L'esperienza delle "Rime"
Il Contini descrive l'intero arco dell'esperienza dantesca
delle Rime cosí varia e complessa, a partire dagli anni
guittoniani, attraverso la partecipazione allo Stil Novo,
fino alle rime petrose, alla tenzone con Forese, alle grandi
canzoni morali. Particolare rilievo ha la serietà con cui
Dante esperimenta ogni volta materia e linguaggio e
particolarmente precisi risultano i riferimenti delle prove
per lo più ancora provvisorie delle Rime ai risultati
compiuti e perfetti della Commedia.
I maestri e gli amici di Dante mostravano già tutti una
notevole latitudine di possibilità tecniche e di gusto. Non
parliamo dei Siciliani, per i quali il problema della
coerenza stilistica difficilmente potrebbe addirittura esser
posto. Il primo Guido era stato un- curiale guittoniano
tanto docile da meritarsi, quando poi ebbe mutata la
maniera, da parte d'un altro rimatore di stretta osservanza
quale Bonagiunta, non soltanto rimproveri ad personam, ma la
precisa obiezione critica che poesia non è scienza; senonché
la sua novità non era solo quella dottrinale
(apparentemente) di Al cor gentil, e neppure si fermava al
mito della donna salutifera, ma giungeva a includere
l'aneddotica borghese di Chi vedesse a Lucia un var cappuzzo
e il primitivo « realismo » di Diavol te f era. Anche più
disinvolto, il Cavalcanti sapeva rifare
con uri virtuosismo del resto freschissimo un po' tutti i
«generi» della lirica, il tema della pastorella transalpina
(In un boschetto), la canzonetta siciliana (Fresca rosa
novella), certo panismo naturalistico inventato dal
Guinicelli (Beltà di donna); in fatto d: rigore ed
esoterismo dottrinale riusciva a battere i più sapienti
(Donna mi prega), l'analisi psicologica era capace di
portarla fino alla parodia; né, beninteso - tutti questi
erano modi da gran signore -, comprometteva mai la sua
malinconia splenetica di gentiluomo un po' snob. Quanto a
Cino, se si guarda bene, l'unità tonale di questo, secondo
il luogo comune, precursore di Petrarca è un tantino
involontaria, o diciamo psicologistica (il limite del suo
petrarchismo avanti la lettera sta, appunto qui); e fra
tanti guai e lacrime e paura e senso della morte può aver
luogo perfettamente, sulla stessa linea ma in fondo, un
sonetto su motivo obbligato (Tutto ciò ch'altrui aggrada),
che oggi nessuno si sogna più d'intendere come un temibile
documento romantico, ma si riconduce ai modi caricaturali
d'un Cecco Angiolieri e del trecento giullaresco. La varietà
di Dante, che materialmente non è minore, fra la ballata
della ghirlandetta o quella per Violetta e le rime petrose,
fra il sonetto per la Garisenda e la canzone Tre donne o la
montanina, ha un tutt'altro significato. Mai in lui un
sospetto, di scetticismo. Ci sono scherzi anche nella sua
opera, ma remotissimi dai centri dell'ispirazione. In fondo,
una serietà terribile: tutte le «imitazioni» sono lasciate
depositare fino all'ultimo, giungono alle estreme
conseguenze (alcuni frutti della lettura dei Siciliani
dureranno indelebili nelle Rime), ma non deviano mai verso
l'amplificazione un po' cinica da cui può uscire la parodia.
In realtà, la tecnica è in lui una cosa dell'ordine sacrale,
è la via del suo esercizio ascetico, indistinguibile
dall'ansia di perfezione. Vi è da una parte, in universale e
nella ricchezza dei tentativi danteschi, una tecnica dolce,
che vuol cancellare il suo sforzo, si risolve in un piano
tessuto scrittorio modulato senza dislivelli - ma è poi lo
stesso mondo della Vita Nuova, la rinunzia alla terra e l'ascrizione
a una donna tanto più reale quanto meno si concede al poeta,
quanto più si sottrae fino al suo saluto e al suo sguardo, e
diventa realissima quando è fisicamente morta; lo stesso
clima dove la vittoria sul peccato, ripetiamo: lo sforzo
della vittoria sul peccato, tende a perdere d'eccezionalità
e a normalizzarsi nell'accettazione quotidiana d'un ideale.
E cosí (distinguiamo assai sommariamente questi due poli
estremi d'ispirazione) v'è una tecnica aspra, che sottolinea
lo sforzo, esplicitamente ne accentua il rilievo nei punti
salienti del ritmo, e in modo particolarissimo in rima - ma
essa è una sola cosa col sentimento dell'amore e della vita
difficile, dell'ostacolo, del superamento.
E appunto la mancanza di «lirismo» nella lirica di Dante che
spiega meglio come, a uno sguardo storico generale, non
appaia in essa uno «sviluppo» stilistico chiaro é distinto,
ma un processo d'inquietudine permanente. La prima svolta
che si possa individuare in una formula, è costituita dalle
nove rime. Di abbandono del guittonismo per lo stilnovismo
non è infatti il caso di parlare in senso proprio, perché,
dal punto di vista della scuola, le rime guittoniane di
Dante sono galanterie, scommesse, peccata iuventutis, e
quella presunta conversione è solo uno scivolare d'amicizia
in amicizia (s'è visto che significhi l'importanza
dell'amicizia), da quella per l'omonimo da Maiano, per
Lippo, forse per Chiaro Davanzati é Puccio Bellondi, a
quella per Guido Cavalcanti e Lapo Gianni.
