La "fedeltà" di Dante
Per il celebre filosofo e storico francese il problema delle
autorità nell'ambito religioso, politico, morale costituisce
il centro della speculazione dantesca e delle appassionate
convinzioni che ne derivano. Con la fedeltà e con il
tradimento nei riguardi di queste autorità, siano esse il
Papa o l'Imperatore, intesi come i supremi rappresentanti
della maestà e della giustizia divina, Dante misura i suoi
giudizi. La virtù della Giustizia, allora, appare come il
grande motivo che riassume in sé tutti i valori del pensiero
di Dante.
Certamente, la costruzione ideologica della Divina Commedia
non spiega né la nascita né la bellezza dell'opera, ma pure
essa c'è, ed è essa sola che ci permette di comprenderne il
contenuto.
Se il Convivio ha restaurato nella sua pienezza l'autorità
morale del Filosofo nei confronti dell'Imperatore e la
Monarchia ha restaurato nella sua pienezza l'autorità
politica dell'Imperatore nei confronti dei Papi, la Divina
Commedia richiama nuovamente i diritti e i doveri degli uni
e degli altri, ma Dante non si contenta più, come nelle
opere precedenti, di fondarli in linea di diritto sulla
nozione astratta della giustizia divina; attraverso la magia
della sua arte, egli ci fa vedere all'opera questa stessa
Giustizia, custode eterna delle leggi del mondo che conserva
quali le ha create. Poiché è essa appunto che beatifica i
giusti nell'amore come schiaccia gli ingiusti sotto la sua
collera. Se è vero che non ci sembra sempre equa nei suoi
giudizi, ciò avviene perché questa giustizia di Dio non è in
fin dei conti che quella di Dante, ma si tratta per noi di
comprendere quest'uomo e quest'opera piuttosto che di
giudicarli.
L'atteggiamento generale di Dante nei riguardi della
filosofia appare non tanto quello di un filosofo preoccupato
di coltivarla in se stessa, quanto piuttosto quello di un
giudice desideroso di riconoscere i suoi diritti, allo scopo
di ottenerne quel contributo per l'opera grande della
felicità temporale umana che la morale e La politica hanno
diritto di attendere da essa. Dante assume pertanto a questo
riguardo, come ogni volta che teorizza, la parte del
difensore del bene pubblico. La sua funzione non è di
promuovere la filosofia, né di insegnare la teologia, né di
esercitare il potere politico, ma di richiamare queste
fondamentali autorità al mutuo rispetto che si debbono per
la loro filiazione divina. Ogni qualvolta, per cupidigia,
una qualunque di esse supera i limiti imposti da Dio al suo
dominio, essa entra in conflitto con una autorità non meno
sacra, di cui usurpa la giurisdizione. Questo è il più
comune e pericoloso crimine che si commette contro la
giustizia, che è la più umana e la più amata delle virtù,
come la più inumana e la più odiosa è l'ingiustizia sotto
tutte le sue forme: il tradimento, l'ingratitudine, la
falsità, il furto, l'inganno e la rapina. Così intesa, la
virtù della giustizia appare in Dante soprattutto come
fedeltà alle grandi autorità, sacre per la loro origine
divina, mentre l'ingiustizia è al contrario ogni tradimento
di queste autorità di cui egli stesso non ha mai trattato se
non per sottomettervisi: la filosofia e il suo Filosofo,
l'impero e il suo Imperatore, la Chiesa e il suo Papa.
Quand'egli colpisce, e con quale durezza, uno dei
rappresentanti di queste principali autorità, ciò avviene
unicamente allo scopo di proteggerle contro quello che egli
ritiene un errore di colui che le rappresenta. La sua franca
libertà contro i grandi nasce dall'amore delle grandi realtà
spirituali: egli li accusa di farle rovinare non
rispettandone i confini, poiché ognuna di esse distrugge
anche se stessa nell'usurpare il potere di un'altra nel
momento stesso che usurpandolo distrugge questo potere. Si
può certo mettere in discussione la nozione stessa che Dante
si è fatta di queste autorità fondamentali e delle loro
rispettive giurisdizioni, ma una volta ammessa questa
nozione, non si ha più il diritto di cadere in equivoco
sulla natura del sentimento che l'animava. Coloro che
l'accusano di orgoglio leggono male le sue invettive, poiché
la violenza di Dante è una sottomissione appassionata che
esige dagli altri una eguale volontà di sottomissione. Il
suo verdetto s'abbatte sull'avversario non da una
superiorità personale che egli si attribuisce, ma
dall'altezza stessa cui egli innalza i suoi tre grandi
ideali: Non lo si colpisce senza colpire anche quelli. Il
tormento di questa grande anima . fu di levarsi
incessantemente contro ciò ch'ella amava di più al mondo,
per la passione stessa di servirlo: papi che tradiscono la
Chiesa e imperatori che tradiscono l'Impero. Ecco allora che
l'invettiva dantesca scatta per fulminare i traditori,
perché in questo universo dove il peggiore dei mali è
l'ingiustizia, la peggiore ingiustizia è il tradimento, e il
peggiore di tutti i tradimenti non è tradire un benefattore,
ma tradire un capo. Ogni tradimento di questa specie scuote
l'edificio del mondo nelle autorità sulle quali Dio stesso
vuole che esso si fondi e che, nell'ordine, ne garantiscono
l'unità e la pace. Ciò che raccoglie di più immondo il fondo
ultimo dell'inferno dantesco è Lucifero, traditore del suo
creatore, e i tre dannati fra i dannati di cui Lucifero
garantisce l'eterno castigo sono anche i traditori fra i
traditori: Giuda Iscariota, traditore di Dio, Cassio e
Bruto, traditori di Cesare. Come ingannarci sulla portata di
questo terribile simbolismo? È certamente crimine più grave
tradire la maestà divina che tradire la maestà imperiale, ma
si tratta in sostanza della stessa maestà, e questo è il
crimine dei crimini: il tradimento della maestà. Stabilire,
dunque, cosa Dante odi di più al mondo, significa al tempo
stesso comprendere ciò che egli stima al di sopra di tutto:
la lealtà verso i poteri stabiliti da Dio. Lo si è troppo
dimenticato nel commento delle sue opere, soprattutto nel
loro contenuto filosofico, teologico e politico. È inutile
pretendere di scoprire l'unico maestro di cui egli possa
essere stato il discepolo. Dante non può averne meno di tre
per volta. Infatti, in un dato ordine, egli ha sempre per
capo colui che a questo ordine presiede: Virgilio in poesia,
Tolomeo in astronomia, Aristotele in filosofia, san Domenico
nella teologia speculativa, san Francesco nella teologia
affettiva, e san Bernardo nella teologia mistica. Gli si
potranno riconoscere ancora altre guide. A lui poco importa
l'uomo, purché in ogni caso sia sicuro di seguire il più
grande. Questo è il terreno d'elezione dove sembra essersi
collocato sempre il solo Dante veramente autentico. Se
esiste, come si afferma, una « visione unificante » della
sua opera, essa non si identifica né con una particolare
filosofia, né con una causa politica, nemmeno con una
teologia. Essa si troverà piuttosto nel sentimento così
personale che egli ebbe della virtù della giustizia e delle
fedeltà che questa impone. L'opera di Dante non è un
sistema, ma l'espressione dialettica e lirica di tutte le
sue lealtà. |