LO SVOLGIMENTO
DELLA PERSONALITA' FOSCOLIANA DALL'ORTIS ALLE GRAZIE
Uomo di
passione e d'immaginazione, Foscolo, percosso da avvenimenti
tanto straordinarii in così breve tempo, in contraddizione
con tutte le sue affezioni e con tutte le sue idee degli
uomini e delle cose, non avea quella calma di giudizio, che
bastasse a spiegarseli ed acconciarvisi, come fanno i più.
Il vero patriota, non che starsi in disparte coi denti
ringhiosi, maledicendo tutta la società, vi si mescola e fa
il bene che può, pur rimanendo lui. Ma le illusioni erano
state troppo vive, e il disinganno troppo violento, e la
tempra dell'uomo non era comune. Foscolo aveva preso sul
serio tutte quelle massime di dignità, di virtù, di gloria,
cose allora in quella loro idealità da teatro e da scuola. I
suoi contemporanei volevano pure quelle cose, ma fino a un
certo punto, cioè secondo la possibilità de' tempi, e senza
molto loro incomodo, anzi pescavan nel torbido posti e
quattrini, ancorché vi dovessero lasciare una parte della
loro dignità personale e delle loro massime. Questo sembra
abominevole a Foscolo: e all'urto di una realtà tanto
disforme, quando tutti piegavano, lui dié indietro e si
chiuse in sé. Rimase solo, accanto a Parini ed Alfieri. Ma
Parini nella solitudine serbava quella sua calma di uno
spirito sano e indulgente; la solitudine di Alfieri era
orgoglio e disdegno, con uno sguardo dall'alto su di un
mondo ignobile; erano le statue colossali del secolo
decimottavo, irrigidite sul loro piedistallo. Foscolo era
ancora in uno stato di formazione, così giovane, fra bisogni
della vita così contingenti, in tanta veemenza di passioni,
con tanto «furore di gloria», e non far nulla, e sentirsi
solo, e sentire già il peso della vita, e pensare al
suicidio!
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Che
se pur sorge di morir consiglio,
A mia fiera ragion chiudon le porte
Furor di gloria e carità di figlio. |
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Situazione
d'animo tesa, impossibile, poco durevole, ma che dà una base
reale a quel. suo sentimentalismo da scuola, sviluppando in
lui sentimenti teneri e malinconici, per entro a' quali
scorre il fresco alito della gioventù non doma, non so che
virile nel pianto:
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Stanco m'appoggio or al troncon d'un pino,
Ed or prostrato ove strepitan l'onde
Con le speranze mie parlo.e deliro. |
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In questi
versi malinconici c'è qualche cosa che «strepita» come
l'onda, una forza ròsa da ozio, o, com'egli dice, uno
spirito guerriero che gli rugge al di dentro, e non trova
sfogo. Questa forza, ora sdegnosa, ora trista, gl'ispira il
sonetto all'Itali e il sonetto a Zacinto. Ecco versi nei
quali suona già, come presentimento, Giacomo Leopardi:
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Tu
non altro che il canto avrai del figlio
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura. |
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Questo
«illacrimata» è pieno di lacrime. Morire, e nessuno ti
piange. Ci è qui dentro il germe de' Sepolcri. È una frase
di suicida. La morte del padre e del fratello, la lontana
madre, la terra natia, la patria divisa e imbarbarita, la
fuga del tempo e il «nulla eterno» e certa bella ombra che
gli passa dinanzi fuggitiva, sono i frammenti lirici di
questa storia interiore di uno spirito distratto, scontento,
dissipato, centrifugo. È la storia di un giovine, che aveva
appena passati i venti anni.
Da questa storia usciva Jacopo Ortis. Sotto a quel nome
Foscolo scriveva sé stesso, a frammenti, secondo le
impressioni e gli accidenti: poi a mente tranquilla fissò un
disegno, stabilì le proporzioni e venne fuori un romanzo,
dove si sentono come diversi strati di formazione, mal
dissimulati dal lavoro posteriore.
Ci era già il Werther. Foscolo non l'aveva letto. L'ebbe più
tardi, e mutò, rimutò, sotto a quella impressione. Il
romanzo parve una imitazione, anzi un furto. Ma tutti lo
leggevano. E il successo fu grande, massime tra' giovani e
le donne.
Ho innanzi il Werther. E non vedo come si è tanto disputato
su questi due romanzi. Jacopo e Werther sono due
individualità nella loro somiglianza superficiale
profondamente diverse, anzi antipatiche l'una all'altra.
Jacopo non avrebbe mai amato Carlotta, e Werther non avrebbe
saputo che farsene di quella Teresa. Goethe ti dà un lavoro
finemente psicologico: Kant avea lasciata la sua orma in
quel cervello. Il suicidio vi appare come conseguenza ultima
e fatale di una serie di fatti interiori colti nelle loro
gradazioni più intime e più delicate. È lavoro di una
ispirazione tranquilla e concorde, in un ambiente tutto
moderno, con perfetta obiettività, voglio dire con un sereno
spirito di osservazione e di analisi. Goethe sembra Galileo
che guarda col telescopio nell'anima e ne scopre tutti i
segni. Perciò il suo romanzo è vera prosa, con tutti i
contorni e la finitura del mondo reale. Ci si vede un
popolo, il cui ideale si sviluppa in mezzo a tutte le
condizioni della realtà.
