IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

UGO FOSCOLO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: UGO FOSCOLO

LO SVOLGIMENTO DELLA PERSONALITA' FOSCOLIANA DALL'ORTIS ALLE GRAZIE

Uomo di passione e d'immaginazione, Foscolo, percosso da avvenimenti tanto straordinarii in così breve tempo, in contraddizione con tutte le sue affezioni e con tutte le sue idee degli uomini e delle cose, non avea quella calma di giudizio, che bastasse a spiegarseli ed acconciarvisi, come fanno i più. Il vero patriota, non che starsi in disparte coi denti ringhiosi, maledicendo tutta la società, vi si mescola e fa il bene che può, pur rimanendo lui. Ma le illusioni erano state troppo vive, e il disinganno troppo violento, e la tempra dell'uomo non era comune. Foscolo aveva preso sul serio tutte quelle massime di dignità, di virtù, di gloria, cose allora in quella loro idealità da teatro e da scuola. I suoi contemporanei volevano pure quelle cose, ma fino a un certo punto, cioè secondo la possibilità de' tempi, e senza molto loro incomodo, anzi pescavan nel torbido posti e quattrini, ancorché vi dovessero lasciare una parte della loro dignità personale e delle loro massime. Questo sembra abominevole a Foscolo: e all'urto di una realtà tanto disforme, quando tutti piegavano, lui dié indietro e si chiuse in sé. Rimase solo, accanto a Parini ed Alfieri. Ma Parini nella solitudine serbava quella sua calma di uno spirito sano e indulgente; la solitudine di Alfieri era orgoglio e disdegno, con uno sguardo dall'alto su di un mondo ignobile; erano le statue colossali del secolo decimottavo, irrigidite sul loro piedistallo. Foscolo era ancora in uno stato di formazione, così giovane, fra bisogni della vita così contingenti, in tanta veemenza di passioni, con tanto «furore di gloria», e non far nulla, e sentirsi solo, e sentire già il peso della vita, e pensare al suicidio!
 
  Che se pur sorge di morir consiglio,
A mia fiera ragion chiudon le porte
Furor di gloria e carità di figlio.
 

Situazione d'animo tesa, impossibile, poco durevole, ma che dà una base reale a quel. suo sentimentalismo da scuola, sviluppando in lui sentimenti teneri e malinconici, per entro a' quali scorre il fresco alito della gioventù non doma, non so che virile nel pianto:
 
  Stanco m'appoggio or al troncon d'un pino,
Ed or prostrato ove strepitan l'onde
Con le speranze mie parlo.e deliro.
 

In questi versi malinconici c'è qualche cosa che «strepita» come l'onda, una forza ròsa da ozio, o, com'egli dice, uno spirito guerriero che gli rugge al di dentro, e non trova sfogo. Questa forza, ora sdegnosa, ora trista, gl'ispira il sonetto all'Itali e il sonetto a Zacinto. Ecco versi nei quali suona già, come presentimento, Giacomo Leopardi:
 
  Tu non altro che il canto avrai del figlio
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.
 

