LA POETICA DEL
MIRABILE E DEL PASSIONATO E LE GRAZIE
L'anno
stesso che scriveva questi sonetti ultimi, nella Chioma di
Berenice, e specialmente nel Discorso quarto, dove parla
della «ragione poetica di Callimaco», risalendo alla natura
della poesia discorreva del «mirabile» e del «passionato»,
come necessari alla poesia lirica. In diversa misura, in
diversa tempra di quelle due doti divine, ne darà egli
stesso esempio memorando, nei Sepolcri, con più di
passionato, nelle Grazie, con più di mirabile, sempre
guadagnando di purità e segretezza, con un annullamento di
sé nella parola, un interiorizzamento, che commuoverà appena
la lirica del verso. E questo sarà il volo in altezza
dell'ultima poesia del Foscolo.
In un primo tempo si direbbe che quasi coesistessero questi
due Foscolo. E avemmo insieme il Foscolo dei sonetti e il
Foscolo delle odi, il passionato e il mirabile. Quello ricco
d'ombre, questo forse un poco fastoso. Era difficile che un
assorbimento del passionato nel mirabile avvenisse senza
distanza né distacco né fatica: quella che corse tra i
Sepolcri e le Grazie. Foscolo vide subito il progressivo
moto della sua poesia, e non già in quel Discorso quarto
della Chioma di Berenice, in quelle parole che noi poco fa
abbiamo tirato a una interpretazione personale; ma in una
lettera alla Fagnani, dei giovani anni anch'essa, e in modo
scopertissimo. Scriveva dunque il novembre del 1801
all'Antonietta: «Conserva le mie lettere... e massime questa
ultima ch'io stesso quasi direi di averti scritta col sangue
del mio cuore. Conservale: tu me le ridarai quando l'età, e
il mio cuore logorato non sentiranno più le passioni ch'ora
sento, e che allora avrò forse bisogno di dipingere». Noi
non ripeteremo «Il mio cuore logorato». Se mai diremo
qualcosa che è più vicino al cuore del Foscolo, quando
scrisse le Grazie; parleremo d'una macerazione, d'un
affinamento, d'una interna lima; e aggiungeremo la
malinconia dei fuggiti anni, il bisogno di fermarne in
qualche modo il ricordo, con un accoramento, un
addolcimento, una segretezza ignoti prima al Foscolo. E
avremo così restituito, approssimativamente, l'aria e il
senso delle Grazie. Per sentirne poi appieno il valore, il
richiamo all'Ortis, dove proprio quei motivi nacquero, sarà
la via più sicura, e darà più ricchezza di prove. Perché,
guardare alla qualità, al particolare accento di certe
espressioni che sono in quelle pagine giovanili, è come
aiutarsi a misurare il distacco tra i sonetti e le Grazie, e
perché propriamente le Grazie, nel modo più dissimulato e
arcano, sono un ritorno commosso e melodioso di certi motivi
che prima trovammo e nei sonetti e nell'Ortis.
Gli ultimi divini versi, per esempio, del secondo inno, dove
dipinge la danzatrice e la piange fuggita, fuggita come
fosse un miracolo, e gli ha lasciato negli occhi un che di
bianco, da quanto tempo avevano riposato nel cuore e
acquistato senso! Quella è Teresa, Teresa già nel primo
Ortis, sparente anche lei come un miracolo, con un che di
bianco. Ancora. Voi sapete quante parole furibonde gridò in
Foscolo l'amor di patria o, come egli diceva con espressione
alfieriana, furore di patria. E di quell'amore o furore c'è
nell'Ortis e nei primi sonetti, e nelle lettere, tutta una
estesa linea di toni varianti. Nel Velo delle Grazie, dove
nel destro lembo raffigura l'ospitalità, ecco che versi gli
detta orinai l'anima straziata, senza più strazio:
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Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;
E il destro lembo istoriato esulti
D'un festante convito: il Genio in volta
Prime coroni agli esali le tazze. |
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Agli esuli,
ha detto. Per far dimenticare, per addormire quella puntura
della rimembranza che è amore di patria, e di patria
lontana.
E quante volte il Foscolo pianse e cantò l'età fuggita, là
giovinezza che non torna! La piansero in vero tutti i poeti.
Ma in nessun altro luogo mai, come in questi versi del
Foscolo, ne è rimasto il ricordo intatto, anzi direi il
fiato odoroso; e non è, quel che io dico, se non la
trasposizione del Foscolo stesso.
