CREPUSCOLARI E FUTURISTI
I crepuscolari hanno per loro vicini immediati i
futuristi, da cui, ad un esame superficiale, sembra
dividerli un abisso. In realtà futuristi e crepuscolari
non sono che uno stesso momento spirituale svolto in due
maniere psicologicamente diverse: da una parte, poetica
delle piccole cose quotidiane, e quindi scoratezza e
rinunzia; dall'altra, poetica del dinamico, del
violento, prepotente accettazione della realtà:
predominio in ambedue i casi della più grezza
psicologia, tentativo sentimentale, volitivo, e solo
mediatamente artistico.
Mentre i crepuscolari sembrano voler scontare la
lussuria vittoriosa di D'Annunzio, i futuristi la
riprendono e la moltiplicano freneticamente. Si
riannodano come i crepuscolari al Bettelom, ai veristi,
agli scrittori di prosa lombardi, e soprattutto alla
strana figura di G. P. Lucini, letterato mediocre, poeta
polemico, propugnatore del verso libero.
Naturalmente di fronte al caos di Lucivi i futuristi
respirano già un'altra aria, e si avvantaggiano di una
nuova civiltà indigena, che permette ormai anche una
migliore comprensione della maturità decadente francese.
È proprio un decadente francese, un irregolare della
poesia simbolista, Jules Laforgue, che ci offre il ponte
di passaggio fra crepuscolari e futuristi e ci inizia
alla formazione di questi ultimi. L'atteggiamento
laforguiano (quella che si chiama comunemente la sua
ironia metafisica) incise sulla poetica di tutti i
crepuscolari più scaltri, e soprattutto su Aldo
Palazzeschi, che si trovò poi a militare nelle file dei
futuristi proprio per il suo tono lontanamente
laforguiano e per la possibilità di ironia estremamente
intellettuale, datagli dal linguaggio futurista.
Egli è solamente la coscienza riflessa, e perciò
superatrice, del crepuscolarismo, che disgrega con il
suo senso quasi parodistico del prosastico:
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Salisci, mia Diana, salisci,
salisci codesto scalino,
salisci, non vedi è bassino,
bassino, bassino, salisci. |
Corazzini aveva detto: «Io non sono un poeta;... Io non
sono che un piccolo fanciullo che piange», definendo la
sua posizione schiettamente crepuscolare; Palazzeschi
dice: «Son forse un poeta? No certo... Son dunque un
pittore? Neanche... Son dunque che cosa? Io metto una
lente - davanti al mio cuore - per farlo vedere alla
gente. Chi sono? Il saltimbanco dell'anima mia». Il
fanciullo è stato sostituito dal saltimbanco, che ne è
come la coscienza ironica.
Nella famosa «Passeggiata», la poetica dei crepuscolari
che sfruttava i nomi, le tiritere delle cose banali,
arriva ad una disgregazione della costruzione, che,
animata da un diverso spirito, sembrerebbe futurista. I
futuristi infatti non sognarono sempre un diluvio di
parole, che adeguasse la nuova realtà. E sono perciò
anch'essi sulla scia del Pascoli e del D'Annunzio, e si
trovano, come sentimento della parola, alla pari dei
crepuscolari. La volontà di rinnovamento si riduce
dunque sostanzialmente all'impostazione di una nuova
psicologia: la psicologia dell'uomo moderno, della
civiltà meccanica, dell'ultimo prodotto del nietszchismo,
del pragmatismo, del dannunzianesimo.
Si avvantaggiano, senza darlo a vedere, di certe
conquiste filosofiche come quella crociana e bergsoniana
(intuizione, immediatezza del linguaggio)
brutalizzandole ed inserendole in una visione della vita
caotica, materialistica, infantile. Per romperla con la
tradizione, sentono il bisogno di spaccare i capolavori
dell'antichità, e per reagire all'accademia, diventano
un continuo paradosso culturale.
Il loro risultato è perciò soprattutto notevole nel
campo sociale e largamente culturale (esasperazione
estrema dell'identità arte-vita) ma nel campo
specificamente estetico la loro novità è superficiale,
limitata vistosa se si guarda alle audacie, meschina se
si guarda alla forza poetica che c'era dietro quegli
schiamazzi. Ché spesso in questi poeti, fra tante cose
(volontà, egotismo, materialismo quasi mistico) non c'è
che un briciolo minimo di poesia. «Et tout le reste» non
è neppure letteratura, ma sfogo di bisogni
extraestetici.
Positivamente il futurismo ha finito la distruzione
della formazione retorica, - con una violenza in sé e
per sé cieca - del gusto ottocentesco, ed ha fatto
provare il sapore dell'anarchia ad una letteratura
saggia ed ordinata come la nostra. Il futurismo è stato
così uri po' il martire di un decadentismo in arretrato,
ha pagato per tutti, ha giovato negativamente a tutti.
II futurismo ha il valore di un'esperienza poco
profonda, ma intensa, di tendenze d'avanguardia che sono
state poi allontanate da quel potente antidoto...
La natura sensuale di questa poetica cerca infine il suo
massimo nella sovrabbondanza delle immagini (perciò
Govoni dovette piacere a Marinetti): «le immagini non
sono fiori da scegliere e cogliere con parsimonia come
diceva Voltaire».
E si potrebbe continuare a tirare le conseguenze
tecniche, i particolari costruttivi, che emanano da
questa poetica sensualistica. Ma a noi interessa aver
ribadito l'accento estremamente decadente della poetica
futurista e averla trovata, sotto spoglie diverse,
vicinissima alla poetica pascoliana, dannunziana,
crepuscolare. |