Questo «illacrimata» è pieno di lacrime. Morire, e nessuno ti piange. Ci è qui dentro il germe de' Sepolcri. È una frase di suicida. La morte del padre e del fratello, la lontana madre, la terra natia, la patria divisa e imbarbarita, la fuga del tempo e il «nulla eterno» e certa bella ombra che gli passa dinanzi fuggitiva, sono i frammenti lirici di questa storia interiore di uno spirito distratto, scontento, dissipato, centrifugo. È la storia di un giovine, che aveva appena passati i venti anni.
Da questa storia usciva Jacopo Ortis. Sotto a quel nome Foscolo scriveva sé stesso, a frammenti, secondo le impressioni e gli accidenti: poi a mente tranquilla fissò un disegno, stabilì le proporzioni e venne fuori un romanzo, dove si sentono come diversi strati di formazione, mal dissimulati dal lavoro posteriore.
Ci era già il Werther. Foscolo non l'aveva letto. L'ebbe più tardi, e mutò, rimutò, sotto a quella impressione. Il romanzo parve una imitazione, anzi un furto. Ma tutti lo leggevano. E il successo fu grande, massime tra' giovani e le donne.
Ho innanzi il Werther. E non vedo come si è tanto disputato su questi due romanzi. Jacopo e Werther sono due individualità nella loro somiglianza superficiale profondamente diverse, anzi antipatiche l'una all'altra. Jacopo non avrebbe mai amato Carlotta, e Werther non avrebbe saputo che farsene di quella Teresa. Goethe ti dà un lavoro finemente psicologico: Kant avea lasciata la sua orma in quel cervello. Il suicidio vi appare come conseguenza ultima e fatale di una serie di fatti interiori colti nelle loro gradazioni più intime e più delicate. È lavoro di una ispirazione tranquilla e concorde, in un ambiente tutto moderno, con perfetta obiettività, voglio dire con un sereno spirito di osservazione e di analisi. Goethe sembra Galileo che guarda col telescopio nell'anima e ne scopre tutti i segni. Perciò il suo romanzo è vera prosa, con tutti i contorni e la finitura del mondo reale. Ci si vede un popolo, il cui ideale si sviluppa in mezzo a tutte le condizioni della realtà.
Il lavoro di Foscolo è al contrario poesia in prosa. È lui, quale natura ed educazione, quale illusioni e disinganni lo avevano formato. C'è lì dentro Venezia tradita, Isabella perduta e la memoria di Laura e della madre e degli amici, l'uomo senza patria, senza famiglia e senza Dio, col corpo e coll'anima errabonda nel vuoto di una vita contraddittoria e inutile: ci è tutta una tragedia nazionale in tutta una tragedia individuale. Ma la tragedia non è materia del libro, è il suo antecedente. Siamo alla fine del quinto atto; la catastrofe è succeduta, pubblica e privata; al protagonista non resta che puntarsi la spada sul petto come Catone, o, come un personaggio di Alfieri, «cacciarsi un coltello nel cuore per versare... il sangue fra le ultime strida della patria». Qui comincia il libro; qui, dove cala il sipario, comincia la rappresentazione. Jacopo ricomincia una vita nuova, al cui ingresso sta il suicidio, come una tentazione cacciata via. Vita nuova, perché l'antico Jacopo è morto e se n'è formato un altro. Patria, virtù, giustizia, libertà, scienza, gloria, «i raggi della sua mente», sono divenuti fantasmi e illusioni. Regna la forza: l'uomo è lupo all'uomo: pochi illustri sovrastano a tanti secoli e a tante genti, anzi, spogliati della magnificenza storica, gli eroi di Plutarco son come gli altri: antichi e moderni, tutti si valgono: «umana razza!». È la situazione del suicida. Quando Bruto disse: - «O virtù, tu non sei che un vano nome!» - il suicidio era già compiuto nell'anima. Jacopo vive, e non sa che farsi della vita, vive come chi domani s'ucciderà. Ha tanto vigore d'intelletto, e fa vendere i suoi libri: a che serve la scienza? Ha tanto ardore di passione, tanta ambizione, tanta sete di gloria, tanto bisogno d'amare e di essere amato, è così giovane, quasi comincia ora a vivere: ma a che serve il vivere? Questo è il nuovo Jacopo, sorto sulle rovine dell'antico. Era tutto fede, credeva alla libertà, credeva alla scienza, credeva alla gloria: al primo urto della realtà rinnega e bestemmia tutto, anche sé stesso. La tragedia non ci è più: ci è una situazione lirica nata dalla tragedia. È il suicidio in permanenza, sviato, interrotto, contrastato, indugiato, perché in quella forte natura è ancora freschezza e potenza di vita che su' disinganni ricrea nuovi inganni... Una situazione così tesa fin dal principio potea dar materia ad un canto, come è la Saffo; non se ne potea ricavare un romanzo, se non stirandola e riempiendola di accessori fortuiti, non generati intrinsecamente dal fatto. Dove non è generazione, è stagnazione. Nel Werther c'è qualche cosa nell'anima che si move, si forma, si sviluppa, con un progresso fatale: c'è tutta una storia psicologica. Qui Jacopo è dal principio all'ultimo nella situazione esaltatissima del suicida, una specie di delirio con rari intervalli. Sicché sotto le apparenze più concitate senti la palude, l'acqua morta. E più si va innanzi, più questo sentimento si aggrava.