Il lavoro di Foscolo è al contrario poesia in prosa. È lui,
quale natura ed educazione, quale illusioni e disinganni lo
avevano formato. C'è lì dentro Venezia tradita, Isabella
perduta e la memoria di Laura e della madre e degli amici,
l'uomo senza patria, senza famiglia e senza Dio, col corpo e
coll'anima errabonda nel vuoto di una vita contraddittoria e
inutile: ci è tutta una tragedia nazionale in tutta una
tragedia individuale. Ma la tragedia non è materia del
libro, è il suo antecedente. Siamo alla fine del quinto
atto; la catastrofe è succeduta, pubblica e privata; al
protagonista non resta che puntarsi la spada sul petto come
Catone, o, come un personaggio di Alfieri, «cacciarsi un
coltello nel cuore per versare... il sangue fra le ultime
strida della patria». Qui comincia il libro; qui, dove cala
il sipario, comincia la rappresentazione. Jacopo ricomincia
una vita nuova, al cui ingresso sta il suicidio, come una
tentazione cacciata via. Vita nuova, perché l'antico Jacopo
è morto e se n'è formato un altro. Patria, virtù, giustizia,
libertà, scienza, gloria, «i raggi della sua mente», sono
divenuti fantasmi e illusioni. Regna la forza: l'uomo è lupo
all'uomo: pochi illustri sovrastano a tanti secoli e a tante
genti, anzi, spogliati della magnificenza storica, gli eroi
di Plutarco son come gli altri: antichi e moderni, tutti si
valgono: «umana razza!». È la situazione del suicida. Quando
Bruto disse: - «O virtù, tu non sei che un vano nome!» - il
suicidio era già compiuto nell'anima. Jacopo vive, e non sa
che farsi della vita, vive come chi domani s'ucciderà. Ha
tanto vigore d'intelletto, e fa vendere i suoi libri: a che
serve la scienza? Ha tanto ardore di passione, tanta
ambizione, tanta sete di gloria, tanto bisogno d'amare e di
essere amato, è così giovane, quasi comincia ora a vivere:
ma a che serve il vivere? Questo è il nuovo Jacopo, sorto
sulle rovine dell'antico. Era tutto fede, credeva alla
libertà, credeva alla scienza, credeva alla gloria: al primo
urto della realtà rinnega e bestemmia tutto, anche sé
stesso. La tragedia non ci è più: ci è una situazione lirica
nata dalla tragedia. È il suicidio in permanenza, sviato,
interrotto, contrastato, indugiato, perché in quella forte
natura è ancora freschezza e potenza di vita che su'
disinganni ricrea nuovi inganni... Una situazione così tesa
fin dal principio potea dar materia ad un canto, come è la
Saffo; non se ne potea ricavare un romanzo, se non
stirandola e riempiendola di accessori fortuiti, non
generati intrinsecamente dal fatto. Dove non è generazione,
è stagnazione. Nel Werther c'è qualche cosa nell'anima che
si move, si forma, si sviluppa, con un progresso fatale: c'è
tutta una storia psicologica. Qui Jacopo è dal principio
all'ultimo nella situazione esaltatissima del suicida, una
specie di delirio con rari intervalli. Sicché sotto le
apparenze più concitate senti la palude, l'acqua morta. E
più si va innanzi, più questo sentimento si aggrava.
Se da una situazione così lirica non potea uscire un
romanzo, potea tanto meno uscirne una prosa e quella prosa
naturale e semplice che Foscolo vagheggiava. Perché a essere
vera prosa semplice e naturale non basta sciogliere i
periodi, sopprimere i legami, tagliare le idee medie,
cacciar via le parentesi, gittar giù tutto il pesante
bagaglio della prosa letteraria. Questo non è che lavoro
negativo. A quella prosa boccaccevole e pedantesca Foscolo
ha sostituita una prosa poetica, che nel suo andamento
asmatico e saltellante manca di tono e di gradazione, perché
manca di analisi, e riesce povera e monotona fra tanta
esagerazione di colorito. Niente è più lontano dal semplice
e dal naturale che questa prosa sintetica e scultoria che è
non la vita in atto, ma un formulario della vita e presso
che non dissi la sua astrazione rettorica. Perché Foscolo,
volendo combattere la rettorica, non può fuggire alle sue
strette, rappresentando sentimenti così esaltati e così
protratti. Situazioni così ideali, così superiori alla vita
comune, vogliono il verso per loro espressione. Mettetemi la
storia di Lauretta o di Gliceria in verso, con quelle stesse
immagini, e ne uscirà una storia eterna, come Ofelia e
Nerina. La prosa non può rendere ciò che di aereo e di
fuggitivo si stacca da queste fragili creature, se non per
virtù di analisi, individuando e realizzando, come è in
quella immortale Cecilia del Manzoni. Ma è appunto l'analisi
che manca a Foscolo, la pienezza e la varietà della vita
reale. Senti una sola corda; manca l'orchestra; manca
soprattutto la grazia, la delicatezza, la soavità, quella
certa interna misura e pacatezza, dov'è il segreto della
vita. E non mi meraviglio che, comprendendo così finemente
Omero, lo abbia reso così infelicemente.
