura sono un solo
anelito, il poeta canta liricamente dell'una nell'altra.
È un simbolo: passaggio dalla sensualità riflessa alla
natura che è ingenuamente sensuale. Altre, e tra le più
famose poesie dell'Alcione, quelle dai versetti
brevissimi e le rime frequenti, possono ispirare una
certa diffidenza, quasi siano talora un sacrificio alla
pura e semplice bravura fonica; in questo Oleandro tutti
i principali motivi dannunziani si armonizzano, e il
panismo analogico, che aveva avuto ben presto il suo
primo accento già in Terra vergine, si dispiega nella
sua vera sostanza lirica. Che cos'è infatti il panismo
innocente, se non proprio la coscienza sensuale del
trapasso delle cose l'una nell'altra? Or questo panismo
non solo si fa canoro, ma si costruisce in un vero e
proprio pensiero melodico, in un vero logos lirico. La
conversione della femmina in natura è il mito supremo
della trasformazione panica delle cose, e D'Annunzio per
istinto ed esperienza di poesia lo ha colto ed espresso.
La natura di Terra vergine e di Canto novo, la
femminilità malata ma pure tenera di certe creature
nelle quali la bontà malinconica è sinonimo di bellezza
desiderabile, la femminilità tutta canora delle tre
vergini o della Sirenetta di Gioconda qui si ritrovano
in trascrizione di pura musica. E come la donna ha qui
perduto il fortore del sesso che invita, per un
rapimento melodico, così la natura che fu detta femmina
lussuriosa, qui si sublima purificandosi in uno
splendore numeroso: perché l'alloro qui nato è
null'altro che la dolcezza unica e languida di una
donna, ma questa donna s'è fatta simbolo e metafora.
Così tutto il mondo in una trasformazione divina diventa
femmina musicale: la dolcezza, la malinconia, il dolore,
il desiderio del mondo son succo femminile, ma in una
sorrisa spiritualità. E chi ciò non sa vedere, questa
diffusione della essenza femminile nei più puri versi
dannunziani, non intenderà mai come la sessualità possa
filtrarsi in musica e costruirsi in poesia. E non
intende D'Annunzio chi non sa vedere contro luce, la
femmina velata, e come un sorriso, uno sguardo, un
profilo, un profumo, un ricordo di donna entrino e si
diffondano nelle poesie che più sembrano lontane dalla
sessualità. |