Se da una situazione così lirica non potea uscire un romanzo, potea tanto meno uscirne una prosa e quella prosa naturale e semplice che Foscolo vagheggiava. Perché a essere vera prosa semplice e naturale non basta sciogliere i periodi, sopprimere i legami, tagliare le idee medie, cacciar via le parentesi, gittar giù tutto il pesante bagaglio della prosa letteraria. Questo non è che lavoro negativo. A quella prosa boccaccevole e pedantesca Foscolo ha sostituita una prosa poetica, che nel suo andamento asmatico e saltellante manca di tono e di gradazione, perché manca di analisi, e riesce povera e monotona fra tanta esagerazione di colorito. Niente è più lontano dal semplice e dal naturale che questa prosa sintetica e scultoria che è non la vita in atto, ma un formulario della vita e presso che non dissi la sua astrazione rettorica. Perché Foscolo, volendo combattere la rettorica, non può fuggire alle sue strette, rappresentando sentimenti così esaltati e così protratti. Situazioni così ideali, così superiori alla vita comune, vogliono il verso per loro espressione. Mettetemi la storia di Lauretta o di Gliceria in verso, con quelle stesse immagini, e ne uscirà una storia eterna, come Ofelia e Nerina. La prosa non può rendere ciò che di aereo e di fuggitivo si stacca da queste fragili creature, se non per virtù di analisi, individuando e realizzando, come è in quella immortale Cecilia del Manzoni. Ma è appunto l'analisi che manca a Foscolo, la pienezza e la varietà della vita reale. Senti una sola corda; manca l'orchestra; manca soprattutto la grazia, la delicatezza, la soavità, quella certa interna misura e pacatezza, dov'è il segreto della vita. E non mi meraviglio che, comprendendo così finemente Omero, lo abbia reso così infelicemente.
Questo mondo di Foscolo, così com'è, rimane una vuota idealità, a cui manca il naturale nutrimento della vita reale, e che si nutre di sé fino alla consunzione. Questa vuota idealità già la senti in Alfieri, che si edifica essa il suo mondo e se lo figura e atteggia a sua guisa, senza trovarvi riposo o soddisfazione, perché quel mondo è sempre lei, e più vi si dimena e grida, più scopre la sua generalità. Gli è che l'Alfieri non riassume un mondo, come Omero, o Dante, ma sta all'ingresso di un mondo da venire. La realtà che vagheggia, è ancora una vuota idealità, ma vogliosa, impaziente, credula, confidente, che, non potendo ancora avere un corpo, se ne forma uno di sé stessa, e concepisce la vita come un suo vapore... Alfieri è l'illusione. Foscolo è il disinganno. E tutti e due sono la vuota idealità del loro secolo. L'uno non ne ha la coscienza, anzi ha l'orgoglio e la fiducia di chi si sente nella vita; l'altro ne ha una coscienza che l'uccide. L'uno ha tutta l'energia dell'illusione, quella energia che ispira i grandi pensieri e i grandi fatti. L'altro ha tutte le disperazioni del disinganno, quelle disperazioni da cui escono le nuove illusioni e le nuove speranze. Senti il vuoto in cui si dibattono in quell'ingrandimento posticcio che hanno tutte le cose nella loro immaginazione. Quell'ingrandimento è la realtà ancora in idea, fuori del limite o della misura, non ancora nella mobilità e varietà del suo divenire, ma fissata e cristallizzata, come è la vita nella sua astrazione, perciò monotona ed esagerata.

Questi fenomeni non sono dunque capricci individuali, sono necessità psicologiche della storia. Alfieri e Foscolo sono la voce della nuova Italia in quella sua prima apparizione innanzi allo spirito; idea ancora vuota, ma non più accademica, piena di energia e destinata a vivere. Perciò il libro di Foscolo, meno perfetto artisticamente che il Werther, ha molta più importanza nella storia dello spirito. È il testamento di quel gran secolo, il suo grido di dolore innanzi alla caduta di tutte le sue illusioni. Il disinganno uccide Jacopo, ma non uccide Foscolo. Se fu sua intenzione di avvezzare con quell'esempio la gioventù al disprezzo della morte, scelse una via cattiva. Per giungere alla morte non era bisogno di far tanta strada, quanta ne fece Jacopo. Il vero è che il suicidio era tradizione classica, virtù romana, divenuta cantabile in Metastasio e rifatta tragica in Alfieri. In Foscolo ha ancora un significato più moderno. È la tisi dell'anima, propria delle nature energiche, alle quali manchi l'alimento della realtà. È l'idea che attraversa il cervello di un giovane a venti anni, come era Foscolo, nel primo disinganno, e non ancora entrato nella serietà della vita.
L'esercizio della vita scampò Foscolo da quella consunzione. Nel suo sentimentalismo ci era sempre il tribuno che «ululava», lo spirito guerriero che gli ruggia dentro. Il suo dolore ha la stessa forma; è furore, maledizione, ribellione; è forza compressa in forzato ozio, che vuol traboccare. E non mancò l'occasione. Combatté per l'Italia a Cento, alla Trebbia, a Novi, a Genova. Ivi, in quell'ozio di caserma, troviamo già un altro Foscolo, guarito e ringiovanito. La vita militare gli rinfresca le impressioni, gli rinnova l'aria. Stringe relazioni, loda e gli piace di esser lodato, si mette in comunicazione con illustri uomini, prende gusto a' piccoli piaceri della vita, ha i suoi amori, i suoi duelli, le sue polemiche, ha insomma una vita comune, epilogata in quel verso:
 
  Amor, dadi, destrier, viaggi e Marte.  

