IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

Giacomo Leopardi

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: GIACOMO LEOPARDI

L'ULTIMO CANTO DI SAFFO

Cercando nei suoi studi dell'antichità personaggi e idee conformi al suo stato, Saffo dovette fare sull'animo suo una impressione assai più gagliarda che non Bruto. La disperazione di Bruto nasce dalla piena orchestra di una vita virile: l'amore della virtù, il desiderio della gloria, la libertà della patria, la grandezza di Roma, la fede negli Dei, nella natura e nelle sorti umane. E quando conosce la vanità di tutti questi amori, rimane nel vuoto. Quando ha scoperto la vanità della vita, si toglie la vita. Ma in Leopardi di tutta questa orchestra solo una corda vibrava, la corda femminile. E doveva sentirsi più vivo in Saffo, che in Bruto. La vita pubblica di Bruto gli era aliena, e nello stato in cui la natura lo aveva messo, a quegli alti fini non poteva avere che una partecipazione rettorica. Quella sua esaltazione giovanile, che piace tanto nelle prime lettere al Giordani e che gl'ispirò nobili canti patriottici, andava sempre più diminuendo, secondo che più in lui si raffreddavano gli spiriti vitali e le speranze patrie..
Quegli alti fini che muovono gli uomini, non erano quasi più in lui che fini di parata, e non avevano che troppo debole eco nel suo intimo. Roma e Bruto avevano un'azione sul suo cervello e anche sulla sua immaginazione; gli svegliavano un calore di reminiscenze e di amori classici, ma non giungevano a toccargli il cuore.
Rinchiuso nel suo particolare, freddo a ogni più grande azione della storia, incredulo e fino talora beffardo in tanto moto di uomini e di cose, era rimasto solo col suo povero cuore sitibondo e insoddisfatto. Sentiva la bellezza, desiderava l'amore, ma il suo demonio familiare gli sussurrava nell'orecchio e gli rideva sul viso. Intatta era in lui e anche più viva la facoltà dell'intendere e dell'immaginare; squisita sensibilità; ma lui che cercava amore non credeva molto alla sua facoltà di amare; gliene mancava l'ardire, che è il calore della forza. Diresti quasi che il nostro futuro Consalvo amava più di ricevere un bacio che di darlo. Nella favola della Saffo dovette sentire tutto sé stesso.

Saffo era una poetessa che fece stupire la Grecia, e oggi ancora i suoi pochi versi rimasti ci empiono di meraviglia. Che la Saffo suicida, l'amante non amata di Faone, sia altra da quella, poco monta: il poeta ne ha fatto una sola. E ha potuto così cogliere una situazione estetica delle più interessanti.
La situazione sarebbe drammatica, quando Saffo, in luogo di chinare il capo meditabondo delle umane sorti, protenda tutta sé verso l'amato, che fugga dalle sue braccia. II suicidio sarebbe la naturale soluzione di questo contrasto. Una Saffo così fatta sarebbe conforme a quell'amore che troviamo nei frammenti, un delirio d'anima e di corpo. Un'altra Saffo, che ho vista, scolpita di mano di donna, è colta in un momento posteriore, quando le convulsioni del desiderio non placato vivono ancora come avanzi di naufragio sulla faccia tempestosa, e la rendono animata, se non bella. Si vede in quella faccia l'amore repulso e tutta la forza di quell'amore.

Ma questi momenti erano già passati nella vita di Giacomo Leopardi; non c'è più in lui la lotta, ma la catastrofe; e coglie la Saffo a catastrofe compiuta, nell'atto che l'amore non è in naufragio, ma è naufragato e da un pezzo. Sperò nella lunga fede, nell'ingegno, nella gloria, ma tutto fu nulla. L'amore repulso non è più confortato da alcuna speranza. Amava, non ama più. E con l'amore sono cadute tutte le illusioni dell'età giovane, ogni desiderio di gloria e ogni sentimento della natura. Come l'ammalato che aborre dal cibo, ella non ha più il gusto della vita. Non è che la bella natura non giunga al suo occhio. Vede, ma non sente più. Vede quella placida notte, quel verecondo raggio di luna, ma l'anima rimane chiusa a ogni impressione di luce o di moto, che non sia di folgori, nembi e tempeste. Il bello non opera più, ci vuole il terribile. L'anima non ha il senso di quello che l'occhio vede, quantunque l'immaginazione per abitudine presti i suoi colori e simuli un sentimento, rimasto nella memoria. Anzi, quanto la memoria ritiene più le sembianze dilettose, e quanto l'immaginazione le colorisce più, maggiore è lo strazio, perché l'immagine torna, e il sentimento, suo compagno, non torna più. E non solo le immagini tornano fredde e scompagnate, ma per una illusione naturale e sommamente poetica pare, alla repulsa, che non sia lei che le fugga, ma che sieno loro che fuggano lei. Come Faone la fuggiva, la fugge l'uccello e il faggio e l'aprico margo e il mattutino albore. Il candido rivo che sottrae al suo lubrico piè le flessuose linfe, fenomeno reale e indifferente, pare alla reietta che sia in fuga per dispregio verso di lei, disdegnando.

