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LA
LETTERATURA MINORE
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GIUSEPPE GIUSTI
Lontano dalla comprensione dei
motivi più alti del romanticismo
e del neoclassicismo che sapeva
satireggiare solo nei loro
margini inferiori di ridicola
fantasticheria o di ridicola
pedanteria, e semmai aperto alle
forme più civili del
romanticismo di scuola
manzoniana nell'amore più
semplice del concreto e del
naturale, il Giusti dispose,
sulla salda base di una umanità
schietta e sicura, di una
adeguata cultura letteraria e di
una tecnica tutt'altro che da
dilettante. Palazzeschi parlò
con naturale simpatia di
«perfezione tecnica» ed uno dei
punti che più si debbono
segnalare all'attivo del Giusti
è proprio l'incontro fra una
genuina ispirazione di satira
del «buon senso», ricca d'estro
e di musicale felicità ed una
tecnica formata su di
un'abilissima scelta di una
tradizione, a suo modo compatta
e utilizzata per ottenere una
fluidità, una capricciosa e pure
organizzata letizia di ritmo, di
modi e immagini che pare a volta
improvvisazione ed è invece
riconquista paziente.
Disse il Giusti esprimendo la
sua simpatia per la Chiocciola:
«ha un ritmo gaio e lesto come
un ragazzo» e poche volte un
autore aggiustò così bene un
rilievo critico sulla sua
poesia, dette un'indicazione
particolare che collima con
l'impressione generale del
lettore moderno: quegli
«scherzi» in cui ispirazione e
tecnica collaborano in accordo
con il fondo più vero dell'animo
giustiano, funzionando nel
rilievo di situazioni ridicole
là dove l'esperienza e la forza
del Giusti eran veramente
efficaci e intonate, sono i veri
risultati della sua personalità.
Dalla Ghigliottina alla
Chiocciola, dal Brindisi di
Girella, al Re Travicello e, in
parte, al Papato di Prete Pero,
a Gingillino, il Giusti trovò il
pieno impiego delle sue limitate
qualità, della sua fantasia
bonariamente estrosa, della sua
inventività di immaginette, di
caricature, di situazioni
rapidamente delineate senza
volontà di indugi e di scavo, e
soprattutto di ritmi festosi e
pungenti in cui compiutamente si
esprime lo sdegno e il sorriso
di chi vede dal suo punto di
vista di fiducioso «buon senso»
tante storture e tante viltà
così sciocche e così
antistoriche (e c'era l'orgoglio
della borghesia liberale contro
i vecchi cadenti regimi) che lo
sdegno non può mai essere
scompagnato dal riso. Si pensi
soprattutto al vivacissimo
svolgersi quasi di «moto
perpetuo» del Brindisi di
Girella in cui l'arruffato e
brillante ditirambo del
voltagiubba di professione si
libera in un comico,
inesauribile caleidoscopio di
trovate, di fulminei
accostamenti di parole in
contrasto (Loreto e la
Repubblica francese!) di nomi
bizzarramente accoppiati (Luigi,
l'Albero, Pitt, Robespierre,
Napoleone, Pio sesto e settimo,
Murat, Fra Diavolo, Mosca e
Marengo e me ne tengo) con
rilievi su cui non ci si può
fermare, travolti da questo
estro che rialza anche le
immagini più sbiadite e le
parole più comuni con movimenti
sinuosi ed elastici, con subite
impennate e cadute per nuovi
slanci che non sono il semplice
brio di un ritmo di
accompagnamento esterno come
parve troppo facilmente al Croce
nella sua definizione di poesia
prosastica.
Negli scherzi migliori, pur non
dimenticando il limitato ambito
spirituale da cui nascono, i
modesti ma sicuri ideali in nome
dei quali si scatenano, si può
apprezzare un valore che resiste
e che, se per essere inteso
davvero va ricollocato nelle
condizioni storiche in cui si è
formato, vale però in sé e per
sé, non cade - come temeva il
Giusti - con l'effimera vita a
cui si rivolse. E resistono le
figure create dal Giusti per il
piacere dei suoi contemporanei
(i birri e la birrocrazia,
l'ateo-salmista, l'arrivista
forcaiolo e collotorto,
l'ipocrita senza scrupoli, i
preti idrofobi, il timido beato
nel suo vile «particolare») non
per una sorta di evidenza
plastica e drammatica (i bulli
del Belli), ma per il rapido
lampeggiare di tratti e di
epiteti, fusi dentro un ritratto
essenzialmente suggerito dal
ritmo comico ed umoristico. Così
nel Re Travicello la figura del
monarca senza bene né male,
nella sua comica leggerezza e
frivolezza, è soprattutto
affidata alla comica musichetta
che si svolge pausata e leggera,
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(Là, là per la reggia
dal vento portato
tentenna, galleggia,
né mai dello stato
non pesca nel fondo;
che scienza di mondo!
Che re di cervello
è un re Travicello!...) |
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e nel finale del Papato di Prete
Pero (l'illusione del papa
liberale in cui pure cadde poi
lo stesso Giusti!) la rapida
visione della riunione dei re
della Santa Alleanza si realizza
in un rapido svolgimento tra un
accordo vivacissimo di parole
che creano fulminee un ritratto
(«dolce come un istrice») e un
inizio di discorso così
spigliato e deciso, un crescendo
di toni e parole sempre più
grosse e gustose e un taglio
forale vibrante come uno squillo
tragicomico.