Nel 1802, quando aveva già ventiquattro anni, escono in luce i suoi sonetti malinconici, e insieme le sue odi A Luigia Pallavicini e All'amica risanata, che attestano la sua guarigione. A quei sonetti lapidarli, dove la vita è come raccolta e stagnata al di dentro, succede la classica ode ne' suoi ampi e flessuosi giri, dove l'anima si espande nella varietà della vita. In questo suo classicismo a colori vivi e nuovi senti la freschezza di una vita giovane guarita da quel sentimentalismo snervante, e risorta all'entusiasmo, incalorita dagli occhi negri e dal caro viso e dall'agile corpo e da' molti contorni della beltà femminile, tra balli e canti e suoni d'arpa. In questo mondo musicale e voluttuoso l'anima si fa liquida, si addolcisce, e spunta la grazia; le «corde colle» si maritano all'«itala grave cetra»:
 
  Ebbi in quel mar la culla ....  

La società cominciava a domesticare questo uomo. Se non era «cortigiano in maschera di Catone», secondo la frase dispettosa di Monti, si acconciava alla necessità della vita e agli usi e alle convenienze, pur borbottando, e con una certa mala grazia, come chi patisce violenza. L'idea della vita, quale natura ed educazione gli avevano formata, rimaneva intatta; voleva in quella sua febbre di gloria passare alla posterità non solo per i suoi scritti, ma ancora per l'eroica integrità del carattere: sentimento vòlto facilmente in ridicolo presso un popolo, nel quale da più secoli il pensiero era separato dalla vita. E se era costretto a far gl'inchini d'uso e a stringer la mano a persone che in cuor suo pregiava poco, se aveva lasciato la posa tribunizia di Niccolò Ugone, se mostravasi meno intollerante in un mondo, nel quale gli era pur forza di vivere, non per questo faceva getto della sua dignità personale; e nella sua povertà, fra gli acuti stimoli di una natura dissipata e rigogliosa, avida di piaceri. tirata al magnifico, quando con un po' di rimessione e di «saper vivere» era così facile arricchire, volle rimaner sul suo piedistallo, come un eroe di Plutarco. Questa alterezza morale era rimprovero alla mediocrità, e non gliela sapevano perdonare, e l'imputavano a vanità, e, non potendo più chiamarlo Niccolò Ugone, lo chiamavano «ser Nicoletto». Certo, un po' di ostentazione c'era in quel suo disdegno, un po' di prosa gli era rimasta, mancavagli quella divina semplicità nella onestà, che rende meno aspro il contrasto con la vita volgare; ma io desidererei a molti questa, chiamasi pur vanità, che produce nella vita tutti gli effetti della virtù più rigida. Un mondo più elevato e nobile viveva certo nell'anima del Foscolo e, ciò che è molto, non smentito dalla vita... Ed è da questo mondo solitario, custodito con tanta cura dentro di sé e diffuso di un'ombra di malinconia che escono i Sepolcri.

