GIORNALI
LETTERARI DEL '700
«IL
CAFFÈ»
«La diffusione dei giornali - dicono i compilatori del Caffè
nello articolo di presentazione - fa che gli uomini che in
prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o Lombardi ora
sieno tutti presso a poco Europei». L'ingenua fede europea
alimentata dall'uguaglianza di interessi eruditi degli
archeologi e dei numismatici si fa più concreta e civile in
questi letterati che si proponevano come fine del loro
foglio quello di «spargere delle utili cognizioni fra i
nostri concittadini divertendoli come già altrove fecero e
Steele e Swift e Addison e Pope», indicando così i loro
modelli di civiltà letteraria e portando in luce per la
prima volta quella intima disposizione lombarda ad una
pratica di illuminismo militante che non abbandonerà più la
regione di Cattaneo. E proprio questo impasto così naturale
di lumi entusiastici, ma scesi in mezzo alle operazioni più
precise e terrene, e di milanese fervore (con quel tanto di
praticone e di troppo sicuro e perfino a volte di ottuso che
comporta un'aderenza così intera alla tecnica della civitas),
costituisce sempre il punto in cui simpatia umana e gustosa
attenzione si incontrano alla lettura di queste prose così
fresche e combattive. Come la leggera cornice così poco
raffinata e pure a suo modo pallidamente poetica (quella
bottega del Caffè linda e odorosa in cui si incontrano
illuminati e uomini qualunque - absit iniuria verbo -,
torpidi benpensanti e sensibili progressisti in una lieve
trama scenica di ingenua efficacia, con signori sconosciuti
che di colpo rivelano le loro brillanti qualità e lasciano a
bocca aperta i rappresentanti dei luoghi comuni, con il
levantino Demetrio, generoso e impeccabile, che trascina la
sua zimarra da Lettres persanes e la sua autorizzata
originalità di orientale in un milieu di dormienti ai quali
il caffè porta la sua eccitazione di facile simbolo
settecentesco di modernità attiva e disinvolta nelle volute
del suo profumo di moda esotica) ci fa sentire che siamo pur
sempre in mezzo a dei letterati. Ribelli si, amanti del
concreto e della statistica, precursori della più ambrosiana
praticità, ma letterati che amano un'aria di gusto intorno
ai loro articoli e che perfino al loro linguaggio efficace
(cose e non parole) adibiscono inflessioni poetiche proprio
nella sua rapidità spregiudicata: più valida di tanta prosa
toscaneggiante di quegli anni '64-'66, in cui i soci della
Società dei Pugni prolungarono più utilmente le loro letture
e le loro discussioni di Casa Verri (di cui ognuno possedeva
una chiave usufruendo a piacer suo del silenzio o della
compagnia che vi si radunava) nella pubblicazione del foglio
illuministico.
Ma è proprio tutta aria illuministica quella che circola
attraverso il Caffè e lo rende così odoroso di profumi
diversi e perfino bizzarri nell'alito costante di una
bonaria e decisa umanità civile? Non è solo qualche traccia
di grazia arcadica e l'eco di un mondo di relazioni frivole
e affascinanti nelle loro misure brevi e perfette a
sensibilizzare le discussioni progressiste, i vari Templi
dell'ignoranza o gli Elementi del Commercio o il Saggio
d'aritmetica politico o i moralistici e scherzosi Intorno
alla malizia dell'uomo, Dello bugie ecc., né l'esatta
indagine sensistica nei suoi limiti più autorizzati bastava
a far vibrare certe venature di «sensiblerie» che con le più
sottili conseguenze di uno stile preciso e brioso, con il
vigore libero di un giornalismo di vera cultura, creano
certi impasti di lingua che superano il piacere di una
programmatica rivolta alla pedanteria, di una Rinunzia
avanti notajo degli autori del presente foglio periodico al
vocabolario della Crusca. E un incanto di questa lettura
nasce appunto dalla ricchezza di spunti preromantici che si
celano a volte in raffinati «scherzi» sensistici (Frammento
sugli odori), in paradossi che esitano fra la «causerie»
illuministica e il nuovo sentimentalismo o spuntano ancora
equivoci da ragionamenti pieni di intenzioni utilitarie e
civili (come nel discorso del Lambertenghi sulle Sepolture)
oscillando fra virtù del buon cittadino e sensibilità di
animi istintivi. Ma più spesso, come la più decisa
intonazione illuministica e la più ricca è portata da Pietro
Verri, l'aura preromantica si leva dagli scritti paradossali
e appassionati del giovane Alessandro Verri (era allora un
moins de vingt-cinq ans e aveva tempo di evolvere ad
esperienze più direttamente romantiche e neoclassiche), che,
con uno stile alla brava, un po' a mano libera, combatteva
contro ogni aridità in favore del «cuore» e degli «errori
utili» quasi delle leopardiane illusioni». Letterato come «àme
sensible», letterato come riformatore progressista: questo
coesistere di elementi illuministici in pieno rigoglio e di
succhi preromantici offre una singolare durata al concetto
di letteratura attuato dal Caffé, tanto da sembrare vivo
anche ai tempi romantici del Conciliatore. Letteratura
fiduciosa ed umana, di tempi non burrascosi, ma intensi ed
onesti: e concreta preparazione di nuova civiltà e di nuova
letteratura.