Questo mondo di Foscolo, così com'è, rimane una vuota
idealità, a cui manca il naturale nutrimento della vita
reale, e che si nutre di sé fino alla consunzione. Questa
vuota idealità già la senti in Alfieri, che si edifica essa
il suo mondo e se lo figura e atteggia a sua guisa, senza
trovarvi riposo o soddisfazione, perché quel mondo è sempre
lei, e più vi si dimena e grida, più scopre la sua
generalità. Gli è che l'Alfieri non riassume un mondo, come
Omero, o Dante, ma sta all'ingresso di un mondo da venire.
La realtà che vagheggia, è ancora una vuota idealità, ma
vogliosa, impaziente, credula, confidente, che, non potendo
ancora avere un corpo, se ne forma uno di sé stessa, e
concepisce la vita come un suo vapore... Alfieri è
l'illusione. Foscolo è il disinganno. E tutti e due sono la
vuota idealità del loro secolo. L'uno non ne ha la
coscienza, anzi ha l'orgoglio e la fiducia di chi si sente
nella vita; l'altro ne ha una coscienza che l'uccide. L'uno
ha tutta l'energia dell'illusione, quella energia che ispira
i grandi pensieri e i grandi fatti. L'altro ha tutte le
disperazioni del disinganno, quelle disperazioni da cui
escono le nuove illusioni e le nuove speranze. Senti il
vuoto in cui si dibattono in quell'ingrandimento posticcio
che hanno tutte le cose nella loro immaginazione. Quell'ingrandimento
è la realtà ancora in idea, fuori del limite o della misura,
non ancora nella mobilità e varietà del suo divenire, ma
fissata e cristallizzata, come è la vita nella sua
astrazione, perciò monotona ed esagerata.
Questi fenomeni non sono dunque capricci individuali, sono
necessità psicologiche della storia. Alfieri e Foscolo sono
la voce della nuova Italia in quella sua prima apparizione
innanzi allo spirito; idea ancora vuota, ma non più
accademica, piena di energia e destinata a vivere. Perciò il
libro di Foscolo, meno perfetto artisticamente che il
Werther, ha molta più importanza nella storia dello spirito.
È il testamento di quel gran secolo, il suo grido di dolore
innanzi alla caduta di tutte le sue illusioni. Il disinganno
uccide Jacopo, ma non uccide Foscolo. Se fu sua intenzione
di avvezzare con quell'esempio la gioventù al disprezzo
della morte, scelse una via cattiva. Per giungere alla morte
non era bisogno di far tanta strada, quanta ne fece Jacopo.
Il vero è che il suicidio era tradizione classica, virtù
romana, divenuta cantabile in Metastasio e rifatta tragica
in Alfieri. In Foscolo ha ancora un significato più moderno.
È la tisi dell'anima, propria delle nature energiche, alle
quali manchi l'alimento della realtà. È l'idea che
attraversa il cervello di un giovane a venti anni, come era
Foscolo, nel primo disinganno, e non ancora entrato nella
serietà della vita.
L'esercizio della vita scampò Foscolo da quella consunzione.