In questo carme Foscolo sviluppa tutte le sue forze, e in quel grado di verità e di misura che è proprio di un ingegno già maturo. Quel suo sentimentalismo petrarchesco della prima giovinezza, quel suo fosco lezioso e caricato alla maniera di Rousseau o di Young, è appena un velo di mestizia sparso sopra il pensiero, che gli dà un raccoglimento e una solennità quasi religiosa. Ti par di essere in un tempio, e che la tua anima si apra ai sentimenti più elevati. Quella energia tribunizia, un po' declamatoria, che senti nelle imprecazioni di Jacopo, qui acquista il tono pacato di una forza sicura e misurata. Quel suo filosofismo, malattia del secolo, e che è anche malattia di Jacopo, il quale prima di uccidersi ti dà una filosofia del suicidio, qui è altezza di meditazione profondata nelle più intime regioni della moralità umana. Quel suo classicismo di obbligo, una specie di abbellimento convenzionale, entro il quale la vita perde la purità dei suoi lineamenti, qui lascia la sua faccia mitologica e diviene umano. Ilio e la Troade ci è così vicino, come Firenze e Santa Croce. Quella sua vasta erudizione, quel mondo del pensiero umano sigillato nella sua memoria, quei riti religiosi, quei costumi di popoli, quelle sentenze di oratori e di filosofi, quei frammenti poetici, qui gli ritornano avvivati nel foco della sua immaginazione, attratti nell'armonia del suo mondo, e gli galleggiano innanzi come natura vivente; fantasmi di tutte l'età e di tutte le genti, penetrati e fusi da un solo spirito e divenuti contemporanei. Quella sua abilità tecnica, che nelle Odi mostra ancora le sue punte e le sue reminiscenze, qui è l'eco immediata e armonica di un inondo superiore e in lontananza, di cui, non sai come, ti giungono i riflessi, le ombre e i sussurri. Tutte queste forze sparpagliate, esitanti, che non avevano ancora trovato un centro, sono raccolte e riconciliate in questo mondo pieno e concreto, dove ciascuna trova nelle altre il suo limite o la sua misura. L'Italia non aveva ancor visto niente di simile. La lirica quale te la dava Monti o Cesarotti, era «cadenza melodrammatica», un prolungamento di Metastasio. Sotto forme dantesche il fondo rimaneva sempre arcadico, puramente letterario. La coscienza era estranea a quel lavoro dell'immaginazione: malattia dello spirito italiano da gran tempo. Quella vuota forma, dopo di aver per più secoli esaurita se stessa, finiva cantabile e musicabile, mera sonorità. Quando la forma non era vuota, era falsa e ipocrita, esprimendo sentimenti non partecipati dall'anima, amori senza amore, e un patriottismo senza patria, una religione senza fede, e uno sfoggio di sentenze nobili e morali senza moralità. Il mondo poetico era tutto superficie, un mondo esterno formato dall'immaginazione, senza alcuna eco di dentro: indi quel suo carattere convenzionale e retorico. Bisognava rifare un mondo interiore, ricostituire la coscienza. Questo lavoro iniziato nelle lettere da Parini e Alfieri era continuato in Foscolo, non senza un po' di orpello e di rettorica perché, anch'essi, si dimenavano nel vuoto; quel loro mondo, patria, libertà, scienza, virtù, gloria era ancora in idea, semplice aspirazione. Ne' Sepolcri apparisce per la prima volta nel suo carattere d'intimità, come un prodotto della coscienza e del sentimento. Questa prima voce della nuova lirica ha non so che di sacro, come un Inno; perché infine ricostituire la coscienza è ricostituire nell'anima una religione. La pietà verso i defunti, il culto delle tombe è prodotto da' motivi più elevati della natura umana, la patria, la famiglia, la gloria, l'infinità, l'immortalità: tutto è collegato, tutto è una corda sola nel santuario della coscienza. Una poesia tale annunziava la risurrezione di un mondo interiore in un popolo oscillante tra l'ipocrisia e la negazione. Non è già che Foscolo smentisca sé stesso. C'è sempre in lui del vecchio Jacopo, La sua filosofia è in aperta contraddizione col suo cuore. Jacopo, diceva: - A che serve la scienza, a che serve la vitae -. Foscolo dice: - A che servono i sepolcri «è forse men duro il sonno della morte all'ombra de' cipressi e dentro le urne confortate di pianto?» -. Come la scienza e come la vita, così la pietà dei defunti non è che una illusione. Ma in Jacopo, si sente l'amarezza del disinganno che gli fa rifiutare ogni consolazione e cacciar da sé tutte le sue illusioni. Foscolo si è riconcialiato con la vita, e di quel sentimento amaro non gli rimane che un: pur troppo! «Vero è ben, Pindemonte!» E non respinge le sue illusioni, ma le cerca, le nutre, le difende in nome della natura umana contro la dura verità. La nuova legge che contende il nome ai morti e vuole in una fossa comune Parini e il ladro, offende in lui l'«homo sum», il suo sentimento di uomo. Sia pure un'illusione; anzi purtroppo è una illusione; ma, come Diogene, ha l'aria di dire a quei nuovi legislatori: - «Lasciatemi libere le mie illusioni!» Il culto delle tombe era fondato sulla credenza dell'immortalità dello spirito, della risurrezione dell'uomo in un altro mondo: ivi attinge Young le sue aspirazioni. Purtroppo questo non è: mancata è questa illusione. Ma potete voi distruggermi la natura umana? E nella natura umana cerca Foscolo la nuova poesia delle tombe. Il nulla eterno, quel pensiero che rode Jacopo e lo affretta alla morte, qui si riempie di calore e di luce; le urne gemono, le ossa fremono, i morti risorgono nell'affetto e nell'immaginazione dei vivi. - E tu perché lasci sulla terra una famiglia, una patria, la tua memoria, scendi consolato nella tomba, sicuro di sopravvivere. Quella tomba sei tu: e là, cenere muto, vivi ancora, operi, hai un'azione sull'umanità. Là, tu parli ancora a' tuoi, tu raccomandi a concittadini la sanità della vita, tu ispiri i fatti magnanimi; là vengono a interrogarti i secoli, a evocarti i poeti e gli eroi; e tu produci ancora, tu generi di te i grandi uomini. - Su questa base generale della natura umana sorge la fraternità de' secoli e delle nazioni, e i fantasmi d'Ilio e di Maratona si confondono con le ombre di Galileo e di Alfieri: mitologia, antichità, tempi moderni sono sviluppati in una stessa atmosfera, parlano la lingua universale delle tombe, e, la pietà delle prime «umane belve» e la «pietosa insania» delle vergini britanne ti par contemporanea. Mondo delle ombre e delle illusioni, da cui esce rifatto il mondo interiore della coscienza, esce l'uomo restituito nella sua fede, ne' suoi affetti e ne' suo, sentimenti; perché solo chi ha viscere umane, chi ha coscienza d'uomo può trovare nei sepolcri quelle ombre e quelle illusioni. I monumenti marmorei sono inutile pompa a quelli che non hanno vita interiore, e che ancor vivi sono già uomini morti e seppelliti.