«L'OSSERVATORE»
Il moralismo sempre vigoroso e rinnovatore, anche nel suo
tradizionalismo, della Frusta, si presenta invece tenue ed
elegiaco nei giornali di Gasparo Gozzi, e mentre nel Bareni
era vitale e quasi eroico nutrito di una letteratura che
giungeva all'assimilazione di Shakespeare e al rifiuto di
tutti i travestimenti arcadici, nel poligrafo veneziano era
pretesto amato e sentito di un esercizio letterario sottile
e vigilato. Quel moralismo del letterato bennato che confina
psicologicamente e stilisticamente con un edonismo saggio ed
intimo, che può appoggiarsi così su di una classica
temperanza come su un leggero pessimismo cristiano e
svolgersi con quel tanto di rigidezza che richiede un
disegno traendo un gustoso risultato anche da lievi punte
più acri e risentite. E mai così bene come nel Gozzi (il
saporoso scrittore rimasto scolasticamente celebre per i
suoi tenui sermoni e per i ritrattini dell'ipocrita o
dell'egoista) si è sentita la misura del moralismo
settecentesco nei suoi toni di società a suo modo perfetta,
ma ormai tale che i suoi effluvi più raffinati portanonelle
loro volute il saporino acidulo della novità non
barettianamente e alfierianamente rivoluzionaria. E il
milieu veneto dove poco più tardi fioriva l'educata novità
del Pindemonte, era certamente il più adatto - nobiliare e
commerciale senza vigore ma senza inutilità, cittadino e
campagnolo - a quella espressione della moralità
settecentesca più fine e meno incisiva, che furono i
giornali di Gaspare. Una fecondità continua, una sottile e
poco eloquente grafomania assicurarono l'uscita di ben tre
periodici personali, in cui il Gozzi mostrò le sue qualità
giornalistiche e il suo gusto di calligrafo moralista, di
classicista spregiudicato e sensibile ad ogni mondo formato
che suscitasse le sue delicate reazioni di stilista e le
avviasse ad una composta vibrazione, a disegni bizzarri e
leggeri, perfino a lunatiche audacie, ma senza tempesta e
clamore. Il severo e biblico Klopstock con la sua Morte di
Adamo può alternarsi, in una traduzione che smorza ogni eco
troppo prepotente in toni decorosi e pensosi, con una
versione dall'illuministico Pope e inserirsi nel Mondo
morale, in un fiorire un po' cartaceo e illustrativo di
allegorie poco accese, fantasie moraleggianti che si
svolgono poi con maggiore coerenza nell'Osservatore. Non
nella Gazzetta che, come struttura esterna e conte gusto
cronachistico, è il giornale più «giornale» del Gozzi, il
quale riprendendo i giornali inglesi (e a Venezia era già
uscita perfino una Spettatrice addisoniana) volle dare al
suo foglio un sapore di utilitarismo, di interesse cittadino
giungendo ad una formula giornalistica valida ancor oggi, ma
tutta personale e da letterato: «Il pubblico dee
spontaneamente somministrarmi di che impinguare la
Gazzetta...»; e spargendovi un'aria di falsa praticità
commerciale che subito rivela la mano del letterato, il
gusto del calligrafo curioso di vita tagliata in minute
immagini levigate, di piccoli documenti capaci di arricchire
una scrittura ambigua fra ironia di costume ed edonismo
stilistico. Ci sarà così nella Gazzetta l'annuncio di «tutto
quello ch'è da vendere, da comperare, da darsi a fitto, le
cose ricercate, le perdute, le trovate, in Venezia o fuori
di Venezia, il prezzo delle merci, il valore dei cambi, ed
altre notizie, parte dilettevoli e parte utili all'uomo». E
ne esce una piccola cronaca veneziana, cittadinesca, piena
di pezzi brevi, magistralmente immediata e raffinatissima,
alternata con nozioni diversissime di enciclopedia di un
disegno piacevole e letteratissimo : «Rosa moglie di Michele
Levantino ebreo, sabbato portorì tre figliole, una delle
quali morì subito e l'altre due il lunedì. Per essere quella
giornata mi pare che facesse troppo». Gusto di documenti
volti a leggeri scherzi o a bizzarri e quasi surrealistici
rabeschi («Ne' passati giorni fu licenziato un cameriere,
perché giunto il suo padrone a casa, il quale ha per uso di
non cenare, ma di andar subito a dormire, in cambio
d'adoperare lo scaldaletto ficcò con grandissima fretta tra
le lenzuola la torcia accesa, e cominciò a tirarla su e giù,
come se fosse stato lo scaldaletto»), o, sulla base di un
tenue realismo, a disegni tra amari e sorridenti e sempre
poco impegnativi: «La mattina del passato martedì fu
ritrovato un bambino nato di fresco, sopra una via, morto.
Sono due possenti deità Amore e Vergogna; il primo è degno
di scusa, appresso al mondo, perché almeno accresce il
popolo; ma la seconda, giunta a tal segno rende le donne più
crudeli d'ogni bestia».
Nell'Osservatore questo calligrafismo così esperto, questo
gusto spesso un po' scialbo di piccola cronaca, cedono di
fronte a disegni più vasti, a un favoleggiare sempre
allegorico e moralistico, a una ripresa di quella tradizione
moralistica cinquecentesca rinforzata da un nuovo contatto
lucianesco, che sarà così presente al Leopardi delle
«Operette». Si stende su questo giornale una nebbiolina di
monotonia, di stucchevole saggezza, sovente l'eccesso di
allegorie diluite, di chiacchiera veneziana (e quasi un
riflesso di diceria cinquecentesca e secentesca ravvivata
dalla verve del nuovo secolo) che unisce bene l'immagine del
letterato chino sui suoi volumi classici e del nobile
conversatore in salotto e in villa, del lepido amante di
riforme e del sognante predicatore poco combattivo e
fondamentalmente edonistico. |