Nel suo sentimentalismo ci era sempre il tribuno che
«ululava», lo spirito guerriero che gli ruggia dentro. Il
suo dolore ha la stessa forma; è furore, maledizione,
ribellione; è forza compressa in forzato ozio, che vuol
traboccare. E non mancò l'occasione. Combatté per l'Italia a
Cento, alla Trebbia, a Novi, a Genova. Ivi, in quell'ozio di
caserma, troviamo già un altro Foscolo, guarito e
ringiovanito. La vita militare gli rinfresca le impressioni,
gli rinnova l'aria. Stringe relazioni, loda e gli piace di
esser lodato, si mette in comunicazione con illustri uomini,
prende gusto a' piccoli piaceri della vita, ha i suoi amori,
i suoi duelli, le sue polemiche, ha insomma una vita comune,
epilogata in quel verso:
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Amor, dadi, destrier, viaggi e Marte. |
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Nel 1802,
quando aveva già ventiquattro anni, escono in luce i suoi
sonetti malinconici, e insieme le sue odi A Luigia
Pallavicini e All'amica risanata, che attestano la sua
guarigione. A quei sonetti lapidarli, dove la vita è come
raccolta e stagnata al di dentro, succede la classica ode
ne' suoi ampi e flessuosi giri, dove l'anima si espande
nella varietà della vita. In questo suo classicismo a colori
vivi e nuovi senti la freschezza di una vita giovane guarita
da quel sentimentalismo snervante, e risorta all'entusiasmo,
incalorita dagli occhi negri e dal caro viso e dall'agile
corpo e da' molti contorni della beltà femminile, tra balli
e canti e suoni d'arpa. In questo mondo musicale e
voluttuoso l'anima si fa liquida, si addolcisce, e spunta la
grazia; le «corde colle» si maritano all'«itala grave
cetra»:
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Ebbi in quel mar la
culla .... |
|
La società
cominciava a domesticare questo uomo. Se non era «cortigiano
in maschera di Catone», secondo la frase dispettosa di
Monti, si acconciava alla necessità della vita e agli usi e
alle convenienze, pur borbottando, e con una certa mala
grazia, come chi patisce violenza. L'idea della vita, quale
natura ed educazione gli avevano formata, rimaneva intatta;
voleva in quella sua febbre di gloria passare alla posterità
non solo per i suoi scritti, ma ancora per l'eroica
integrità del carattere: sentimento vòlto facilmente in
ridicolo presso un popolo, nel quale da più secoli il
pensiero era separato dalla vita. E se era costretto a far
gl'inchini d'uso e a stringer la mano a persone che in cuor
suo pregiava poco, se aveva lasciato la posa tribunizia di
Niccolò Ugone, se mostravasi meno intollerante in un mondo,
nel quale gli era pur forza di vivere, non per questo faceva
getto della sua dignità personale; e nella sua povertà, fra
gli acuti stimoli di una natura dissipata e rigogliosa,
avida di piaceri. tirata al magnifico, quando con un po' di
rimessione e di «saper vivere» era così facile arricchire,
volle rimaner sul suo piedistallo, come un eroe di Plutarco.
Questa alterezza morale era rimprovero alla mediocrità, e
non gliela sapevano perdonare, e l'imputavano a vanità, e,
non potendo più chiamarlo Niccolò Ugone, lo chiamavano «ser
Nicoletto». Certo, un po' di ostentazione c'era in quel suo
disdegno, un po' di prosa gli era rimasta, mancavagli quella
divina semplicità nella onestà, che rende meno aspro il
contrasto con la vita volgare; ma io desidererei a molti
questa, chiamasi pur vanità, che produce nella vita tutti
gli effetti della virtù più rigida. Un mondo più elevato e
nobile viveva certo nell'anima del Foscolo e, ciò che è
molto, non smentito dalla vita... Ed è da questo mondo
solitario, custodito con tanta cura dentro di sé e diffuso
di un'ombra di malinconia che escono i Sepolcri.
In questo carme Foscolo sviluppa tutte le sue forze, e in
quel grado di verità e di misura che è proprio di un ingegno
già maturo. Quel suo sentimentalismo petrarchesco della
prima giovinezza, quel suo fosco lezioso e caricato alla
maniera di Rousseau o di Young, è appena un velo di mestizia
sparso sopra il pensiero, che gli dà un raccoglimento e una
solennità quasi religiosa. Ti par di essere in un tempio, e
che la tua anima si apra ai sentimenti più elevati. Quella
energia tribunizia, un po' declamatoria, che senti nelle
imprecazioni di Jacopo, qui acquista il tono pacato di una
forza sicura e misurata. Quel suo filosofismo, malattia del
secolo, e che è anche malattia di Jacopo, il quale prima di
uccidersi ti dà una filosofia del suicidio, qui è altezza di
meditazione profondata nelle più intime regioni della
moralità umana. Quel suo classicismo di obbligo, una specie
di abbellimento convenzionale, entro il quale la vita perde
la purità dei suoi lineamenti, qui lascia la sua faccia
mitologica e diviene umano. Ilio e la Troade ci è così
vicino, come Firenze e Santa Croce. Quella sua vasta
erudizione, quel mondo del pensiero umano sigillato nella
sua memoria, quei riti religiosi, quei costumi di popoli,
quelle sentenze di oratori e di filosofi, quei frammenti
poetici, qui gli ritornano avvivati nel foco della sua
immaginazione, attratti nell'armonia del suo mondo, e gli
galleggiano innanzi come natura vivente; fantasmi di tutte
l'età e di tutte le genti, penetrati e fusi da un solo
spirito e divenuti contemporanei. Quella sua abilità
tecnica, che nelle Odi mostra ancora le sue punte e le sue
reminiscenze, qui è l'eco immediata e armonica di un inondo
superiore e in lontananza, di cui, non sai come, ti giungono
i riflessi, le ombre e i sussurri. Tutte queste forze
sparpagliate, esitanti, che non avevano ancora trovato un
centro, sono raccolte e riconciliate in questo mondo pieno e
concreto, dove ciascuna trova nelle altre il suo limite o la
sua misura. L'Italia non aveva ancor visto niente di simile.