Tale è questo mondo di Foscolo, il risorgimento delle illusioni, accanto al risorgimento della coscienza umana. L'immaginazione non ci sta per sé, e non lavora dal di fuori, come è in Vincenzo Monti; ma è il prodotto della coscienza, è fatta attiva dai sentimenti più delicati e più virili della vita pubblica e privata. O piuttosto non è semplice immaginazione, è fantasia, che è nell'arte quello che nella vita è la coscienza, il centro universale e armonico dello spirito. Quei fantasmi che escono dalle tombe non sono il prodotto ozioso dell'immaginazione; sono le creature di tutta l'anima nella serietà delle sue credenze e dei suoi affetti, perciò forme, che hanno in sé le orme della loro origine, e, come direbbe Platone, ricordevoli, penetrate e improntate di quei pensieri e di quei sentimenti che le hanno create; anzi è qui, in questi pensieri e in questi sentimenti, che hanno la loro poesia. Il silenzio di mille secoli sarebbe stupido, se non avesse a fronte l'armonia delle Muse, animatrici del pensiero umano. E che sono quelle urne, se non vi aggiungi: «confortate di pianto»? Cassandra che guida i nepoti alle tombe e intuona il carme funebre, mostrando in lontananza la risurrezione di Troia nei versi di Omero, è una concezione tra le più originali, in quel suo carattere sacro di una pietà contenuta, che ti commuove di più. La figliola di Priamo, alzandosi nella contemplazione dei tempi lontani, acquista la imparzialità di una voce della storia, quasi anima profetica dell'umanità; ne nasce un sublime umanizzato. Le rimembranze della scuola, mera esteriorità, qui ritrovano la lor anima, sono ricreate in un mondo interiore, che riceve da quella lontananza di secoli un carattere di solennità, come innanzi all'eterno. Le illusioni sono così vivaci, che le forme talora ti balzano innanzi per sola virtù dell'armonia; come sono i fantasmi di Maratona, appena abbozzati, che ti si compiono nell'orecchio. Centro di questo mondo funerario che si stende per i secoli è il Tempio di Santa Croce. Ti sfilano innanzi quei morti illustri, ciascuno con la sua scritta in fronte, quasi il poeta volesse cogliere quelle ombre a volo e fissarle con un tratto di pennello. L'immaginazione educata al culto di quei grandi gli fa trovare forme originali, che li ricrea quasi, ti dà di loro una nuova e più profonda coscienza. La magnifica apoteosi, a cui serve di sfondo il paesaggio di Firenze non è tanto turbata dal dolore della bassezza presente, che faccia dissonanza o contrasto; il dolore è puro di amarezza, temperato da una certa rassegnazione alle alterne voci della storia, e l'animo rimane alzato, e guarda in lontananza nuove prospettive. Questa elevazione dell'animo in quella pace religiosa tiene in continuo sforzo la fantasia, la quale come popola gli avelli di fantasmi, così riempie le parole d'immagini, e ti forma un mondo di una grandezza sepolcrale davvero, che esce più dall'oscuro che dal chiaro, più dall'ombra che dalla luce. In questo cumulo di ombre ti senti in presenza dell'infinito. Il Tempo che «traveste» le reliquie della terra e del cielo, una Forza che operosa affatica le cose di «moto in moto», il Tempo che con sue fredde ali spazza le rovine e gli avanzi che Natura «a sensi altri destina»,queste e simili immagini gotiche ti rendono il vuoto, il silenzio, le tenebre di questo mondo della morte, non toccato ancora dall'uomo vivente. Ti senti come di notte e innanzi a un cimitero, con l'immaginazione percossa, e le proporzioni ti si confondono, e ti giunge non so quale senso di oscuro infinito tra il lugubre e il grottesco. Ma in questo mondo naturale penetra l'uomo e vi porta la luce e la misura, delicatezza, soavità, grazia, tenerezza, vi porta la sua umanità. Questo limite tra quelle tenebre, questa grazia tutta greca tra quel grottesco e quel gotico, questa fusione di pensieri, di sentimenti e di colori così diversi danno un carattere di originalità a questo mondo, sono la sua personalità. Così le cagne fameliche e la «immonda upupa» e il «mozzo capo» del ladro e il muggito dei buoi sono un lugubre grottesco, mescolato con le immagini più gentili del sentimento umano raccolte intorno alle profanate ossa di Parini. Il lugubre, il grottesco, il gotico, il tenebroso, l'indefinito, che più tardi sotto nome di romanticismo invase l'arte, cominciava a venire a galla, e fu gran parte nel successo di questa poesia. Ma qui appare, come un mondo naturale, ancora biblico e primitivo, quasi uno strato inferiore di formazione, in riscontro di un mondo umano e civile, che se lo sottopone e se lo assimila. L'uomo penetra in quel inondo naturale col suo cuore e coli la sua immaginazione, con tutte le sue illusioni, e lo illumina e lo infiora.
 
