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IL REALISMO
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DON GESUALDO
La concezione verghiana della
vita si assomma nel personaggio
principale del Mastro-don
Gesualdo che, venendo dalla
miseria e passando da questa
alla borghesia e all'ambiente
aristocratico, riflette nella
sua storia psicologica e nelle
sue vicende l'atteggiamento
costante dello scrittore di
fronte a tutte le classi
sociali. Mastro-don Gesualdo è,
se non il più perfetto, il più
ricco carattere di Verga, e
rappresenta l'espressione ultima
della sua particolare visione
umana. È della stessa tempra di
nonno 'Ntoni, ma ha fatto
esperienze più varie; perciò la
sua storia ha una prospettiva
più multiforme. La pittura di
quel muratore arricchito è
ridondante, ma non così
insistente come quella del
vecchio Malavoglia, di cui
sentiamo troppo a lungo, se non
gli accenti di bontà profonda,
certo le sagge sentenze.
Spalle da sostenere tutta una
famiglia, cuore indurato alla
fatica della vita, animo
impenetrabile ai pettegolezzi,
parola spedita, pensiero netto,
disegno ostinato: così dura
mastro-don Gesualdo sin quando
lo colpisce la malattia mortale.
In questa figura palpita la
vitalità grandiosa e
instancabile dei più
caratteristici personaggi del
Balzac. Per questa figura il
Verga è, come lo scrittore
francese, un epico del romanzo:
ma egli ha temperato la
ridondanza di quei protagonisti
della Comédie humaíne.
In don Gesualdo culmina la
concezione virile che il Verga
ha della vita. Quel tenace
lavoratore ha un rude senso
della realtà, e non conosce
illusioni. La sua tristezza è
senza sfogo o si esaurisce in
un'esclamazione aspra. Egli
sopporta per tutta la vita
l'ingratitudine, le pretese, le
contumelie, i tradimenti della
famiglia: ha sempre dietro il
padre, la sorella, il cognato
che gli fanno cagnara e gli
rompono la testa e gli
attraversano la strada con ogni
astuzia, e aspetta per tutta la
vita che almeno la moglie gli si
affezioni davvero e lo
fiancheggi nella sua conquista,
che almeno la figlia riconosca e
compensi le sue fatiche.
La vita lo ha avvezzato a tutte
le amarezze: al lavoro senza
riposo, al beneficio senza
riconoscenza, alle congiure
della malignità e dell'invidia,
alla solitudine morale. Perciò
lotta senza lamenti e senza
abbattimenti, e guarda
l'avvenire senza sogni. Quando
la figlia va nel collegio di
Palermo, egli dice a Bianca: -
Vedi, noi ci ammazziamo per fare
il suo meglio, ciascuno come
può, ed essa un giorno non
penserà neppure a noi. Così va
il mondo -. È l'eroe più grande
di quel mondo di stoici che il
Verga ha rappresentato nelle sue
opere, l'uomo più incallito al
travaglio incessante
dell'esistenza.
Ha una vita scura e opprimente,
in cui le fatiche e i fastidi si
succedono senza posa. Eppure in
questo destino accanito non
sentite nulla di architettato e
di voluto. 1 malanni nascono
dalla forza stessa delle cose,
dalla natura stessa degli
uomini, dalla logica fatale
delle rigide leggi che governano
la nostra sorte. In questo mondo
fustigato dalla necessità è
naturale che don Gesualdo viva
così senza respiro; che i
parenti poveri gli invidino la
ricchezza, e valutino quello che
egli ha e non quello che egli ha
donato; che sempre, e sopra
tutto nei giorni di torbidi, i
villani e gli affamati non gli
perdonino di esser nato «povero
e nudo al par di loro» e di
essersi arricchito. In questo
mondo, dove le classi e le
abitudini ci dividono, è
naturale che i parenti nobili
circondino d'ostilità l'antico
muratore, e che la moglie, di
sangue aristocratico, senta
sempre in lui qualche cosa di
rozzo e d'inferiore che la fa
tremare e la offende.
