IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

CINQUECENTO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL CINQUECENTO

L'uomo del Guicciardini

L'uomo del Guicciardini, quale crede dovrebbe essere l'uomo «savio», com'egli lo chiama, è un tipo possibile solo in una civiltà molto avanzata, e segna quel momento che lo spirito già adulto e progredito caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed acquista assoluta e facile padronanza di sé.

In questo regno dello spirito il nostro uomo savio spiega tutte le sue forze. Molto ha imparato ne' libri, maraviglioso di erudizione e di dottrina; ma non gli basta. Sa «quanto è diversa la pratica dalla teorica; quanti sono che intendono le cose bene, che o non si ricordano o non sanno metterle in atto», e come non dee confidare alcuno «tanto nella prudenza naturale, che si persuada quella più bastare senza l'accidentale della esperienza». Perciò la naturale prudenza e la dottrina accompagna con l'esperienza, ovvero «osservazione delle cose». E non gli basta ancora. Sa pure che «la dottrina accompagnata co' cervelli deboli o non li migliora o li guasta»; e però anche il naturale dee essere buono, tale cioè che non sia offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. E quando hanno queste buone parti, la prudenza naturale, e l'esperienza, e la dottrina, e il cervello non debole, gli uomini sono «perfetti e quasi divini». Nel nostro savio e nel nostro uomo perfetto si riscontra dunque l' «accidentale col naturale buono», la dottrina e la esperienza col cervello «positivo» e prudente. Ma egli ha una qualità ancora più preziosa, senza la quale tutte le altre sono di poco frutto, ed è la «discrezione» o il discernere. Su' libri trova le regole; ma «è grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e per dire così per regola perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione, e queste distinzioni ed eccezioni non si trovano scritte in su' libri, ma bisogna lo insegni la discrezione». Senza la discrezione adunque non giova la dottrina e l'esperienza. La dottrina ti dà le regole, l'esperienza ti dà gli esempli; ma «è fallacissimo il giudicare per gli esempli: con ciò sia che ogni minima varietà nel caso può essere... causa di grandissima variazione nello effetto; e il discernere queste varietà, quando sono piccole, vuole buono e perspicace occhio». E perciò, «quanto s'ingannano coloro che a ogni parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio; il quale a chi ha le qualità disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo». Ma il nostro uomo non capita a prendere un asino per cavallo; perché ha da natura «buono e perspicace occhio», e legge spesso un libro suo, che il Guicciardini chiama «il libro della discrezione».

Questo è l'uomo perfetto del Guicciardini, tutto spirito e armato di così forti armi, naturali e accidentali. Né è colpa sua che abbia coscienza della sua superiorità, e disprezzi i «vulgari», e, come italiano, stimi barbari tutti gli altri popoli, e, quantunque fortissimi e valorosissimi, confidi di poterli vincere e farli suoi istrumenti con la forza dell'ingegno e della coltura. Chi studii con qualche attenzione in questo tipo intellettuale, così com'è uscito dalla mente del Guicciardini, e che risponde generalmente allo stato reale dello spirito italiano a quel tempo, vedrà perché i nostri uomini di Stato giocavano quasi con gli stranieri, a cui si sentivano tanto soprastare per intelligenza e per coltura, e, non che averne paura, confidavano di poterli usare a' loro fini e a' loro interessi particolari. - Voi v'intendete di armi, ma non v'intendete di Stato, - dicea con orgoglio Niccolò Machiavelli a un potente straniero.

Il nostro uomo, dotato di tante forze intellettive, e così disciplinate, con quel suo occhio buono e perspicace vede il mondo altro da quello che i volgari sogliono. Non crede agli astrologi e ai teologi e ai filosofi e a tutti gli altri che scrivono le cose sopra natura o che non si veggono, e «dicono mille pazzie: perché in effetto gli uomini sono al bujo delle cose, e questa indagazione ha servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità». Parla con ironia di «Santa Maria Impruneta», che «fa piova o bel tempo», e delle devozioni e de' miracoli, e de' digiuni e orazioni e simili opere pie, « ordinate dalla Chiesa o ricordate da' frati » e dell'aiuto che Dio dà a' buoni, e del buon successo delle «cause giuste». Stima che «la troppa religione guasta il mondo, perch'effemina gli animi... avviluppa gli uomini in mille errori e divertisceli da molte imprese generose e virili». Crede che, «dalle repubbliche in fuora, nella loro patria, e non più oltre, tutti gli Stati, chi bene considera la loro origine, sono violenti», né v'è potestà che sia legittima:

«né anche quella dell'imperatore, che è fondata in sull'autorità dei romani, che fu maggiore usurpazione che nessun'altra»; e non quella de' «preti, la violenza de' quali è doppia, perché a tenerci sotto usano le armi temporali e le spirituali».