  Rapian gli amici una favilla al sole
A illuminar la sotterranea notte,
Perché gli occhi dell'uom cercan morendo
Il sole, e tutti l'ultimo sospiro
Mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
Amaranti educavano e viole
Su la funebre zolla; e chi sedea
A libar latte, e a raccontar sue pene
A' cari estinti, una fragranza intorno
Sentia qual d'aura de' beati Elisi.
 

Quella favilla rubata al sole, l'uomo che cerca morendo la luce, le acque che educano viole sulla «funebre zolla», i viventi che raccontano le loro pene ai loro estinti, e insieme con questo il lezzo dei cadaveri avvolto agl'incensi, e le città meste di effigiati scheletri, e le anime del purgatorio che chiedono gemendo il loro riscatto agli eredi, ti dà un chiaroscuro di effetto irresistibile, che non solo è l'impronta naturale di questo mondo della morte popolato dalle illusioni dei viventi, ma è lo stesso genio di Foscolo, mescolanza di sentimentale e di energico, giunta ora ad una perfetta fusione, e divenuta l'unità e la sostanza del suo mondo.

L'oscillazione che produsse questa creazione nel cervello di Foscolo fu così potente, che per lungo tempo gli tenne agitate le fibre, quasi armonia già muta che si continua ancora nel tuo orecchio. E altri sepolcri vi fermentavano sotto altri nomi, e uscivano fuori a frammenti, come i versi della sibilla, senza che gli fosse possibile venire a una compiuta formazione. Rimasero progetti, come l'Alceo, l'Oceano, la Sventura. Di questi frammenti insieme connessi e aggiustati uscirono ultimamente le Grazie. Il concetto è quello medesimo che nei Sepolcri. È il mondo umano e civile che succede all'età ferina. Ma nel cammino il concetto si è ingrandito, e ha preso l'aspetto di un poema. Non è il suono della coscienza umana innanzi alla tomba, che è una vera situazione lirica, cioè a dire l'anima in una condizione determinata, che le mette in moto il suo mondo interiore, ma è la storia e la metafisica di questo mondo interiore, una storia dell'arte nei suoi inizi, nel presente e nell'avvenire. Non è dunque più una poesia, ma una lezione con accessori poetici. Né è meraviglia che di questo Carme rimangano vivi alcuni accessori interessanti, senza che tu abbia una idea ben chiara del dove o come siano appiccati ad una totalità artificiale e laboriosa. Peggio è che, per rendere poetica la sua storia, Foscolo l'ha fatta sotterranea, soprapponendovi una storia delle Grazie, come un involucro di quella, involucro denso e intricato, e che se talora ha qualche interesse, è meno per quello che significa, che per quello che esprime. Il miele è dolce a mangiare; ma quel miele di Vesta, gustato dall'Ariosto, quei favi che gli fura il Berni, e che sfuggono in parte al Tasso, sono un cibo insipido. Il velo delle Grazie varrà bene il cinto di Venere; ma, se mi vuoi sforzare a guardarci sotto una storia, io l'odio e non lo guardo più. Se è lecito comparare le piccole con le cose grandi, tra i Sepolcri e le Grazie corre quella relazione, che tra la Margherita e l'Elena, tra la prima e la seconda parte del Faust: con questa differenza, che nella seconda parte sono pure amabili finzioni, sotto alle quali si nascondono concetti degnissimi di essere scoperti e meditati, dove sotto a questi veli, a queste are e a questi favi non si nasconde che una storia volgare. L'astrazione che è nel concetto si comunica anche alla forma, raggomitolata, incastonata, lucida e fredda come pietra preziosa.