La lirica quale te la dava Monti o Cesarotti, era «cadenza
melodrammatica», un prolungamento di Metastasio. Sotto forme
dantesche il fondo rimaneva sempre arcadico, puramente
letterario. La coscienza era estranea a quel lavoro
dell'immaginazione: malattia dello spirito italiano da gran
tempo. Quella vuota forma, dopo di aver per più secoli
esaurita se stessa, finiva cantabile e musicabile, mera
sonorità. Quando la forma non era vuota, era falsa e
ipocrita, esprimendo sentimenti non partecipati dall'anima,
amori senza amore, e un patriottismo senza patria, una
religione senza fede, e uno sfoggio di sentenze nobili e
morali senza moralità. Il mondo poetico era tutto
superficie, un mondo esterno formato dall'immaginazione,
senza alcuna eco di dentro: indi quel suo carattere
convenzionale e retorico. Bisognava rifare un mondo
interiore, ricostituire la coscienza. Questo lavoro iniziato
nelle lettere da Parini e Alfieri era continuato in Foscolo,
non senza un po' di orpello e di rettorica perché,
anch'essi, si dimenavano nel vuoto; quel loro mondo, patria,
libertà, scienza, virtù, gloria era ancora in idea, semplice
aspirazione. Ne' Sepolcri apparisce per la prima volta nel
suo carattere d'intimità, come un prodotto della coscienza e
del sentimento. Questa prima voce della nuova lirica ha non
so che di sacro, come un Inno; perché infine ricostituire la
coscienza è ricostituire nell'anima una religione. La pietà
verso i defunti, il culto delle tombe è prodotto da' motivi
più elevati della natura umana, la patria, la famiglia, la
gloria, l'infinità, l'immortalità: tutto è collegato, tutto
è una corda sola nel santuario della coscienza. Una poesia
tale annunziava la risurrezione di un mondo interiore in un
popolo oscillante tra l'ipocrisia e la negazione. Non è già
che Foscolo smentisca sé stesso. C'è sempre in lui del
vecchio Jacopo, La sua filosofia è in aperta contraddizione
col suo cuore. Jacopo, diceva: - A che serve la scienza, a
che serve la vitae -. Foscolo dice: - A che servono i
sepolcri «è forse men duro il sonno della morte all'ombra
de' cipressi e dentro le urne confortate di pianto?» -. Come
la scienza e come la vita, così la pietà dei defunti non è
che una illusione. Ma in Jacopo, si sente l'amarezza del
disinganno che gli fa rifiutare ogni consolazione e cacciar
da sé tutte le sue illusioni. Foscolo si è riconcialiato con
la vita, e di quel sentimento amaro non gli rimane che un:
pur troppo! «Vero è ben, Pindemonte!» E non respinge le sue
illusioni, ma le cerca, le nutre, le difende in nome della
natura umana contro la dura verità. La nuova legge che
contende il nome ai morti e vuole in una fossa comune Parini
e il ladro, offende in lui l'«homo sum», il suo sentimento
di uomo. Sia pure un'illusione; anzi purtroppo è una
illusione; ma, come Diogene, ha l'aria di dire a quei nuovi
legislatori: - «Lasciatemi libere le mie illusioni!» Il
culto delle tombe era fondato sulla credenza
dell'immortalità dello spirito, della risurrezione dell'uomo
in un altro mondo: ivi attinge Young le sue aspirazioni.
Purtroppo questo non è: mancata è questa illusione. Ma
potete voi distruggermi la natura umana? E nella natura
umana cerca Foscolo la nuova poesia delle tombe. Il nulla
eterno, quel pensiero che rode Jacopo e lo affretta alla
morte, qui si riempie di calore e di luce; le urne gemono,
le ossa fremono, i morti risorgono nell'affetto e
nell'immaginazione dei vivi. - E tu perché lasci sulla terra
una famiglia, una patria, la tua memoria, scendi consolato
nella tomba, sicuro di sopravvivere. Quella tomba sei tu: e
là, cenere muto, vivi ancora, operi, hai un'azione
sull'umanità. Là, tu parli ancora a' tuoi, tu raccomandi a
concittadini la sanità della vita, tu ispiri i fatti
magnanimi; là vengono a interrogarti i secoli, a evocarti i
poeti e gli eroi; e tu produci ancora, tu generi di te i
grandi uomini. - Su questa base generale della natura umana
sorge la fraternità de' secoli e delle nazioni, e i fantasmi
d'Ilio e di Maratona si confondono con le ombre di Galileo e
di Alfieri: mitologia, antichità, tempi moderni sono
sviluppati in una stessa atmosfera, parlano la lingua
universale delle tombe, e, la pietà delle prime «umane
belve» e la «pietosa insania» delle vergini britanne ti par
contemporanea. Mondo delle ombre e delle illusioni, da cui
esce rifatto il mondo interiore della coscienza, esce l'uomo
restituito nella sua fede, ne' suoi affetti e ne' suo,
sentimenti; perché solo chi ha viscere umane, chi ha
coscienza d'uomo può trovare nei sepolcri quelle ombre e
quelle illusioni. I monumenti marmorei sono inutile pompa a
quelli che non hanno vita interiore, e che ancor vivi sono
già uomini morti e seppelliti.
