ORIGINE E FORME DELLA POESIA
SICILIANA
Alle origini della poesia siciliana sta il grande
modello della civiltà provenzale e della aristocratica
lirica che essa espresse. Da questo esempio di somma
abilità tecnica i primi poeti della nostra letteratura
derivarono anche i modi e gli schemi espressivi
attraverso i quali la lingua quotidiana si trasforma in
un linguaggio letterario che è alla base dell'intera
nostra tradizione lirica.
Dalle corti feudali della Francia meridionale la lirica
dei trovatori s'era propagata e imposta nella Penisola
iberica, in Italia, nella Francia del nord, in Germania,
per i suoi ammalianti ideali d'arte e di vita: perché
rappresentava in forma aristocratica, e tale da poter
gareggiare per accorta eleganza con la piú squisita
poesia latina del Medioevo, il complesso mondo di
sentimenti individuali del poeta e, in ispecie, l'amore
spiritualizzato: mondo individuale ma a un tempo
collettivo, in quanto rispondeva al sentire di una
nobile società cortese. E formalismo, culto dell'io,
spiritualizzazione dell'amore, dispiegarono un'efficacia
palese e diretta sui primordi della poesia europea.
I nuovi doctores illustres - giudici, notai; uomini
d'arme o di chiesa, nativi dell'Isola (e sono la più
parte, i più antichi e i piú celebri), del rimanente
Regnum o di altre regioni d'Italia, e comunque legati
alla Corte degli Svevi, e che costituirono presto una
scuola - con un suo gusto particolare - si accordarono
alla nota dominante. E poiché nella letteratura ha
rilievo ed è pungolo la tradizione o imitazione, essi
derivarono dai loro supremi e inevitabili modelli, ma
con qualche indipendenza, i concetti e gli atteggiamenti
dell'amore di corte col relativo fastoso corredo di
convenzionalismi, galanterie e astrattezze; dedussero la
forma metrica del discordo; di più trassero conforto e
sostegno ad applicar alla lingua siciliana quella
tecnica che era un'eredità latina, continuatasi nel
Medioevo e aggravata da buon numero di ingegnosi
artificii di concetto, di stile, di versificazione.
Confluirono pertanto nel lessico della nostra prima
poesia, e in quello dell'antica poesia francese, nel
gallego-portoghese dei trovatori della Penisola iberica
e nel medio-alto-tedesco dei Minnesanger, i termini
dell'idioma d'amore delle corti occitaniche, il quale si
fece così europeo, ed è considerato come un linguaggio
proprio solo di un certo strato sociale, capito solo in
un determinato ambiente, tipico insomma di una scuola,
ed è stato posto legittimamente a confronto con la
terminologia italiana della musica, che godette
anch'essa, nei secoli XVII e XVIII, di incontrastato
dominio nell'Europa.
Ma i rimatori legati alla Corte sveva che, discepoli dei
Provenzali e, non meno, dei Latini (troppo spesso tenuti
in disparte, questi ultimi, nell'esplorazione della
nostra nascente poesia), avevano fine il senso della
forma, limpida la coscienza del valore personale della
parola, lavorarono con trepida cura la loro lingua
quotidiana, per modo che, nobilitandosi, riuscisse una
veste appropriatamente ornata del contenuto amoroso.
Per quel ch'è poi della tecnica del verso e della
strofa, l'uso trobadorico fece gradire saggi, piú o meno
numerosi, di scoperta bravura quasi sempre fine a se
stessa: il cumulo delle rime al mezzo, l'avviare ogni
strofa di canzone con la parola che chiude la strofa
precedente (coblas capfinidas) e il costruire tutte le
strofe sulle stesse rime (coblas unissonans) o il
ripetere le rime a ogni due strofe (coblas doblas). Ma
aiutò anche a perfezionare e sistemare la metrica,
abituando a una rigorosa versificazione sillabica e
costringendo alla rima perfetta. Cosí, se il trovatore,
per non venir meno al rispetto della rima, si riduceva
perfino a sostituire il provenzale col francese o forme
consacrate dalla tradizione aulica con voci dell'uso
basso, il verseggiatore siciliano ricorse, per lo stesso
fine, alla lingua latina o a quella provenzale, e avendo
un suo còri e un suo amúri da congiungere in rima, si
servi di amòri latineggiante o provenzaleggiante (Iacopo
da Lentini ha, nell'ibrida lingua toscanizzata dagli
amanuensi: «Non so se lo savete / com'io v'amo a bon
core; / ca son sí vergognoso / ch'io pur vi guardo
ascoso / e non vi mostro amore»), e per accordare con
pènu « io peno » un plinu (o chinu) si valse del
latinismo plènu (Re Enzo: «Alegru cori, plenu / di tutta
beninanza, / suvvegnavi, s'eu penu / per vostra
inamuranza»). |