LA VITA DEI
SENTIMENTI E LA RELIGIONE DELL'ARMONIA
Ma il
pensiero filosofico e politico del Foscolo - ch'io mi sono
ingegnato di venire ricostruendo - non è ancora tutto il
mondo interiore di lui. È la sua ragion pura - se così posso
dire -, non ancora la sua ragion pratica. E la sua teoria,
non il suo sentimento; che spesso è in aperta antitesi con
quella. Si potrebbe anzi dire che non c'è alcuno dei
principii che gli vedemmo affermare, il quale non sia
contraddetto, o limitato, in questa o quella parte dei suoi
scritti. Quando il Cattaneo scriveva che il Foscolo
«precedeva col pensiero tutta la sua generazione», diceva
una cosa alquanto indefinita, né forse esattissima riguardo
alle idee politiche del Foscolo, delle quali principalmente
si intrattiene lo scrittore lombardo; ma profondamente vera,
ove si riferisca al mondo sentimentale del Foscolo. Il
pensatore astratto è - dice bene il Cattaneo - «figlio del
suo secolo»; e, direi anzi, è più antico della sua
generazione; non si contenta di essere un sensista della
scuola di Locke: anche vuol essere un politico della scuola
di Hobbes e del Machiavelli. Ma l'uomo, nel suo complesso,
sente l'insufficienza se non pure l'inanità di quel
pensiero; e negli strati meno coscienti, ma non perciò meno
profondi e meno sinceri dell'anima, intende voci più intime,
più delicate e più eloquenti; voci non sai se di rimpianto o
di presentimento: che costituiscono veramente la parte più
sua del suo io...
Nel Foscolo è visibilissima quell'aria di irrequieto dolore,
quel desiderio di pace e di oblio, che fu comune agli uomini
e agli scrittori della generazione romantica, e che trovò
forse la sua espressione artistica più intiera nel Renato
dello Chateaubriand. Questo lettore di Plutarco, questo che
più volte si professa stoico, quando si scopre senza posa a
sé e agli amici è un ammalato dei mali profondi della età di
transizione: non molto dissimile in ciò dal Petrarca, di cui
perciò comprese così bene gli spiriti. Il desiderio ora
georgico, ora idilliaco, fortissimo sempre, di fuggir da una
vita troppo grave a vivere o a combattere non appare
frequente soltanto nella sua opera poetica, non si tradisce
soltanto nella sua predilezione per i poeti della campagna,
della solitudine, della astensione; quali Tibullo, il
Bertola, il Pindemonte. Con quanta compiacenza in quelle
soavissime lettere familiari pubblicate dal Perosino - egli
s'intrattiene con la madre, con le sorelle, col fratello a
parlare del suo sogno di vivere una vita tranquilla coi suoi
a Venezia: «Temprando il verno al proprio foco» ! E negli
ultimi anni lo pigliò prepotente la nostalgia della Grecia
della sua fanciullezza. Quanto spesso ed eloquente nelle
lettere alla Donna gentile suona un rimpianto e una stanca
brama di vita buona ed umile e in pace al fianco di lei!...
In realtà le più soavi parti del pensiero filosofico del
Foscolo sono frutto di un'intima bontà quasi femminea, che
troppo spesso si coprì del manto di un altezzoso stoicismo
alfieriano. Quando l'anima del Foscolo si scopre sincera, si
rivela ricca delle più umane, e, sia pure, più umili virtù.
La tenerezza del suo animo filiale è nota, e solo è
pareggiata da quella del Mazzini. Quando ebbe notizia della
morte della madre, egli quasi morì di dolore. Per la sorella
ha squisitezze materne. Rammento la lettera commoventissima,
con la quale manda in dono a lei e alla madre un anello.
Della famiglia, questo perpetuo errante sente tutta la
poesia. Gli par troppo amaro passare il giorno di Natale
lontano da essa. E negli ultimi anni, pensava a una pace
domestica, che non avrebbe goduto mai, con un misto desolato
di rimpianto e di desiderio. Se ha paura della miseria,
sente pure di quante intime dolcezze può essere madre una
non inonesta povertà. Ha sete di far del bene: è pronto a
soccorrer poveri, a difendere oppressi o vittime d'ogni
maniera: siano un padre di famiglia, sia un sergente, sia un
miserabile critico come Salvatore De Coureil, contro cui
troppo infierì la splendida bile del Monti. Piange
amaramente al patir di un povero servo, che gli é stato
fedele per molti anni. Desidera che le nobili e ricche donne
da lui amate, la Fagnani, la Giovio, diventino misere,
povere per poter offrire loro liberamente le sue lacrime più
dolci anche dell'amore. Che fosse compassionevole verso i
miseri, lo attesta il fratello Giulio. «Pietoso» è la prima
virtù che l'Isabella Teotochi rileva nel Foscolo, nel
ritratto che ci lasciò di lui. Ben egli poteva scrivere alla
Fagnani: «lo non son fatto né per la crudeltà, né per la
vendetta. Le mie opinioni sono figlie dell'esperienza, ma
sono... assai diverse dal mio cuore, che è figlio della
Natura. Oserei dirlo a Dio stesso. Nessuno ha mai pianto per
me...» E quel suo cuore era tutt'uno con le voci più intime
o più elevate della coscienza morale: «M'acquieto - scriveva
alla Teotochi nel 1809 - su la sentenza di un tribunale che
da gran tempo mi siede nel santuario dell'anima». E la
coscienza lo rimorse alcuna volta di vestire una divisa, che
non era quella del soldato d'Italia; gli rese abominevole il
«sanguineo manto» di Marte. A lui che abbiamo veduto pensare
che la giustizia sia la sanzione della forza, la coscienza
insegnava che la giustizia è nulla senza l'equità. A lui che
insegnava come la virtù è una forma di larvato egoismo, la
coscienza imponeva di guardare alla virtù con altro occhio
che di scettico: contraddizione magnanima, nella quale cadde
anche il Leopardi. Onde il Foscolo conchiudeva una stupenda
lettera alla contessina Giovio, in cui rinunziava alle nozze
da lei desiderate: «Sacrificatevi alla virtù: unica
consolazione della disavventura».
