L'ULTIMO CANTO
DI SAFFO
Cercando
nei suoi studi dell'antichità personaggi e idee conformi al
suo stato, Saffo dovette fare sull'animo suo una impressione
assai più gagliarda che non Bruto. La disperazione di Bruto
nasce dalla piena orchestra di una vita virile: l'amore
della virtù, il desiderio della gloria, la libertà della
patria, la grandezza di Roma, la fede negli Dei, nella
natura e nelle sorti umane. E quando conosce la vanità di
tutti questi amori, rimane nel vuoto. Quando ha scoperto la
vanità della vita, si toglie la vita. Ma in Leopardi di
tutta questa orchestra solo una corda vibrava, la corda
femminile. E doveva sentirsi più vivo in Saffo, che in
Bruto. La vita pubblica di Bruto gli era aliena, e nello
stato in cui la natura lo aveva messo, a quegli alti fini
non poteva avere che una partecipazione rettorica. Quella
sua esaltazione giovanile, che piace tanto nelle prime
lettere al Giordani e che gl'ispirò nobili canti
patriottici, andava sempre più diminuendo, secondo che più
in lui si raffreddavano gli spiriti vitali e le speranze
patrie..
Quegli alti fini che muovono gli uomini, non erano quasi più
in lui che fini di parata, e non avevano che troppo debole
eco nel suo intimo. Roma e Bruto avevano un'azione sul suo
cervello e anche sulla sua immaginazione; gli svegliavano un
calore di reminiscenze e di amori classici, ma non
giungevano a toccargli il cuore.
Rinchiuso nel suo particolare, freddo a ogni più grande
azione della storia, incredulo e fino talora beffardo in
tanto moto di uomini e di cose, era rimasto solo col suo
povero cuore sitibondo e insoddisfatto. Sentiva la bellezza,
desiderava l'amore, ma il suo demonio familiare gli
sussurrava nell'orecchio e gli rideva sul viso. Intatta era
in lui e anche più viva la facoltà dell'intendere e
dell'immaginare; squisita sensibilità; ma lui che cercava
amore non credeva molto alla sua facoltà di amare; gliene
mancava l'ardire, che è il calore della forza. Diresti quasi
che il nostro futuro Consalvo amava più di ricevere un bacio
che di darlo. Nella favola della Saffo dovette sentire tutto
sé stesso.
Saffo era una poetessa che fece stupire la Grecia, e oggi
ancora i suoi pochi versi rimasti ci empiono di meraviglia.
Che la Saffo suicida, l'amante non amata di Faone, sia altra
da quella, poco monta: il poeta ne ha fatto una sola. E ha
potuto così cogliere una situazione estetica delle più
interessanti.
La situazione sarebbe drammatica, quando Saffo, in luogo di
chinare il capo meditabondo delle umane sorti, protenda
tutta sé verso l'amato, che fugga dalle sue braccia. II
suicidio sarebbe la naturale soluzione di questo contrasto.
Una Saffo così fatta sarebbe conforme a quell'amore che
troviamo nei frammenti, un delirio d'anima e di corpo.
Un'altra Saffo, che ho vista, scolpita di mano di donna, è
colta in un momento posteriore, quando le convulsioni del
desiderio non placato vivono ancora come avanzi di naufragio
sulla faccia tempestosa, e la rendono animata, se non bella.
Si vede in quella faccia l'amore repulso e tutta la forza di
quell'amore.
Ma questi momenti erano già passati nella vita di Giacomo
Leopardi; non c'è più in lui la lotta, ma la catastrofe; e
coglie la Saffo a catastrofe compiuta, nell'atto che l'amore
non è in naufragio, ma è naufragato e da un pezzo. Sperò
nella lunga fede, nell'ingegno, nella gloria, ma tutto fu
nulla. L'amore repulso non è più confortato da alcuna
speranza. Amava, non ama più. E con l'amore sono cadute
tutte le illusioni dell'età giovane, ogni desiderio di
gloria e ogni sentimento della natura. Come l'ammalato che
aborre dal cibo, ella non ha più il gusto della vita. Non è
che la bella natura non giunga al suo occhio. Vede, ma non
sente più. Vede quella placida notte, quel verecondo raggio
di luna, ma l'anima rimane chiusa a ogni impressione di luce
o di moto, che non sia di folgori, nembi e tempeste. Il
bello non opera più, ci vuole il terribile. L'anima non ha
il senso di quello che l'occhio vede, quantunque
l'immaginazione per abitudine presti i suoi colori e simuli
un sentimento, rimasto nella memoria. Anzi, quanto la
memoria ritiene più le sembianze dilettose, e quanto
l'immaginazione le colorisce più, maggiore è lo strazio,
perché l'immagine torna, e il sentimento, suo compagno, non
torna più. E non solo le immagini tornano fredde e
scompagnate, ma per una illusione naturale e sommamente
poetica pare, alla repulsa, che non sia lei che le fugga, ma
che sieno loro che fuggano lei. Come Faone la fuggiva, la
fugge l'uccello e il faggio e l'aprico margo e il mattutino
albore. Il candido rivo che sottrae al suo lubrico piè le
flessuose linfe, fenomeno reale e indifferente, pare alla
reietta che sia in fuga per dispregio verso di lei,
disdegnando.
