LA
POESIA DELLE MYRICAE
È un'arte tutta cose; le sue asperità son come le
asperità della campagna, dolci di grazia augusta; forti,
saporose come il pan casalingo. Ed è appunto quel ramo
di poesia pascoliana che il Carducci aveva capito e
prediligeva:
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Al cader delle foglie, alla massaia
non piange il vecchio cuor, come a noi grami;
ché d'arguti galletti ha piena l'aia. |
La sua profondità è come la profondità d'un silenzio
rurale. La mente inquieta non riesce dapprima a
distendersi in quel silenzio; ma quando un momento può
accordarsi a lui, esso le si riempie di una vita
complessa e prodigiosa. Così in queste poesie. Esse
fanno dapprima l'effetto di esser frammenti bruti di
cose:
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Un bubbolio lontano...
Rosseggia l'orizzonte
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare;
un'ala di gabbiano...
Cantava al buio d'aia in aia il gallo
E gracidò nel bosco la cornacchia:
il sole si mostrava a finestrelle.
Il sol dorò la nebbia della macchia,
poi si nascose; e piovve a catinelle.
Poi tra il cantare delle raganelle
guizzò sui campi un raggio lungo e giallo. |
La visione succede alla visione, come fuor di ogni
continuità organica, e l'effetto generale è prodotto
dall'intensità delle rappresentazioni particolari che si
riassociano e risuonano come casualmente nella
coscienza, più assai di quel che il poeta le abbia
coordinate in una vera rappresentazione. Perciò
quest'arte ha potuto esser ravvicinata
all'impressionismo. Ma non si sciupino bellezze così
pure e di così robusta asciuttezza, associandole a nomi
esosi. La poesia di Giovanni Pascoli è impressionista
come la poesia di Saffo e di Leopardi. Nei suoi momenti
più felici è gettata completamente e senza residuo negli
aspetti delle cose, mentre gli impressionisti, della
ricerca e della affermazione empirica delle cose, si
fanno un preteso sostituto alla povertà creatrice del
loro temperamento.
Lo sforzo immediato di quest'arte è certo il
conseguimento della maggiore intensità e verità
possibile in ogni visione particolare, e nella volontà
di raggiungere questa verità, ad ogni costo, è la causa
di quel non so che di saltante e di sconnesso, che è
tanto differente, nella sua sobrietà, dalla abitudine di
amplificazione verbale del Pascoli della maniera più
tarda. Ma i motivi che entrano ad uno ad uno nella
coscienza, come impressioni spogliate di ogni velleità
lirica, vi creano, è la vera parola, la loro lirica,
perché sono consanguinei, e possono l'un l'altro
riflettere nelle proprie sfaccettature la loro luce: si
ha, così, una lirica fatta di lampeggiamenti e di
sottintesi, di risonanze e di echi, di analogie profonde
che risaltano per virtù di rime che lontanamente si
intrecciano, più che per virtù di visioni espresse;
lirica della quale una strofa è come l'aspetto di una
campagna sotto il fiato opaco di una nube, e l'altra
strofa come l'aspetto di questa stessa campagna quando
il sole ha lacerato la cortina, sicché, mentre tutto è
rimasto uguale, tutto è indicibilmente cambiato; e si
sentono le stesse rime squillare ora come bronzo cupo
ora come argento tinnulo: una poesia imprevedibile, come
appunto un silenzio rurale che si può scavare,
percorrendolo per tutti i meandri, seguendolo per tutte
le sue voci più opache e segrete: il ronzo delle
cavallette, la gualchiera lontanissima, lo stormire
delle foglie, il rumore d'un'ala che batte; ma non si
può comporre, non si può organare, non si può
circoscrivere, perché risulta di mille accordi, è un po'
tutti e non è nessuna. Da ciò l'incorporeità complessiva
di questa poesia, mentre verso per verso le sue immagini
son le più evidenti che mai poeta abbia ideato. Da ciò
l'impossibilità, che è stata notata, di leggerla a voce
alta; come si può leggere e declamare un sonetto di
Foscolo o una strofa dannunziana; e il bisogno, a non
voler violentarla, di lasciarla quasi inconfessata
nell'anima, sospesa e tutta vibrante come quelle alghe
che tremolano volubili nell'acqua iridata dei fiumi.