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Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
E nel mezzo del velo ardita balli,
Canti fra 'l coro delle sue speranze
Giovinezza: percote a spessi tocchi
Antico un plettro il Tempo; e la danzante
Discende un clivo onde nessun risale.
Le Grazie a' piedi suoi destano fiori
A fiorir sue ghirlande: e quando il biondo
Crin t'abbandoni e perderai 'l tuo nome,
Vivran que' fiori, o Giovinezza, e 'intorno
L'urna fimerea spireranno odore. |
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In quel
«biondo crin» è la luce, l'oro dell'età bella; in quei
fiori, il rammemoramento, quasi un fiato, un respiro, che
consola l'urna funerea; che è poi tutta la nostra vita,
custode gelosa di quei ricordi e di quegli anni e di quei
giorni.
Queste sono corde, voi vedete, che vibrano appena toccate. E
così sono le parole del Foscolo in questi versi. Se vogliamo
trovar qualcosa di compagno a questo tono d'ombra delle
Grazie, qualcosa che aiuti a capire quest'arcano linguaggio,
e che infatti lo preparò, bisogna cercare la Notizia intorno
a Didimo chierico, dove appunto sono pagine grandi per
quella raggiunta potenza di dissimulare il proprio dolore,
quasi scherzando con una sorta di parlare pianissimo, e
tutto dissimulato e lontano. «Viaggiando perpetuamente,
desinava a tavola rotonda con persone di varie nazioni; e se
taluno (com'oggi s'usa professavasi cosmopolita, egli si
rizzava senz'altro». Credo di trovar la ragione di
quest'ultime ardenti e fermissime espressioni di amor patrio
in certe parole con cui Didimo stesso dà lode alle donne per
quello che avevano saputo insegnargli di più raro. E parole
cosi non era accaduto di scriverne prima nemmeno all'amorosissimo
Foscolo. Dice dunque Didimo ch'egli «usava per lo più ne'
crocchi delle donne, perch'ei le reputava più liberalmente
dotate dalla natura di compassione e di pudore; due forze
pacifiche le quali temprano tutte le altre forze guerriere
del genere umano». E avevano temperato anche le forze
guerriere di Ugo Foscolo, di questo Ugo Foscolo del tempo
delle Grazie. Sì che si potrebbe quasi dire, che se Ortis
scrisse i Sonetti, e Foscolo i Sepolcri, Didimo scrisse le
Grazie, quel Didimo che, per usare le parole sue stesse,
«teneva ormai chiuse le sue passioni; e quel poco che ne
traspariva, pareva calore di fiamma lontana» .
Ma qualcos'altro infine rimane a dire e sul più generale
tono delle Grazie, e sulla tecnica delle Grazie. Fu il De
Sanctis a osservare la composizione «per strati» dell'Ortis.
Cosa verissima. E l'osservò ancora il Fubini. Solo che nel
corso del suo libro questa riscoperta non ha il peso che
dovrebbe. Si direbbe che non ha quasi conseguenze. Foscolo,
veramente, compose sempre «per strati». Che in materia
mitologica lo portò ai famosi trapassi, a volte arbitrari, a
volte delicatamente segreti, secondo che l'arte sua crebbe e
maturò. Ma che nei punti che più lo toccavano lo fece tutto
muovere in profondo, e ricercare e trovare armonie d'una
dolcezza ignota. Nell'un caso non era mai sazio di
correggere e rifinire e aggiungere; nell'altro l'impazienza
era tutta di scoprir parole che con un minimo d'impegno, e
nei modi più piani, rinnovassero il miracolo dei poeti
grandi classici nei momenti grandi. Così, certi frammenti,
ch'egli compose per improvviso estro e coree per attrito
quando lavorava alle Considerazioni della Chioma di
Berenice, rimasero staccati e scissi, anche dove si studiò
di proseguirli, dissimulando il più possibile le connessure.
Ma gli altri, quelli intimi, quelli più suoi, quelli che
portò nell'anima per anni, e arricchì di tutta la sua
esperienza di dolore e d'arte, paiono sgorgati facili, pure
con un'aura sì preziosa, e quasi senza fatica. E qui,
proprio, la poesia ebbe, come ho detto, ufficio di catarsi,
e toccò le altezze d'una musica che direi simbolica. Qui la
composizione si fa quanto mai semplice, con un sapore
nostalgico, teneramente commosso, anzi pudicamente commosso,
quasi come un cantar dell'anima. |