Questa è la situazione. Nel fiore della giovinezza Saffo,
reietta da Faone, ha perduta la fede in sé stessa, nella sua
lira, nel suo canto, nella sua gloria, e si è scoperta
brutta, in dispregio a tutti. Ella è quello che dicesi
comicamente una «patita». Ed avrebbe il ridicolo e la
bruttezza della patita, se affettasse questa parte. Ma la
terribile donzella è molto al di sopra della vanità e della
velleità del parere, ed esprime con sublime semplicità
quella rilassatezza della volontà e fino del desiderio, che
oggi la moda chiamerebbe anemia. Ella muore, perché non
sente più quello che intende e immagina con idee e con
colori di memoria, cioè a dire che escono da impressioni del
passato, non presenti e vive. E se in quelle idee o immagini
c'è ancora poesia, gli è per quella parvenza di fuga e di
dispregio che la natura prende nel suo cervello ammalato. La
natura è indifferente anche alla rovina del mondo. Quel
chiaro di luna tranquilla sulle stragi di Filippi sembra a
Bruto una ironia. Questo è il concetto estetico di quel
canto, e, come non si tratta di Bruto, ma di Roma, anzi del
mondo, quel concetto acquista grandezza e significato
universale, che dà alla forma l'alta intonazione della
tragedia. Bruto può spingere le sue impressioni sino alla
ribellione e alla bestemmia, e assumere l'aria di un
Prometeo, senza che vi paia niente di esagerato. La Natura
nella Saffo è, al contrario, bella e amica, come sempre. Il
canto dell'augello e il murmure del faggio è un saluto;
l'aprico margo, il mattutino albore è un riso; bella è la
rorida terra, bello è il manto del divino cielo. La Natura è
una beltà infinita, di cui nessuna parte tocca a Saffo. La
reietta di Faone è la reietta di tutto l'universo, la
«negletta», com'ella dice, «negletta prole». Tale è il
concetto estetico, che dà alla natura una parvenza nuova, e
rende possibile a Saffo l'ultima poesia. Concetto che non è
il vero, ma semplice parvenza, o, come dicesi, una verità
poetica, ciò che par vero a Saffo e a tutti quelli che sono
nel suo stato, in «disperati affetti» . Questa situazione
così circoscritta non consente quell'alta intonazione e
quella solennità di tragedia che pare nella forma del Bruto.
La forma tende invece all'elegia, e più, quanto si avvicina
più al termine. Se volessimo usare un gergo di moda, direi
che Bruto muore per congestione, Saffo per depauperimento.
La forma lì gorgoglia e ribolle; qui, cominciata maestosa e
splendida, si va rilassando a poco a poco, e finisce in un
sospiro appena sensibile, anzi non senti nemmeno più il
sospiro nelle ultime -parole, nude di ogni impressione:
|
. .
. . . . . . . . . . . il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l'atra notte, e la silente riva. |
|
Bruto e
Saffo, tutti e due riconoscono la ferrata necessità. Ma non
perché il male sia necessario, vi si acquieta Bruto, e rugge
e tempesta contro il «fato indegno». Quello che in Bruto è
un ruggito, in Saffo è un gemito. Anche lei si sente vittima
innocente: «In che peccai bambina? Qual fallo macchiommi
anzi il natale?». Ma non perciò chiama carnefice il Fato,
anzi lo chiama il Padre. Quello che a Bruto è empietà, a lei
è mistero. La nudità della sua esposizione lascia appena
scorgere la punta dell'ironia in quelle parole: «e la
ragione in grembo de' celesti si posa». In questo suo
mutismo c'è più strazio che nella violenza di Bruto. Non ha
collera, non lamento, non impeti, non espansioni, non
emozioni. Racconta la sua infelicità in plurale, come fosse
di ogni nato mortale; un dubbio assai poetico, che balena in
quei detti: «Se felice in terra visse nato mortal». La sua
storia si mescola a poco a poco con la storia di tutti. E
tranquilla sottostà al fato, che è il fato comune:
|
Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
Della gelida morte. |
|
Una calma
esposizione, che rassomiglia a un lago mortifero. E più
tranquilla è l'acqua, più micidiale è l'impressione.
Trovi qui pensieri e affetti noti del giovane poeta, anzi
sotto nome di Saffo la sua stessa situazione morale,
inquadrata e localizzata, che pure si stacca con molta
chiarezza di mezzo al colorito locale. Nel Bruto è una
terribilità, che, se conviene a romano animo, è poco nel
genio delicato del poeta, e vi è insieme una sottigliezza di
pensiero e di argomentazione, che, se è nel genio del poeta,
non è appropriata all'Eroe. Qui, al contrario, malgrado che
il colore locale abbondi e simuli vita greca, e malgrado che
la verità individuale sia perfetta, la situazione in cui è
stata immaginata Saffo, corrisponde così appuntino con lo
stato d'animo del poeta e col suo genio, che hai fusione
compita. E in verità in Leopardi ci è più di Saffo che di
Bruto, più del delicato e tenero che del terribile e del
pomposo, e quando vuol bruteggiare appaiono durezze,
latinismi, e oscurità. Anche qui, volendo dare al principio
una intonazione maestosa, cade nell'insueto e nel duro, e
senti le reminiscenze classiche.
Fino quella bellissima immagine dell'acqua in fuga sotto il
lubrico piè manca nell'espressione di fluidità e di
semplicità. Ma, andando innanzi, la forma si semplicizza e
tocca in certi punti quell'alta naturalezza vereconda, che
ammiriamo nei canti posteriori. |