Perciò egli rimane fatalmente
chiuso nel cerchio dei
sentimenti coi quali è cresciuto
e coi quali ha conquistato
l'agiatezza, e nulla
ammorbidisce o trasforma la sua
tempra di macigno, la fibra
grossolana e potente con cui è
salito nella vita. Gli averi
radunati non perdono ai suoi
occhi il valore che avevano
quando ancora non li aveva
accumulati, perché egli non
trova nessuna affezione profonda
che richiami durevolmente il suo
cuore in una sfera più riposata,
e perché intorno ad essi si è
concentrata tutta la sua vita: i
suoi sforzi, le sue ansie di
ogni giorno, la cura di
sollevare dalla miseria i
parenti, la speranza di uscire
con un matrimonio dall'ambiente
umile in cui è cresciuto. I
danari sono la sua storia: i
suoi disegni, le sue speranze,
le sue battaglie, le sue
amarezze, le sue soddisfazioni
brevi e potenti di
conquistatore. Perciò si capisce
che egli li difenda con tutte le
sue forze, e dica: «A chi ti
vuol togliere la roba levagli la
vita!». Perciò si capisce la
desolazione, il tormento sordo
della sua decadenza, quando la
malattia gli impedisce di
lavorare, lo rende debole contro
i raggiri di chi lo vuole
sfruttare, e lo dà in balìa del
genero che dilapida quello che
egli ha messo insieme in tanti
anni di tenacia.
Medici, speziali, parenti gli
calano addosso come uno stormo
di corvi: ed egli ha sempre il
pensiero ai suoi poderi che ora
vanno alla malora, alla terra
conquistata, vigilata, amata,
l'unica cosa salda che egli
abbia potuto accomunare alla sua
anima in tanti anni di stenti.
Quel lungo tramonto è d'una
malinconia tetra, e stringe il
cuore. La sua straordinaria
resistenza fisica e morale si
fiacca di giorno in giorno;
l'energia e la ribellione si
calmano a poco a poco in un
silenzio fosco e in
un'immobilità disperata. Qualche
volta don Gesualdo piange in
silenzio, come un bambino. Una
tristezza nera ci avvolge
dinanzi a quella vita eroica che
finisce miseramente come quella
d'un ozioso, una sfiducia sorda
s'impadronisce di noi e ci fa
assistere con un amaro stupore
allo spettacolo di quella
rovina.
Ogni pagina è piena della
sensazione che don Gesualdo ha
del proprio scadimento, piena di
nostalgia per la campagna
soleggiata ora che il sole gli
muore sul cornicione della casa
senza mai scendere sino alle
finestre -, piena di
avvilimento. «Venivano l'uno
dopo l'altro, dei dottoroni che
tenevano carrozza, e si facevano
pagare anche il servitore che
lasciavano in anticamera.
L'osservavano, lo tastavano, lo
interrogavano quasi avessero da
fare con un ragazzo o con un
contadino. Lo mostravano agli
apprendisti come il zanni ,fa
vedere alla fiera il gallo con
le corna, oppure la pecora con
due code, facendo la spiegazione
con parole misteriose». Sentite
una ribellione muta della
dignità dell'uomo; e proprio in
questi mesi di impotenza
cogliete tutta la grandiosità
morale di questa creazione, di
questo lavoratore nato per
l'operosità incessante, per la
lotta, per l'impiego di
un'energia che è una forza
morale per il fatto stesso di
essere tesa continuamente e
senza premio.
E proprio in quest'agonia che
passa nell'ombra fredda di una
casa e riempie le pareti delle
immagini lontane delle campagne
e delle strade polverose, in
questo rimpianto silenzioso
degli anni trascorsi all'aria
aperta, fra il solleone, il
freddo, la pioggia, il tepore e
il sereno della primavera, in
questo sospiro verso le terre
lontane sentite quanto profondo,
quanto essenziale sia in
mastro-don Gesualdo l'amore alla
terra per la quale e della quale
ha vissuto. Anche in questo egli
rappresenta e perfeziona
artisticamente gli altri
personaggi siciliani del Verga.