Questa è la situazione. Nel fiore della giovinezza Saffo, reietta da Faone, ha perduta la fede in sé stessa, nella sua lira, nel suo canto, nella sua gloria, e si è scoperta brutta, in dispregio a tutti. Ella è quello che dicesi comicamente una «patita». Ed avrebbe il ridicolo e la bruttezza della patita, se affettasse questa parte. Ma la terribile donzella è molto al di sopra della vanità e della velleità del parere, ed esprime con sublime semplicità quella rilassatezza della volontà e fino del desiderio, che oggi la moda chiamerebbe anemia. Ella muore, perché non sente più quello che intende e immagina con idee e con colori di memoria, cioè a dire che escono da impressioni del passato, non presenti e vive. E se in quelle idee o immagini c'è ancora poesia, gli è per quella parvenza di fuga e di dispregio che la natura prende nel suo cervello ammalato. La natura è indifferente anche alla rovina del mondo. Quel chiaro di luna tranquilla sulle stragi di Filippi sembra a Bruto una ironia. Questo è il concetto estetico di quel canto, e, come non si tratta di Bruto, ma di Roma, anzi del mondo, quel concetto acquista grandezza e significato universale, che dà alla forma l'alta intonazione della tragedia. Bruto può spingere le sue impressioni sino alla ribellione e alla bestemmia, e assumere l'aria di un Prometeo, senza che vi paia niente di esagerato. La Natura nella Saffo è, al contrario, bella e amica, come sempre. Il canto dell'augello e il murmure del faggio è un saluto; l'aprico margo, il mattutino albore è un riso; bella è la rorida terra, bello è il manto del divino cielo. La Natura è una beltà infinita, di cui nessuna parte tocca a Saffo. La reietta di Faone è la reietta di tutto l'universo, la «negletta», com'ella dice, «negletta prole». Tale è il concetto estetico, che dà alla natura una parvenza nuova, e rende possibile a Saffo l'ultima poesia. Concetto che non è il vero, ma semplice parvenza, o, come dicesi, una verità poetica, ciò che par vero a Saffo e a tutti quelli che sono nel suo stato, in «disperati affetti» . Questa situazione così circoscritta non consente quell'alta intonazione e quella solennità di tragedia che pare nella forma del Bruto. La forma tende invece all'elegia, e più, quanto si avvicina più al termine. Se volessimo usare un gergo di moda, direi che Bruto muore per congestione, Saffo per depauperimento. La forma lì gorgoglia e ribolle; qui, cominciata maestosa e splendida, si va rilassando a poco a poco, e finisce in un sospiro appena sensibile, anzi non senti nemmeno più il sospiro nelle ultime -parole, nude di ogni impressione:
 
  . . . . . . . . . . . . . il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l'atra notte, e la silente riva.
 

Bruto e Saffo, tutti e due riconoscono la ferrata necessità. Ma non perché il male sia necessario, vi si acquieta Bruto, e rugge e tempesta contro il «fato indegno». Quello che in Bruto è un ruggito, in Saffo è un gemito. Anche lei si sente vittima innocente: «In che peccai bambina? Qual fallo macchiommi anzi il natale?». Ma non perciò chiama carnefice il Fato, anzi lo chiama il Padre. Quello che a Bruto è empietà, a lei è mistero. La nudità della sua esposizione lascia appena scorgere la punta dell'ironia in quelle parole: «e la ragione in grembo de' celesti si posa». In questo suo mutismo c'è più strazio che nella violenza di Bruto. Non ha collera, non lamento, non impeti, non espansioni, non emozioni. Racconta la sua infelicità in plurale, come fosse di ogni nato mortale; un dubbio assai poetico, che balena in quei detti: «Se felice in terra visse nato mortal». La sua storia si mescola a poco a poco con la storia di tutti. E tranquilla sottostà al fato, che è il fato comune:
 
  Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
Della gelida morte.
 

Una calma esposizione, che rassomiglia a un lago mortifero. E più tranquilla è l'acqua, più micidiale è l'impressione.
Trovi qui pensieri e affetti noti del giovane poeta, anzi sotto nome di Saffo la sua stessa situazione morale, inquadrata e localizzata, che pure si stacca con molta chiarezza di mezzo al colorito locale. Nel Bruto è una terribilità, che, se conviene a romano animo, è poco nel genio delicato del poeta, e vi è insieme una sottigliezza di pensiero e di argomentazione, che, se è nel genio del poeta, non è appropriata all'Eroe. Qui, al contrario, malgrado che il colore locale abbondi e simuli vita greca, e malgrado che la verità individuale sia perfetta, la situazione in cui è stata immaginata Saffo, corrisponde così appuntino con lo stato d'animo del poeta e col suo genio, che hai fusione compita. E in verità in Leopardi ci è più di Saffo che di Bruto, più del delicato e tenero che del terribile e del pomposo, e quando vuol bruteggiare appaiono durezze, latinismi, e oscurità. Anche qui, volendo dare al principio una intonazione maestosa, cade nell'insueto e nel duro, e senti le reminiscenze classiche.
Fino quella bellissima immagine dell'acqua in fuga sotto il lubrico piè manca nell'espressione di fluidità e di semplicità. Ma, andando innanzi, la forma si semplicizza e tocca in certi punti quell'alta naturalezza vereconda, che ammiriamo nei canti posteriori
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Francesco De Sanctis

© 2009 - Luigi De Bellis