Tale è questo mondo di Foscolo, il risorgimento delle
illusioni, accanto al risorgimento della coscienza umana.
L'immaginazione non ci sta per sé, e non lavora dal di
fuori, come è in Vincenzo Monti; ma è il prodotto della
coscienza, è fatta attiva dai sentimenti più delicati e più
virili della vita pubblica e privata. O piuttosto non è
semplice immaginazione, è fantasia, che è nell'arte quello
che nella vita è la coscienza, il centro universale e
armonico dello spirito. Quei fantasmi che escono dalle tombe
non sono il prodotto ozioso dell'immaginazione; sono le
creature di tutta l'anima nella serietà delle sue credenze e
dei suoi affetti, perciò forme, che hanno in sé le orme
della loro origine, e, come direbbe Platone, ricordevoli,
penetrate e improntate di quei pensieri e di quei sentimenti
che le hanno create; anzi è qui, in questi pensieri e in
questi sentimenti, che hanno la loro poesia. Il silenzio di
mille secoli sarebbe stupido, se non avesse a fronte
l'armonia delle Muse, animatrici del pensiero umano. E che
sono quelle urne, se non vi aggiungi: «confortate di
pianto»? Cassandra che guida i nepoti alle tombe e intuona
il carme funebre, mostrando in lontananza la risurrezione di
Troia nei versi di Omero, è una concezione tra le più
originali, in quel suo carattere sacro di una pietà
contenuta, che ti commuove di più. La figliola di Priamo,
alzandosi nella contemplazione dei tempi lontani, acquista
la imparzialità di una voce della storia, quasi anima
profetica dell'umanità; ne nasce un sublime umanizzato. Le
rimembranze della scuola, mera esteriorità, qui ritrovano la
lor anima, sono ricreate in un mondo interiore, che riceve
da quella lontananza di secoli un carattere di solennità,
come innanzi all'eterno. Le illusioni sono così vivaci, che
le forme talora ti balzano innanzi per sola virtù
dell'armonia; come sono i fantasmi di Maratona, appena
abbozzati, che ti si compiono nell'orecchio. Centro di
questo mondo funerario che si stende per i secoli è il
Tempio di Santa Croce. Ti sfilano innanzi quei morti
illustri, ciascuno con la sua scritta in fronte, quasi il
poeta volesse cogliere quelle ombre a volo e fissarle con un
tratto di pennello. L'immaginazione educata al culto di quei
grandi gli fa trovare forme originali, che li ricrea quasi,
ti dà di loro una nuova e più profonda coscienza. La
magnifica apoteosi, a cui serve di sfondo il paesaggio di
Firenze non è tanto turbata dal dolore della bassezza
presente, che faccia dissonanza o contrasto; il dolore è
puro di amarezza, temperato da una certa rassegnazione alle
alterne voci della storia, e l'animo rimane alzato, e guarda
in lontananza nuove prospettive. Questa elevazione
dell'animo in quella pace religiosa tiene in continuo sforzo
la fantasia, la quale come popola gli avelli di fantasmi,
così riempie le parole d'immagini, e ti forma un mondo di
una grandezza sepolcrale davvero, che esce più dall'oscuro
che dal chiaro, più dall'ombra che dalla luce. In questo
cumulo di ombre ti senti in presenza dell'infinito. Il Tempo
che «traveste» le reliquie della terra e del cielo, una
Forza che operosa affatica le cose di «moto in moto», il
Tempo che con sue fredde ali spazza le rovine e gli avanzi
che Natura «a sensi altri destina»,queste e simili immagini
gotiche ti rendono il vuoto, il silenzio, le tenebre di
questo mondo della morte, non toccato ancora dall'uomo
vivente. Ti senti come di notte e innanzi a un cimitero, con
l'immaginazione percossa, e le proporzioni ti si confondono,
e ti giunge non so quale senso di oscuro infinito tra il
lugubre e il grottesco. Ma in questo mondo naturale penetra
l'uomo e vi porta la luce e la misura, delicatezza, soavità,
grazia, tenerezza, vi porta la sua umanità. Questo limite
tra quelle tenebre, questa grazia tutta greca tra quel
grottesco e quel gotico, questa fusione di pensieri, di
sentimenti e di colori così diversi danno un carattere di
originalità a questo mondo, sono la sua personalità. Così le
cagne fameliche e la «immonda upupa» e il «mozzo capo» del
ladro e il muggito dei buoi sono un lugubre grottesco,
mescolato con le immagini più gentili del sentimento umano
raccolte intorno alle profanate ossa di Parini. Il lugubre,
il grottesco, il gotico, il tenebroso, l'indefinito, che più
tardi sotto nome di romanticismo invase l'arte, cominciava a
venire a galla, e fu gran parte nel successo di questa
poesia. Ma qui appare, come un mondo naturale, ancora
biblico e primitivo, quasi uno strato inferiore di
formazione, in riscontro di un mondo umano e civile, che se
lo sottopone e se lo assimila. L'uomo penetra in quel inondo
naturale col suo cuore e coli la sua immaginazione, con
tutte le sue illusioni, e lo illumina e lo infiora.