Innanzi a quest'occhio «perspicace» tutto l'antico edificio crolla, e del Medio evo non rimane nulla. Il regno celeste rovina e si trae appresso nella caduta papa e imperatore. Lo spirito, adulto e per virtù propria emancipato, si ribella contro il passato dal quale è uscito e che lo ha cresciuto ed educato, caccia via da sé tutte le credenze e i principii, fattori di quella civiltà della quale egli è la corona e l'orgoglio, e si chiude nella terra, o nella vita reale, nel mondo naturale, così com'è e non come è immaginato, e pone la sua gloria nell'interpretarlo, nel comprenderlo e nel valersene a' suoi fini.

Se il nostro savio ammette «con le persone spirituali» che la fede conduce a cose grandi, gli è non per alcuna assistenza soprannaturale o provvidenziale, ma perché «la fede fa ostinazione», e chi dura, la vince. Quanto a lui non gli è bisogno la fede, perché a vincere bastano le sue armi proprie, la naturale prudenza e la dottrina e l'esperienza e quel suo terribile occhio «buono e perspicace». E non ci è latebra del cuore umano che stia nascosta a quell'occhio, e non apparenza e nebbia così fitta che gli chiuda la via, e non vanità d'immaginazione o impeto di passione.
Quelli che si lasciano signoreggiare da vane immaginazioni, sono «cervelli deboli». Quelli che si gittano nelle imprese senza considerare le difficoltà, sono «uomini bestiali». E «chi governa a caso, si ritruova alla fine a caso». E sono «matti» quelli che operano secondo passione, ancorché nobile e generosa. E sono «sciocchi» quelli che seguono il «comune ragionare degli uomini» e le «vane opinioni del popolo». «Chi disse uno popolo, disse veramente uno pazzo! perché è un mostro pieno di confusione e di errori; e le sue vane opinioni sono tanto lontane dalla verità, quanto è, secondo Tolomeo, la Spagna dalla India».
Né è bene «stare al giudicio» di quelli che scrivono, e in ogni cose «volere vedere ognuno che scrive: e così quello tempo che sarebbe a mettere in speculare, si consuma in leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini, che di dotti».

Il nostro uomo savio e perfetto non ha fede che nel suo giudizio proprio, nel suo «speculare», e nella evidenza del fatto, che scopre ogni fallacia di apparenza; «quanti dicono bene che non sanno fare; quanti in sulle panche e in sulle piazze paiono uomini eccellenti, che adoperati riescono ombre!». Egli crede che i fatti umani siano determinati dalle inclinazioni e passioni e opinioni degli uomini, e che ci sia perciò un'arte della vita pubblica e privata, fondata sullo studio e la cognizione del cuore umano, scienza affatto sperimentale. E qual maestro in quest'arte! Nessuno è più addentro di lui ne' motivi più occulti e con più cura dissimulati delle nostre azioni; né più sicuro in determinare gli effetti più lontani, o quella lenta successione di cause poco sensibili e poco osservate, le quali spiegano quei «moti delle cose», che al volgo pajono rovine subitanee. Fra tanta varietà di accidenti e di opinioni e di passioni nessuna cosa lo sorprende e lo sgomenta o lo turba, perché considera ogni cosa «etiam minima», e di tutto sa trovare il bandolo, e nei più diversi casi della vita prevede e provvede, da' più alti negozii dello Stato alle più umili faccende della famiglia. Il suo sguardo, ne' casi più improvvisi freddo e tranquillo, è quello di un Iddio, alto e sereno sulle tempeste, ma di un Iddio leggermente ironico, inclinato a pigliarsi spasso degli uomini e voltarli a modo suo.

Questo tipo del Guicciardini è la «pianta uomo», come s'era più o meno sviluppata in Italia; è la fisonomia rimasta storica e tradizionale dell'uomo italiano com'era in quel tempo; è quella superiorità e padronanza dello spirito, alla quale i popoli non giungono se non dopo molti secoli di iniziazione e di civiltà, e dove l'Italia giunse con tanta celerità di cammino, che vi lasciò per via gran parte delle sue forze. Onde avvenne, che in così visibile progresso dello spirito, in così varia e ricca coltura, in tanta prosperità, fra tanti capolavori, quando coglieva il più bel fiore di una vita breve e affaticata, e aveva in vista nuovi orizzonti, si trovò esausta, e i giorni più allegri e più belli della sua esistenza furono i giorni della sua morte.

Francesco De Sanctis

© 2009 - Luigi De Bellis