DALLO
ZIBALDONE ALLE OPERETTE MORALI
Non si
possono studiare le Operette Morali trascurando lo
Zibaldone: non già perché le teorie esposte nell'opera
definitiva abbiano bisogno di essere chiarite con i
materiali ancora informi della speculazione leopardiana, ma
per seguire lo sviluppo dello spirito del Leopardi, che
attraverso le discussioni del suo diario è pervenuto alla
sua opera definitiva. Dallo Zibaldone il Leopardi non ha
nemmeno ricavato il «concetto» più caratteristico delle
Operette, quello della indifferenza od ostilità della
natura, quale è enunciato nel Dialogo della natura e di un
Islandese, e che si presenta così inatteso e ingiustificato
logicamente nel corso della speculazione leopardiana durante
la composizione delle Operette: ciononostante si può ben
dire che la stesura del suo diario lo ha preparato a dare le
Operette così come noi le conosciamo. Le pagine dello
Zibaldone, nelle quali il Leopardi ha tentato di confermare
giorno per giorno la sua originaria intuizione pessimistica,
stanno tra la sua primitiva disperazione e l'opera che noi
studiamo, ineliminabili. Esse non sono soltanto il
precedente stilistico delle Operette, ma, ben più, il
necessario precedente morale. Nella prosa dello Zibaldone il
Leopardi si è esercitato a staccarsi da se medesimo, a
tradurre in un linguaggio impersonale la sua personale
esperienza a considerare i propri casi come esempi
particolari di leggi generali: in tal modo al mondo della
sua esperienza immediata ha potuto sostituirsi un mondo
concettuale che ha preso ogni giorno più per lui reale
consistenza e ha trovato nelle Operette la sua più chiara e
completa espressione.
Le Operette infatti nascono, quando il Leopardi,
ripiegandosi su se medesimo, fra le molte discussioni dello
Zibaldone, trova purificati e chiariti i motivi originari
del suo pessimismo, formulati in alcuni concetti tra logici
e fantastici, a cui egli si può rivolgere con un moto di
affetto, di amore e di odio. Non ci si attenda di ritrovare
in questi scritti quelli che sono stati gli strumenti della
sua ricerca, i concetti filosofici, offertigli dalle sue
letture: si può dire che la maggior parte delle osservazioni
dello Zibaldone che potevano avere sviluppi filosofici, è
stata abbandonata dal Leopardi. Così, se nello Zibaldone il
Leopardi discute a lungo sul fatto dell'assuefazione, che
gli sembra provare la falsità di ogni innatismo o sull'amor
proprio, che egli considera come unico movente delle nostre
azioni, all'assuefazione e all'amor proprio accenna nelle
Operette soltanto come a fatti indiscutibili e come a cosa
nota accenna, nell'Ottonieri, incidentalmente, a quella
distinzione tra amor proprio ed egoismo, che ha una parte
così essenziale nelle sue considerazioni di carattere etico,
perché con essa pare reintrodurre un criterio di giudizio
morale, pel quale sembrava non vi fosse posto nella teoria
dell'amor proprio. Parimenti nulla accoglie nelle Operette
dei pensieri intorno al bello assoluto, oggetto di così
frequenti discussioni nello Zibaldone: nulla perché i
pensieri del Parini, in cui ravvisiamo qualcuna delle
osservazioni dello Zibaldone su quell'argomento sono privi
di qualsiasi portata filosofica, e non dimostrano, come
tentavano di fare le pagine dello Zibaldone, il carattere
soggettivo del giudizio estetico, ma unicamente le
difficoltà che ci impediscono troppe volte di riconoscere il
valore vero di un'opera di poesia e perciò sembrano
presupporre un valore obbiettivo, indipendente dal nostro
giudizio. Chi passi dallo Zibaldone alle Operette, prova, ad
una prima lettura almeno, il senso di un impoverimento del
pensiero, dell'abbandono dei più schietti motivi filosofici