|
Rapian gli amici una favilla al sole
A illuminar la sotterranea notte,
Perché gli occhi dell'uom cercan morendo
Il sole, e tutti l'ultimo sospiro
Mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
Amaranti educavano e viole
Su la funebre zolla; e chi sedea
A libar latte, e a raccontar sue pene
A' cari estinti, una fragranza intorno
Sentia qual d'aura de' beati Elisi. |
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Quella
favilla rubata al sole, l'uomo che cerca morendo la luce, le
acque che educano viole sulla «funebre zolla», i viventi che
raccontano le loro pene ai loro estinti, e insieme con
questo il lezzo dei cadaveri avvolto agl'incensi, e le città
meste di effigiati scheletri, e le anime del purgatorio che
chiedono gemendo il loro riscatto agli eredi, ti dà un
chiaroscuro di effetto irresistibile, che non solo è
l'impronta naturale di questo mondo della morte popolato
dalle illusioni dei viventi, ma è lo stesso genio di
Foscolo, mescolanza di sentimentale e di energico, giunta
ora ad una perfetta fusione, e divenuta l'unità e la
sostanza del suo mondo.
L'oscillazione che produsse questa creazione nel cervello di
Foscolo fu così potente, che per lungo tempo gli tenne
agitate le fibre, quasi armonia già muta che si continua
ancora nel tuo orecchio. E altri sepolcri vi fermentavano
sotto altri nomi, e uscivano fuori a frammenti, come i versi
della sibilla, senza che gli fosse possibile venire a una
compiuta formazione. Rimasero progetti, come l'Alceo,
l'Oceano, la Sventura. Di questi frammenti insieme connessi
e aggiustati uscirono ultimamente le Grazie. Il concetto è
quello medesimo che nei Sepolcri. È il mondo umano e civile
che succede all'età ferina. Ma nel cammino il concetto si è
ingrandito, e ha preso l'aspetto di un poema. Non è il suono
della coscienza umana innanzi alla tomba, che è una vera
situazione lirica, cioè a dire l'anima in una condizione
determinata, che le mette in moto il suo mondo interiore, ma
è la storia e la metafisica di questo mondo interiore, una
storia dell'arte nei suoi inizi, nel presente e
nell'avvenire. Non è dunque più una poesia, ma una lezione
con accessori poetici. Né è meraviglia che di questo Carme
rimangano vivi alcuni accessori interessanti, senza che tu
abbia una idea ben chiara del dove o come siano appiccati ad
una totalità artificiale e laboriosa. Peggio è che, per
rendere poetica la sua storia, Foscolo l'ha fatta
sotterranea, soprapponendovi una storia delle Grazie, come
un involucro di quella, involucro denso e intricato, e che
se talora ha qualche interesse, è meno per quello che
significa, che per quello che esprime. Il miele è dolce a
mangiare; ma quel miele di Vesta, gustato dall'Ariosto, quei
favi che gli fura il Berni, e che sfuggono in parte al
Tasso, sono un cibo insipido. Il velo delle Grazie varrà
bene il cinto di Venere; ma, se mi vuoi sforzare a guardarci
sotto una storia, io l'odio e non lo guardo più. Se è lecito
comparare le piccole con le cose grandi, tra i Sepolcri e le
Grazie corre quella relazione, che tra la Margherita e
l'Elena, tra la prima e la seconda parte del Faust: con
questa differenza, che nella seconda parte sono pure amabili
finzioni, sotto alle quali si nascondono concetti degnissimi
di essere scoperti e meditati, dove sotto a questi veli, a
queste are e a questi favi non si nasconde che una storia
volgare. L'astrazione che è nel concetto si comunica anche
alla forma, raggomitolata, incastonata, lucida e fredda come
pietra preziosa.