Le sue ultime tenerezze e i suoi
ultimi pensieri sono per i suoi
campi e per sua figlia. Si
comprende che sia tanto
attaccato alla vita chi ha
vissuto per la roba, e che fino
agli estremi si difenda con
un'astuzia gelosa e furiosa
contro coloro che gliela
vorrebbero togliere. Per essa
egli ha speso i suoi anni, ed
essa occupa ancora le sue ore
lente di malato immobile.
Così se ne va, con alternative
pietose di fiducia e di
scoramento, di tenerezze e di
durezze in cui si avvicendano il
leone d'un tempo e la povera
vittima. Ma a poco a poco, fra
lotte e sospetti, si rassegna al
suo destino di inerte: e così
muore.
Quest'uomo senza debolezze,
indurato alle prove della vita,
ha però una bontà forte e
sincera, quella di cui sono
capaci gli uomini attivi. La
lotta non lo rende cinico, gli
lascia nel cuore il bisogno e
l'amore della tenerezza. Ma la
sorte gli contende quasi sempre
questo riposo. Nella sua vita
lunga e spinosa, una sola
persona lo ama: Diodata, quella
serva così umile, così devota,
così grande!
Gli affetti di don Gesualdo sono
la lirica solitaria e nascosta
della sua esistenza di
lottatore, e compiono questa
così maschia figura.
Ma la moglie a cui egli si
accosta con una trepidazione
tanto puerile e tanto commovente
la sera delle nozze, lo tiene
sempre lontano con la sua
ostilità timida e istintiva di
donna dal sangue gentile. Le
pagine con cui si chiude la
scena del matrimonio, tutte
palpitanti della finezza esangue
e spaurita di Bianca, dell'ansia
sensuale di don Gesualdo, della
sua delicatezza ancora un po'
goffa e un po' ruvida e
intimidita dalla prima intimità
con quella fanciulla fragile e
pallida, preannunciano con
un'ombra di malinconia, con una
sensibilità sfumata di
presentimenti, i lunghi anni di
vita comune ma estranea del rude
lavoratore e della nobile Trao.
Si sente in quelle due pagine
vaghe e complesse l'intreccio di
sensazioni inconciliabili,
l'urto - più che il contatto -
di due tempre che non si possono
fondere, il principio d'una
unione fatalmente triste.
Diodata è l'unico riposo di don
Gesualdo, la sola creatura che
possa dargli un'ora di dolcezza,
che sappia chinare il capo sotto
la sua volontà e sotto la sua
carezza ruvida. Quest'amore è
una delle cose più belle del
Verga; l'incontro di don
Gesualdo e di Diodata quando
egli ha deciso il suo
matrimonio, è la parte più
lirica e più melodiosa del
volume. Sotto le parole misurate
del dialogo mormora una vena
dolce e mesta di sentimento che
si allarga nel silenzioso
paesaggio notturno.
La campagna intorno, tranquilla,
sembra riposare insieme con don
Gesualdo, dopo una giornata
lunga di sole e di lavoro. Qui,
come altrove, il romanzo ha un
respiro più sereno e più ampio
che quello solito del Verga:
queste pause di paesaggio
diffondono intorno un'aria più
lieve, dilatano il sentimento,
con una malia inconsueta, in un
vasto affiato d'idillio. Una
ventata di fresco vien su dai
campi, il cielo notturno avvolge
nel silenzio e nel sonno le
pianure e i monti, i buoi
accovacciati dormono con un
respiro pesante. In quell'ombra
dove a poco a poco svapora il
caldo della giornata estiva,
l'anima si distende, e una gran
pace la invade. Gesualdo si
sposa: Diodata sta per rimaner
sola. Ma quella povera serva,
sciupata dagli stenti,
accarezzata dalla mano commossa
e intenerita dello scrittore,
finisce per commuovere anche il
padrone. Don Gesualdo, dopo la
giornata dura, sente sciogliersi
il cuore in un bisogno di
tenerezza. Le sue parole sono
poche, un po' rozze, ma spirano
un affetto forte, e la pace
della campagna le isola in
un'atmosfera di poesia: il
respiro dei campi, pieno di
rumori vaganti e di silenzio,
approfondisce quelle parole di
protezione e di pietà e dà loro
una risonanza che va al cuore.
