L'uomo del
Guicciardini
L'uomo del Guicciardini, quale crede dovrebbe essere
l'uomo «savio», com'egli lo chiama, è un tipo possibile
solo in una civiltà molto avanzata, e segna quel momento
che lo spirito già adulto e progredito caccia via
l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed acquista
assoluta e facile padronanza di sé.
In questo regno dello spirito il nostro uomo savio
spiega tutte le sue forze. Molto ha imparato ne' libri,
maraviglioso di erudizione e di dottrina; ma non gli
basta. Sa «quanto è diversa la pratica dalla teorica;
quanti sono che intendono le cose bene, che o non si
ricordano o non sanno metterle in atto», e come non dee
confidare alcuno «tanto nella prudenza naturale, che si
persuada quella più bastare senza l'accidentale della
esperienza». Perciò la naturale prudenza e la dottrina
accompagna con l'esperienza, ovvero «osservazione delle
cose». E non gli basta ancora. Sa pure che «la dottrina
accompagnata co' cervelli deboli o non li migliora o li
guasta»; e però anche il naturale dee essere buono, tale
cioè che non sia offuscato lo spirito dalle apparenze,
dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle
passioni. E quando hanno queste buone parti, la prudenza
naturale, e l'esperienza, e la dottrina, e il cervello
non debole, gli uomini sono «perfetti e quasi divini».
Nel nostro savio e nel nostro uomo perfetto si riscontra
dunque l' «accidentale col naturale buono», la dottrina
e la esperienza col cervello «positivo» e prudente. Ma
egli ha una qualità ancora più preziosa, senza la quale
tutte le altre sono di poco frutto, ed è la
«discrezione» o il discernere. Su' libri trova le
regole; ma «è grande errore parlare delle cose del mondo
indistintamente e assolutamente, e per dire così per
regola perché quasi tutte hanno distinzione ed
eccezione, e queste distinzioni ed eccezioni non si
trovano scritte in su' libri, ma bisogna lo insegni la
discrezione». Senza la discrezione adunque non giova la
dottrina e l'esperienza. La dottrina ti dà le regole,
l'esperienza ti dà gli esempli; ma «è fallacissimo il
giudicare per gli esempli: con ciò sia che ogni minima
varietà nel caso può essere... causa di grandissima
variazione nello effetto; e il discernere queste
varietà, quando sono piccole, vuole buono e perspicace
occhio». E perciò, «quanto s'ingannano coloro che a ogni
parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una città
condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo
quello esempio; il quale a chi ha le qualità
disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto
sarebbe volere che un asino facesse il corso di un
cavallo». Ma il nostro uomo non capita a prendere un
asino per cavallo; perché ha da natura «buono e
perspicace occhio», e legge spesso un libro suo, che il
Guicciardini chiama «il libro della discrezione».
Questo è l'uomo perfetto del Guicciardini, tutto spirito
e armato di così forti armi, naturali e accidentali. Né
è colpa sua che abbia coscienza della sua superiorità, e
disprezzi i «vulgari», e, come italiano, stimi barbari
tutti gli altri popoli, e, quantunque fortissimi e
valorosissimi, confidi di poterli vincere e farli suoi
istrumenti con la forza dell'ingegno e della coltura.
Chi studii con qualche attenzione in questo tipo
intellettuale, così com'è uscito dalla mente del
Guicciardini, e che risponde generalmente allo stato
reale dello spirito italiano a quel tempo, vedrà perché
i nostri uomini di Stato giocavano quasi con gli
stranieri, a cui si sentivano tanto soprastare per
intelligenza e per coltura, e, non che averne paura,
confidavano di poterli usare a' loro fini e a' loro
interessi particolari. - Voi v'intendete di armi, ma non
v'intendete di Stato, - dicea con orgoglio Niccolò
Machiavelli a un potente straniero.
Il nostro uomo, dotato di tante forze intellettive, e
così disciplinate, con quel suo occhio buono e
perspicace vede il mondo altro da quello che i volgari
sogliono. Non crede agli astrologi e ai teologi e ai
filosofi e a tutti gli altri che scrivono le cose sopra
natura o che non si veggono, e «dicono mille pazzie:
perché in effetto gli uomini sono al bujo delle cose, e
questa indagazione ha servito e serve più a esercitare
gli ingegni che a trovare la verità». Parla con ironia
di «Santa Maria Impruneta», che «fa piova o bel tempo»,
e delle devozioni e de' miracoli, e de' digiuni e
orazioni e simili opere pie, « ordinate dalla Chiesa o
ricordate da' frati » e dell'aiuto che Dio dà a' buoni,
e del buon successo delle «cause giuste». Stima che «la
troppa religione guasta il mondo, perch'effemina gli
animi... avviluppa gli uomini in mille errori e
divertisceli da molte imprese generose e virili». Crede
che, «dalle repubbliche in fuora, nella loro patria, e
non più oltre, tutti gli Stati, chi bene considera la
loro origine, sono violenti», né v'è potestà che sia
legittima:
«né anche quella dell'imperatore, che è fondata in
sull'autorità dei romani, che fu maggiore usurpazione
che nessun'altra»; e non quella de' «preti, la violenza
de' quali è doppia, perché a tenerci sotto usano le armi
temporali e le spirituali».