Concepisco Goethe, che comincia col Werther e giunge al
Torquato Tasso. È la calma superiore dell'artista, che dopo
i giovanili tumulti dell'anima conquista nella realtà il suo
equilibrio e la sua armonia. Anche nelle Grazie posa quello
spirito guerriero, che ruggía nello antico Jacopo, e di cui
senti le agitazioni in certe scene dell'Ajace e della
Ricciarda. Nelle Grazie il concetto della vita è altro. È il
vecchio concetto di Aristotele, la purgazione delle
passioni, la tranquillità dell'anima risanata dalle
passioni, ciò che Foscolo chiama il sistema epicureo. E se
questo concetto fosse nel suo cuore e nella sua vita, com'è
nella mente, avremmo il nuovo poeta. Ma è un concetto, non è
un sentimento, e non risponde alla sua vita turbolenta,
scissa, con tante velleità, fra tante contraddizioni. Quando
io leggo quel suo paradiso delle Grazie, alte sugli uomini e
sulle loro passioni, e leggo le sue lettere così
appassionate, e lo accompagno nelle sue lotte contro pedanti
e cortigiani e nei suoi disinganni politici e nei suoi amori
e nelle sue strettezze e nei suoi furori apocalittici, e
nelle amarezze dell'esilio, e nelle sue maledizioni agli
avversari che lo calunniavano e alla patria che l'obliava;
dico: - Povero Foscolo! tu dovevi portarti appresso fino
all'ultimo dì le tue illusioni e le tue passioni, e le
Grazie non ti risero, e quella tranquillità, che era il tuo
paradiso, non la trovasti nell'arte, perché ti fu negata
nella vita -. Il nuovo concetto rimase in lui ozioso: rimase
aristotelico o epicureo: non divenne Foscolo. E vien fuori
con tutto l'apparato dell'erudizione, in una forma finita
dell'ultima perfezione: ci si vede l'artista consumato;
appena ci è più il poeta.
Le Grazie segnano già il passaggio alla critica. Non c'è più
l'ideale: c'è una metafisica dell'ideale. Foscolo aveva
familiari i critici francesi; aveva studiato Winckelmann,
Vico, Bianchini; era eruditissimo, ed era acuto nella sua
erudizione. Nominato professore a Pavia, si mostra così
nuovo nelle sue opinioni letterarie, come nelle sue poesie.
Nella sua Prolusione tenta una storia della parola sulle
orme di Vico, censurata da parecchi in questo o quel
particolare, ma dai più ammirata, come nuova e profonda
speculazione. Il suo valore, anzi che nelle sue idee, è nel
suo spirito, perché non è infine che una calda requisitoria
contro quella letteratura arcadica e accademica, combattuta
da tutte le parti e resistente ancora, contro quella prosa
vuota e parolaia, e contro quella poesia che suona e non
crea. E non solo egli cerca nella letteratura cose e non
parole, in ciò preceduto dal suo maestro Cesarotti, ma vi
cerca la serietà di un mondo morale, la sua concordia con la
vita. Qui toccava il male nella sua radice. Mancava alla
letteratura italiana la coscienza, e perciò mancava ai
letterati la dignità, e continuava l'oscena tradizione dei
loro ignobili antecessori, poeti, istoriografi e giornalisti
di corte. Questo mercato dell'ingegno, che fa simile lo
scrittore a pubblica meretrice, anzi a peggio che meretrice,
la quale, se vende il corpo, serba libera l'anima, accendeva
di bile il Foscolo, e lo teneva in guerra con tutto quel
volgo dotto in livrea. Ora questa maniera accademica di
considerare i più precisi doveri della vita, questa
vigliacca distinzione tra la teoria e la pratica, questo
mondo della coscienza predicato in prosa e in verso con
tanta enfasi e con tanta pompa, e negato con tanta
sfacciataggine nella vita, era il tarlo non solo della
letteratura, ma della società italiana, e non c'era e non
c'è speranza di vero risorgimento nazionale, finché il
sentimento del dovere e la serietà della coscienza non sia
una virtù volgare, penetrata nella vita. Era la prima volta
che si udiva dalla cattedra un concetto così elevato della
letteratura, e da uomo che predicava con l'esempio. La
stessa tendenza è manifesta negli scritti critici, coi
quali, esule, illustrò la patria. La critica era tutta
intorno alle forme e al meccanismo: tal letteratura, tal
critica. Gravina, Cesarotti, Beccaria miravano ad una
critica più alta, la quale non era in sostanza che un
meccanismo ragionato o filosofico. Nessuno sospettò che la
vita, come nella natura, così nell'arte vien da di dentro, e
che ove non è mondo interiore, non è mondo esterno che viva,
ancorché correttissimo e splendidissimo nel suo meccanismo.
Foscolo è il primo tra i critici italiani che considera un
lavoro d'arte come un fenomeno psicologico, e ne cerca i
motivi nell'anima dello scrittore e nell'ambiente del secolo
in cui nacque. Quando Cesari raccoglieva «le bellezze di
Dante» e Giordani rettoricava sulla Psiche, Foscolo avea già
scritto il suo Discorso sul testo della Commedia di Dante e
i suoi Saggi sul Petrarca. Critica psicologica, la cui
importanza se pare oggi non molta per la superficialità del
contenuto, rimane pure grandissima per la sua tendenza,
guardandovisi quasi più l'uomo che lo scrittore, più le cose
che le forme, e più la vita interiore che l'esterno
meccanismo. In questa reintegrazione della coscienza o di un
mondo interiore accordavasi il poeta, il professore e il
critico. Nessuno gli può contrastare questa gloria. È il
centro, ove convergono tutte le sue facoltà e gli dà una
fisionomia. |