Concepisco Goethe, che comincia col Werther e giunge al Torquato Tasso. È la calma superiore dell'artista, che dopo i giovanili tumulti dell'anima conquista nella realtà il suo equilibrio e la sua armonia. Anche nelle Grazie posa quello spirito guerriero, che ruggía nello antico Jacopo, e di cui senti le agitazioni in certe scene dell'Ajace e della Ricciarda. Nelle Grazie il concetto della vita è altro. È il vecchio concetto di Aristotele, la purgazione delle passioni, la tranquillità dell'anima risanata dalle passioni, ciò che Foscolo chiama il sistema epicureo. E se questo concetto fosse nel suo cuore e nella sua vita, com'è nella mente, avremmo il nuovo poeta. Ma è un concetto, non è un sentimento, e non risponde alla sua vita turbolenta, scissa, con tante velleità, fra tante contraddizioni. Quando io leggo quel suo paradiso delle Grazie, alte sugli uomini e sulle loro passioni, e leggo le sue lettere così appassionate, e lo accompagno nelle sue lotte contro pedanti e cortigiani e nei suoi disinganni politici e nei suoi amori e nelle sue strettezze e nei suoi furori apocalittici, e nelle amarezze dell'esilio, e nelle sue maledizioni agli avversari che lo calunniavano e alla patria che l'obliava; dico: - Povero Foscolo! tu dovevi portarti appresso fino all'ultimo dì le tue illusioni e le tue passioni, e le Grazie non ti risero, e quella tranquillità, che era il tuo paradiso, non la trovasti nell'arte, perché ti fu negata nella vita -. Il nuovo concetto rimase in lui ozioso: rimase aristotelico o epicureo: non divenne Foscolo. E vien fuori con tutto l'apparato dell'erudizione, in una forma finita dell'ultima perfezione: ci si vede l'artista consumato; appena ci è più il poeta.

Le Grazie segnano già il passaggio alla critica. Non c'è più l'ideale: c'è una metafisica dell'ideale. Foscolo aveva familiari i critici francesi; aveva studiato Winckelmann, Vico, Bianchini; era eruditissimo, ed era acuto nella sua erudizione. Nominato professore a Pavia, si mostra così nuovo nelle sue opinioni letterarie, come nelle sue poesie. Nella sua Prolusione tenta una storia della parola sulle orme di Vico, censurata da parecchi in questo o quel particolare, ma dai più ammirata, come nuova e profonda speculazione. Il suo valore, anzi che nelle sue idee, è nel suo spirito, perché non è infine che una calda requisitoria contro quella letteratura arcadica e accademica, combattuta da tutte le parti e resistente ancora, contro quella prosa vuota e parolaia, e contro quella poesia che suona e non crea. E non solo egli cerca nella letteratura cose e non parole, in ciò preceduto dal suo maestro Cesarotti, ma vi cerca la serietà di un mondo morale, la sua concordia con la vita. Qui toccava il male nella sua radice. Mancava alla letteratura italiana la coscienza, e perciò mancava ai letterati la dignità, e continuava l'oscena tradizione dei loro ignobili antecessori, poeti, istoriografi e giornalisti di corte. Questo mercato dell'ingegno, che fa simile lo scrittore a pubblica meretrice, anzi a peggio che meretrice, la quale, se vende il corpo, serba libera l'anima, accendeva di bile il Foscolo, e lo teneva in guerra con tutto quel volgo dotto in livrea. Ora questa maniera accademica di considerare i più precisi doveri della vita, questa vigliacca distinzione tra la teoria e la pratica, questo mondo della coscienza predicato in prosa e in verso con tanta enfasi e con tanta pompa, e negato con tanta sfacciataggine nella vita, era il tarlo non solo della letteratura, ma della società italiana, e non c'era e non c'è speranza di vero risorgimento nazionale, finché il sentimento del dovere e la serietà della coscienza non sia una virtù volgare, penetrata nella vita. Era la prima volta che si udiva dalla cattedra un concetto così elevato della letteratura, e da uomo che predicava con l'esempio. La stessa tendenza è manifesta negli scritti critici, coi quali, esule, illustrò la patria. La critica era tutta intorno alle forme e al meccanismo: tal letteratura, tal critica. Gravina, Cesarotti, Beccaria miravano ad una critica più alta, la quale non era in sostanza che un meccanismo ragionato o filosofico. Nessuno sospettò che la vita, come nella natura, così nell'arte vien da di dentro, e che ove non è mondo interiore, non è mondo esterno che viva, ancorché correttissimo e splendidissimo nel suo meccanismo. Foscolo è il primo tra i critici italiani che considera un lavoro d'arte come un fenomeno psicologico, e ne cerca i motivi nell'anima dello scrittore e nell'ambiente del secolo in cui nacque. Quando Cesari raccoglieva «le bellezze di Dante» e Giordani rettoricava sulla Psiche, Foscolo avea già scritto il suo Discorso sul testo della Commedia di Dante e i suoi Saggi sul Petrarca. Critica psicologica, la cui importanza se pare oggi non molta per la superficialità del contenuto, rimane pure grandissima per la sua tendenza, guardandovisi quasi più l'uomo che lo scrittore, più le cose che le forme, e più la vita interiore che l'esterno meccanismo. In questa reintegrazione della coscienza o di un mondo interiore accordavasi il poeta, il professore e il critico. Nessuno gli può contrastare questa gloria. È il centro, ove convergono tutte le sue facoltà e gli dà una fisionomia
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Francesco De Sanctis

© 2009 - Luigi De Bellis