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No, dicea, non va
lasciato
questo papa spiritato,
che vuol far l'apostolo.
Ripescare in pro del
cielo
colle reti del vangelo
pesci che ci scappano?
Questo è un papa in
buona fede,
un papaccio che ci
crede,
diamogli l'arsenico! |
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E in Gingillino il ritratto
dell'apprendista furfante
risulta magnificamente mediante
una sequenza di versi ammiccanti
e ricchi di accenti e di mosse
interne, disinvolti ed eccitati,
dinoccolati e fluenti, pieni di
rapide allusioni quasi da gergo
furbesco, di improvvise
fratture.
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Piglia quel su e giù del
saliscendi;
quell'occhio del ti vedo
e non ti vedo;
quel tentennio, non so
se tu m'intendi:
che dice si e no, credo
e non credo;
e piglia quel sapor di
dolce e forte,
che s'usa dal bargel
fino alla corte ...
...Andò, si scappellò,
s'inginocchiò,
si strisciò, si fregò,
si strofinò,
e soleggiato, vagliato,
stacciato,
abburattato da Erode a
Pilato,
fatta e rifatta la
storia medesima,
ricevuto il battesimo e
la cresima,
di vile e di furfante di
tre cotte,
lo presero nel branco e
buona notte. |
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Fuori di questo periodo
singolarmente-propizio, di
questa condizione particolare,
invano cercò il Giusti di
superare i suoi migliori
risultati, dopo gli anni felici
fin verso il '45. Cercò di
allargare la struttura delle sue
poesie o nel tipo quasi
novellistico del Sortilegio o in
brevi abbozzi di commediola a
dialogo (I discorsi che corrono,
Le piaghe del giorno, La guardia
civica) che sembrano preludere
al Fucini e soprattutto
(riuscendovi solo in parte nel
Sant'Ambrogio, dove la misura di
toni fra serio e comico, fra
sentimentale e burlesco limita
quanto vi è pur di fiacco
nell'andamento generale) il
Giusti cercò di adeguare con
modi meno brillanti, più
riposati, e quasi solenni la
nuova situazione del suo animo
che si veniva aprendo a una
speranza più facile, ad una
certa euforia tipica di
quell'epoca di generoso e
generico emhrassons-nous:
guardia civica, costituzione,
principi improvvisamente
liberali, papa liberale, largo
ottimismo e persino la speranza
del S. Ambrogio di un abbraccio
fraterno con gli
oppressori-oppressi e con tutti
gli stranieri una volta
allontanati dall'Italia.
E contemporaneamente la sua
poetica della naturalezza e
della semplicità che sempre più
era suggestionata dalla sua
somiglianza in chiave minore,
con la grande scuola del
Manzoni, esagerava la sua punta
verso una facilità discorsiva
(L'amor pacco), piacevole, ma
senza il piglio, il fervore che
negli Scherzi precedenti, se
poteva anche a volte sbrigliarsi
a vuoto, era spesso capace di
sollevare la poesia del buon
senso ad autentico estro. Estro
che riaffiora in certi avvii
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(Su, Don Abbondio, è
morto Don Rodrigo,
sbuca del guscio delle
tue paure ...) |
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o esplode nel finale di Delenda
Carthago mediante la ripresa e
l'acceleramento finale di un
ritornello incisivo.
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(Scriva: vogliam che
ogni figlio di Adamo,
conti per uno: e non
vogliam, Tedeschi;
vogliamo i capi col
capo; vogliamo
leggi e governo: e non
vogliam Tedeschi.
Scriva: vogliamo tutti
quanti siamo,
l'Italia, Italia e non
vogliam Tedeschi.
Vogliam pagare di borsa
e di cervello:
e non vogliamo Tedeschi
e a rivedello...) |
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ma che in genere dal S. Ambrogio
in là, è appesantito in una
poesia più lenta e senza fuoco,
meditata e seria, ma ispirata da
un animo meno fresco e meno
pungente, meno festosamente
combattivo...
Ciò che non riuscì al Giusti
nella sua poesia di questo
secondo periodo riuscì invece,
su piano nettamente inferiore
agli Scherzi, nella prosa di
quel singolare libretto
incompiuto che è la Cronaca dei
fatti di Toscana dal 1845... Qui
il Giusti toccava di nuovo il
suo terreno, si rinchiudeva nel
suo cerchio limitativo e fecondo
e proprio il titolo stesso (con
qualche aria fra Compagni e
Guicciardini) indica bene
l'interesse particolare, il
limite geografico e il limite di
prospettiva anche volontario:
cronaca e fatti. E questa
vicenda di fatti e fatterelli
(non la cultura di quegli anni,
non le idee e non una
prospettiva italiana ed europea
verso la quale il suo occhio
consapevole della propria
intensità non si volgeva) trova
di nuovo un legame, un ritmo
minuto e certo più angusto di
quello più arioso e fresco degli
scherzi migliori, ma tale da
fare fluire con continuità
piacevole questa prosa
appuntita, piena di rapide
scenette, di ritrattini
pungenti, di allusioni e di
brevi lampi di sdegno in una
specie di raccorciamento gustoso
in tempi brevi, in agili
trapassi.
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Walter
Binni | |
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