È nelle rime morali di Dante lo zelo del neofita entrato da
poco fra le disputazioni dei filosofanti. Un pari entusiasmo
troviamo nel Dante amatore di poesia e studioso di
letteratura che questi stessi anni vengono elaborando
(entusiasmo scientifico e morale ed entusiasmo d'occitanista
sono contemporanei, nel De vulgari). Dante giovane aveva
conosciuto un provenzalismo di seconda mano e, diciamo cosí,
specializzato, ossia manierato, attraverso i guittoniani e i
Siciliani; e anche i precedenti provenzali del dolce stile,
dunque gl'irresponsabili antenati del Dante della Vita
Nuova, sono stati indicati in autori secondari singolarmente
disertati dalla grazia, il noioso Guilhelm de Montanhagol,
magari Guiraut Riquier, che furono astuti amministratori di
poesia nella generale decadenza inaugurata dalla morte di
Folchetto (trascuriamo naturalmente, nel parlar cosí,
l'unico poeta vero dei periodo, il grande arcaizzante Peire
Cardinal, perché non fu caposcuola). Occorre dire che un
occitanismo tanto indiretto non poteva che spettare ai temi
astratti, essere rituale? «Se volemo cercare in lingua d'oco»,
dice la Vita Nuova (XXV, 4), «noi non troviamo cose dette
anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni». E su
questa estensione limitata, e compatta, non è grandissima
varietà esteriore, poiché l'anima provenzale è sottilmente
raccolta sul mestiere; ma se precisamente Dante si destinava
a raccoglierne l'insegnamento essenziale, lo stile, doveva
pur risalire quel breve corso d'un secolo e mezzo,
differenziare le generazioni. Intelligenza di questa
filologia a nutrimento di poesia! È cosí che il
provenzalismo dantesco di prima mano si chiama: incontro con
i trovatorí del periodo aureo, quelli della Commedia:
Guiraut de Bornelh, Bertran de Born, Folchetto, Sordello
(cronologicamente sfasato, questo, come autore periferico);
sopra tutti, Arnaut Daniel. Entro le Rime codesto
provenzalismo autentico è rappresentato dall'esperienza
delle petrose: l'esperienza che resterà, degradata, nella
Commedia come verbalità del difficile, dell'ostacolo, come
presa di possesso del reale non pacifico, secondo la
descrizione che s'è fatta sopra. Questo ricorso
interpretativo che si fa alla Commedia non è un mero
artificio didattico, né riguarda lo scadimento a precedente
e a materia che si suol far subire dagli autori alla propria
poesia già raggiunta, ma spetta alla necessaria
integrabilità di quelle liriche immobili, alla mancanza
d'una piena autosufficienza. La legittima ammirazione
corrente per questa serie suggestiva deve pur lasciar chiaro
come, innanzi ai «frammenti» di poesia petrosa che
s'articolano nella Commedia (per esempio, il cerchio dei
traditori), l'ispirazione delle petrose appaia, essa,
radicalmente «frammentaria».
Accanto al sentimento del reale difficile in sé, quale
oggetto, che presentano le petrose, la tenzone con Forese
offre un reale conosciuto attraverso una gamma di
risentimenti e la deformazione violenta della caricatura. E
la rappresentazione n'è già ricca e tecnicamente spiritosa.
Un solo esempio, nella prima quartina del secondo sonetto:
si sa come il culmine dell'artificio stilistico,
provenzalmente, sia la sestina, il cui verso inclina con
violenza verso la fine, destinata a ospitare le parole più
determinate, e pertanto lo spettacolo della più cruda
realtà; è con un simile procedimento che i petti de le
starne, con la carnalità specificata del loro aspetto
tentatorio, si presentano in clausola, e succedono in tale
funzione al fortemente idiomatico e allusivo nodo Salamone;
mentre, subito sotto, l'ingegnosa collazione delle sorti
cronologie si fa indizio perentorio della crisi fondamentale
delle Rime, quand'esse stanno (non indarno) per cessare. Uno
dei più acuti ordinatori ideali di esse, senz'altro il più
elegante, Ferdinando Neri, dichiara: «Questa canzone è un
problema che anch'io rinunzio a spiegarmi: v'è dell'amor
cortese, qualche mossa ciniana, qualche altra " pietrosa "».
Di là dall'aneddoto, il «problema» è quello stesso generale
dell'insufficienza del Canzoniere a giustíficare se stesso,
dell'inesplicabilità iuxta propria principia. La montanina è
la sola lirica di Dante a cui si riesca ad assicurare una
data relativamente tarda, ed è su una linea involutiva,
quasi d'errore. Può trovarsi migliore argomento a
riconfermare, in conclusione, come l'ossessione della
Commedia nell'animo dell'esegeta delle Rime, non sia un vano
fantasma agitato dal principio d'autorità? Solo in questo
canone si vede placato il travaglio esplorativo di Dante e
il furore dell'esercizio. |