In queste pagine tutto è ad un
tempo preciso e sfumato; la
descrizione della fattoria e dei
campi è rustica, concreta senza
particolari evanescenti; i
dialoghi, appena accennati,
svolti fra la stanchezza e il
sonno, non hanno un momento
d'effusione sentimentale, e sono
costruiti quasi solo di fatti
dell'esistenza elementare e
quotidiana: ma fra quelle
parlate e quelle descrizioni si
insinua e si diffonde un sopore,
un abbandono che dà alle parole
un'eco calda di sentimento e di
bontà e alle cose agresti un
contorno appena adombrato di
sogno. Questo effetto di fascino
lento, questa potenza della
notte estiva, in cui tutto
riposa si distende si rinnova,
nasce dai particolari
spazieggiati, dalle linee come
isolate e abbandonate a se
stesse, da quello stile che si
rilassa in una contemplazione
non sorvegliata. Dovunque
penetra il respiro tranquillo di
don Gesualdo che, dopo la lunga
corsa sotto il cielo in fiamme,
allenta il corpo e la mente,
lascia che la calma dell'ora
tarda smorzi la fatica, si
ristora nella buia frescura
della notte.
La solitudine ridesta i ricordi
lontani di don Gesualdo
travagliato nella conquista
dell'agiatezza: è un momento di
poesia nella sua vita
infaticabile, la poesia della
sua esistenza di lottatore, il
respiro di sollievo, lo sguardo
di chi è salito e ripercorre con
l'occhio l'ascesa. Nemici,
pericoli, liti, ostacoli, tutto
ritorna in quest'ora di ricordi,
ma raddolcito dalla lontananza,
immerso nella serenità della
notte estiva, ammorbidito e
sfumato di tenerezza dalla
vicinanza muta di quell'umile
donna amata. Nella lotta don
Gesualdo non ha avuto altra
gioia che quella chiusa di fare
sempre un passo avanti. Ma
Diodata è stata l'aiutante
silenziosa, la carezza che
solleva e sospinge.
Queste pagine hanno un leggero
sentore femminile: nell'anima
rude di don Gesualdo penetra,
appena, una lieve mollezza
insolita, che è come il fascino
modesto, timoroso, di quella
povera donna che è nascosta e
veglia nella notte. Il capitolo
è velatamente dominato da quella
bellezza un po' sfiorita, dolce
e umile, di Diodata, sottomessa
come un cane fedele: essa
scioglie in tenerezza le cure
gravi della giornata del
padrone, e spande il suo soffio
molle e malinconico su quella
notte silenziosa.
Le scene fra Gesualdo e la sua
serva, che ritornano, più brevi,
attraverso il volume, ci
richiamano sempre a questa, con
la tenerezza rude del padrone e
il suo atteggiamento di
protezione virile, con quella
sfumatura indefinita di
malinconia e di bontà senza
limiti che si sente sempre nelle
parole di Diodata.
Diodata è per Gesualdo il
pensiero sereno dell'uomo che ha
bisogno di una donna debole da
sostenere, è la nostalgia
misurata e contenuta di un
affetto che metta un po' di
dolcezza nella sua vita
tempestosa. Quella povera donna,
che non ha pretese e non occupa
nessun posto nella famiglia
ostile o fredda o diffidente di
don Gesualdo, è il complemento
umano del protagonista, la corda
più delicata del suo cuore
temprato, il sospiro fugace e
profondo della sua vita senza
sfogo e senza carezze. In virtù
di Diodata la figura epica di
don Gesualdo si fa più umana e
più ricca e si avvicina
all'umanità più comune con un
sospiro represso d'elegia.
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Attilio
Momigliano | |
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