Il De Sanctis vede nelle Grazie «l'artista consumato; appena
ci è più il poeta». Certo le allegorie, le intenzioni sono
troppe; ma il poeta c'è ancora: l'espressione di un mondo
interiore e troverei a dire su quella affermazione del De
Sanctis, che le Grazie siano «l'ultimo fiore del classicismo
italiano». Il classicismo del Foscolo è tutto suo, ed è
perciò poesia. Che differenza pur fra l'omerico Prometeo e
la virgiliana Feroniade del Monti ed il carme foscoliano! In
quei poemi è un classicismo impersonale, canonico,
convenzionale, perfetto; ma ci si arriva dopo una
tradizione, dopo una ripetizione di secoli. Il classicismo
del Foscolo non ha precedenti, non può trovare un pubblico
preparato a valutarlo. Le Grazie hanno bisogno delle
didascalie del poeta. Altrimenti non ci si può render
ragione di una poesia così singolare, nei primi anni del
secolo scorso, così audace: di quell'abuso di finzioni
vecchie di secoli, e pur fresche, come se allora allora
nascessero nella poesia: di quell'atteggiamento nel poeta di
sacerdote, di guidatore di cori, di quella maniera così
seria, così jeratica di rappresentare il mondo mitico, ed il
mondo presente.
Il classicismo delle Grazie non è ornamento. È abito
spirituale: è culto. La purificazione, l'elevazione intima
all'aspetto della Bellezza è ciò che il poeta canta con
accendimento religioso. Non i motivi esteriori, ma il
profondo senso della poesia antica il Foscolo ha sentito e
riprodotto nelle Grazie. Nessun poeta forse fu mai classico
- nel significato filosofico e non soltanto rettorico della
parola - come il Foscolo. Per questo rispetto le Grazie
stanno presso la Ifigenia in Tauride del Goethe. Nel Foscolo
c'è l'adorazione della bellezza antica; e non in un senso
metaforico. Anche il De Sanctis paragona il Foscolo al
Goethe: i Sepolcri e le Grazie, con la prima e la seconda
parte del Faust; ma gli pare poco meno che stupida
l'allegoria, che si nasconde sotto le Grazie, a comparazione
di quella profondissima, che alletta i pensatori nella
seconda parte del Faust: sia pure: non è ingiuriare il
Foscolo il considerarlo di gran lunga inferiore al poeta
tedesco. Ma il critico concepisce «Goethe che comincia col
Werther e giunge al Torquato Tasso. È la calma superiore
dell'artista, che... conquista nella realtà il suo
equilibrio e la sua armonia...». Ma «nelle Grazie il
concetto della vita è altro. È il vecchio concetto di
Aristotile, la purgazione delle passioni, la tranquillità
dell'anima risanata dalle passioni, ciò che il Foscolo
chiama il sistema epicureo. E se questo concetto fosse nel
suo cuore e nella sua vita, com'è nella sua mente avremmo il
nuovo poeta. Ma esso è un concetto, non è un sentimento».
Ora io non so se la purgazione che il Foscolo domanda alla
bellezza sia davvero la serenità epicurea, né so se con
questa sia tutt'uno la catharsis, che Aristotile pone a fine
della tragedia; né credo che molto importi se questo
concetto della purgazione sia vecchio o nuovo. Ma forse
sfuggì al De Sanctis che per il Foscolo Bellezza e Virtù
tornano al medesimo: la parte didattica del poema non viene
perciò ad essere una sovrapposizione, ma sostanza di esso. E
a me pare che la religione dell'armonia occupasse l'anima
del cantore delle Grazie, e che fosse assai più che un
concetto, e che per essa il Foscolo fosse veramente, benché
in grado minor di prima, poeta: un poeta conciliato con sé e
con le cose: intimamente mutato da quello che era stato
nell'Ortis e nei Sepolcri.
Egli non è più il pellegrino sdegnoso, il reticente minacce,
l'eroe disperato. Egli canta sereno, nel mondo suo, nel
regno della bellezza, nella sua Firenze, vicino al Canova;
canta
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Fra
l'arte coronato e fra le Muse. |
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Il presente
- con le sue asprezze - non lo vede: o lo vede rivestito
della rosea placida luce del mondo antico. |