Innanzi a quest'occhio «perspicace» tutto l'antico
edificio crolla, e del Medio evo non rimane nulla. Il
regno celeste rovina e si trae appresso nella caduta
papa e imperatore. Lo spirito, adulto e per virtù
propria emancipato, si ribella contro il passato dal
quale è uscito e che lo ha cresciuto ed educato, caccia
via da sé tutte le credenze e i principii, fattori di
quella civiltà della quale egli è la corona e
l'orgoglio, e si chiude nella terra, o nella vita reale,
nel mondo naturale, così com'è e non come è immaginato,
e pone la sua gloria nell'interpretarlo, nel
comprenderlo e nel valersene a' suoi fini.
Se il nostro savio ammette «con le persone spirituali»
che la fede conduce a cose grandi, gli è non per alcuna
assistenza soprannaturale o provvidenziale, ma perché
«la fede fa ostinazione», e chi dura, la vince. Quanto a
lui non gli è bisogno la fede, perché a vincere bastano
le sue armi proprie, la naturale prudenza e la dottrina
e l'esperienza e quel suo terribile occhio «buono e
perspicace». E non ci è latebra del cuore umano che stia
nascosta a quell'occhio, e non apparenza e nebbia così
fitta che gli chiuda la via, e non vanità
d'immaginazione o impeto di passione.
Quelli che si lasciano signoreggiare da vane
immaginazioni, sono «cervelli deboli». Quelli che si
gittano nelle imprese senza considerare le difficoltà,
sono «uomini bestiali». E «chi governa a caso, si
ritruova alla fine a caso». E sono «matti» quelli che
operano secondo passione, ancorché nobile e generosa. E
sono «sciocchi» quelli che seguono il «comune ragionare
degli uomini» e le «vane opinioni del popolo». «Chi
disse uno popolo, disse veramente uno pazzo! perché è un
mostro pieno di confusione e di errori; e le sue vane
opinioni sono tanto lontane dalla verità, quanto è,
secondo Tolomeo, la Spagna dalla India».
Né è bene «stare al giudicio» di quelli che scrivono, e
in ogni cose «volere vedere ognuno che scrive: e così
quello tempo che sarebbe a mettere in speculare, si
consuma in leggere libri con stracchezza d'animo e di
corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una
fatica di facchini, che di dotti».
Il nostro uomo savio e perfetto non ha fede che nel suo
giudizio proprio, nel suo «speculare», e nella evidenza
del fatto, che scopre ogni fallacia di apparenza;
«quanti dicono bene che non sanno fare; quanti in sulle
panche e in sulle piazze paiono uomini eccellenti, che
adoperati riescono ombre!». Egli crede che i fatti umani
siano determinati dalle inclinazioni e passioni e
opinioni degli uomini, e che ci sia perciò un'arte della
vita pubblica e privata, fondata sullo studio e la
cognizione del cuore umano, scienza affatto
sperimentale. E qual maestro in quest'arte! Nessuno è
più addentro di lui ne' motivi più occulti e con più
cura dissimulati delle nostre azioni; né più sicuro in
determinare gli effetti più lontani, o quella lenta
successione di cause poco sensibili e poco osservate, le
quali spiegano quei «moti delle cose», che al volgo
pajono rovine subitanee. Fra tanta varietà di accidenti
e di opinioni e di passioni nessuna cosa lo sorprende e
lo sgomenta o lo turba, perché considera ogni cosa «etiam
minima», e di tutto sa trovare il bandolo, e nei più
diversi casi della vita prevede e provvede, da' più alti
negozii dello Stato alle più umili faccende della
famiglia. Il suo sguardo, ne' casi più improvvisi freddo
e tranquillo, è quello di un Iddio, alto e sereno sulle
tempeste, ma di un Iddio leggermente ironico, inclinato
a pigliarsi spasso degli uomini e voltarli a modo suo.
Questo tipo del Guicciardini è la «pianta uomo», come
s'era più o meno sviluppata in Italia; è la fisonomia
rimasta storica e tradizionale dell'uomo italiano
com'era in quel tempo; è quella superiorità e padronanza
dello spirito, alla quale i popoli non giungono se non
dopo molti secoli di iniziazione e di civiltà, e dove
l'Italia giunse con tanta celerità di cammino, che vi
lasciò per via gran parte delle sue forze. Onde avvenne,
che in così visibile progresso dello spirito, in così
varia e ricca coltura, in tanta prosperità, fra tanti
capolavori, quando coglieva il più bel fiore di una vita
breve e affaticata, e aveva in vista nuovi orizzonti, si
trovò esausta, e i giorni più allegri e più belli della
sua esistenza furono i giorni della sua morte. |