Voler pronunziarla, voler darle quella sorta di vita
esteriore che è concessa ai canti di poeti anche assai
minori, ma d'altra tempera, è ucciderla, e lo dimostrano
i recitatori i quali sogliono inevitabilmente cadere sui
canti più dozzinali del Pascoli, su quelli ai quali si
può meglio simulare uno scheletro verbale, come La
cavallina storna, certi componimenti in terzine, ed
altri. Quando essa sale sulle labbra, si raffredda, si
intorpidisce, sembra rattrappirsi e svanire, appunto
come l'alga che, verde e palpitante nella umida
profondità, diventa non più che un piccolo grumo di
sostanza viscida e lugubre se la succidi e la vuoi
recare all'aria e al sole.
Comunque sia, nei momenti, diremo così, di predominante
oggettività, il Pascoli è straordinariamente luminoso e
felice, tanto che, perfino, si permette, e gli riesce,
quel comico al quale, come il D'Annunzio per un'altra
ragione, egli, generalmente, sembra negato. È, il suo,
un comico di una specie deliziosa e tutta particolare,
impregnato di lirismo, e non ha forse riscontro se non
in qualche lirico greco, o in certe soste fra
malinconiche e gentili del gran riso di Aristofane. Qui,
invece che soste di riso, più spesso sono soste di
dolore, ma l'attimo di fluida giocondità è simile. Si
ripensi per es. a quella delicata rappresentazione che
il Pascoli ha fatto nella Domenica dell'olivo d'una
psicologia festiva, per mezzo di una descrizione
zoologica, deliziosa per grazia intatta di serenità
tenuissima e insieme di commozione e di comicità.
Ma questa ispirazione non è, del resto, quella che
predomina, né quella nella quale il Pascoli è il gran
poeta che tutti sanno. È necessario che la voce del suo
dolore entri nel canto, ad approfondirlo e a dargli
risonanza. È necessario che lo spettacolo delle cose si
franga, davanti ai suoi occhi, e che l'ala molle e
agghiacciante del mistero, dell'ignoto, sfiori il suo
cuore. Allora ci troviamo veramente davanti ai suoi
capolavori. Si leggano le serie: Dall'alba al tramonto e
L'ultima passeggiata. Ivi l'impressione di una
malinconia che sboccia in vista di uno spettacolo
naturale, pur senza riuscire a impregnarlo tutto o a
distaccare l'anima da esso e a farla ripiegare su sé
medesima, è colta nella sua fuggevole sospensione, senza
code di auto-commenti e senza sistemazioni di cattivo
gusto, come quelle cui il Pascoli più tardi ci ha
abituati. Non si ode, in verità, distintamente la voce
del poeta a confidarci questa malinconia. Ma pare che
essa salga su e vapori da quelle voci sperdute nel
paese; e allora assume un sapore di ignoto che le si
confà meravigliosamente, come in quel piccolo gioiello
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LAVANDARE
Nel campo mezzo grigio
e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta,
come l'aratro in mezzo alla maggese... |
dove il canto delle donne ai lavatoi si mescola alla
malinconia della campagna come un segreto diffuso e non
pronunciato, che si dissimula e sottintende sé medesimo
in ogni aspetto delle cose; e mentre da ogni aspetto
sembra voler fiorire, in ognuno nuovamente si nasconde.
A volte questa significazione misteriosa, e diremo così
tragica, è fusa compattamente in una figurazione brutale
e indifferente, ed è inseparabile da essa; e per questa
inseparabilità è ancora più urgente e più efficace. Così
per es. in Quel giorno
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Or, nel silenzio del meriggio, urtare
là dentro odo una seggiola, una gonna
frusciar d'un tratto: alla finestra appare
curioso un gentil viso di donna. |
Il rumore brutale della seggiola smossa, che rompe il
silenzio meridiano, l'apparire del volto, son come
l'urto di mille possibilità gioconde che balenano ad un
tratto alla coscienza, nella domesticità di quel suono,
nell'apparire di quel viso, e si sprofondano
dolorosamente e si sperdono appena quel suono ha taciuto
e quel viso è scomparso.
In generale, i capolavori delle Myricae, e del Pascoli
in genere, vivono nella primitività di questi contatti,
di questi incroci; son brevi poesie nelle quali
l'ispirazione non si svolge drammaticamente, ma insiste
su sé medesima concentricamente, brilla in alcuni
riflessi, come gli increspamenti circolari di un'acqua
nella quale sia caduta una pietra. |