e con questi di non poche acute descrizioni psicologiche: ma
riconosce anche, pur che vi rifletta, che quei motivi non al
Leopardi appartengono, ma ai filosofi da lui studiati e che
egli da essi li aveva mutuati per rafforzare le sue
convinzioni pessimistiche, ma doveva abbandonarli, appena
queste gli si fossero confermate e chiarite. Un concetto, in
cui il suo sentimento non sia impegnato, non può a lungo
interessare il Leopardi: perciò egli si accosta, nello
Zibaldone, alla filosofia e subito se ne allontana, appena
che per la sua indagine hanno acquistato qualche consistenza
quei concetti, che, come persone reali, possono commuoverlo,
voglio dire i concetti di Felicità, di Piacere, di Noia, di
Dolore, di Natura. Le Operette rappresentano il momento in
cui nella speculazione del Leopardi riaffluisce, per così
dire, il suo sentimento: anche il trapasso, così brusco, da
una concezione della Natura ad una opposta che si rivela nel
Dialogo della Natura e dell'Islandese, si potrebbe spiegare
come un moto subitaneo dell'animo del Leopardi, che va oltre
le conclusioni del suo pensiero quali si erano formulate
nello Zibaldone, e si rivolge contro uno di quei
concetti-miti, su cui più si era assottigliato il suo
ingegno. Soltanto dopo la composizione di quel dialogo a
quel concetto tornerà sullo Zibaldone, tentando di
sviluppare filosoficamente la sua nuova intuizione, così
come aveva negli anni precedenti sviluppato nelle molte
pagine dello Zibaldone la sua intuizione giovanile.
Veramente protagonisti delle Operette non sono tanto quei
pallidi personaggi che si chiamano Ruysch o Colombo, Tasso o
Malambruno, che pure, come vedremo, hanno un carattere
proprio ed un valore fantastico, ma quelli che possiamo
chiamare concetti-miti di Felicità, Piacere, Noia, Dolore,
Natura, che si sono sostituiti nell'animo del Leopardi a più
concreti oggetti di odio e di amore: la Felicità assurda e
impossibile, ma vagheggiata da una invincibile nostalgia e
salutata con trepido affetto ad ogni fugace ed illusoria
apparizione, il Piacere fantasma ingannevole e vano e pur
talvolta così vicino a noi da sembrare cosa reale, la
Speranza irragionevole e pur mai del tutto vinta,
allettatrice ad una vita inutile e pur suscitatrice di liete
immaginazioni, Amore, così raro e miracoloso, che ci dona
forse l'unica vera beatitudine a noi concessa, la Natura
indifferente ed ostile, ma pur desiderata e invocata nelle
stesse parole che l'accusano. Qual meraviglia che questi
concetti prendano talvolta vere sembianze fantastiche, come
Amore nell'ultima pagina della Storia del genere umano e la
Natura nei due dialoghi in cui si presenta come
interlocutrice? Ognuno di quei concetti, non soltanto
questi, che si colorano in un'immagine, raccoglie, come si è
visto, intorno a sé, al pari di ogni immagine poetica, i
sentimenti del poeta nella loro complessità: e se non può
suscitare una commozione profonda, a cui egli partecipi con
tutto l'essere, non restano per altro pure astrazioni.
Certo le Operette suppongono un distacco della vita
immediata, e perciò una vita sentimentale fatta più tenue e
meno intensa dal lavoro dell'intelletto. Certo non si potrà
trovare nelle pagine della Storia del genere umano che
esaltano il potere delle illusioni, l'intensità poetica che
è nei versi della maturità, in cui il poeta rievoca e
rimpiange le illusioni della sua giovinezza, o nel pur
commosso inno ad Amore, figlio di Venere Celeste, la
profondità e la drammaticità di certi accenti del Pensiero
dominante: e, se taluno nella domanda di Malambruno al
demonio - Fammi felice un momento di tempo - può scorgere un
motivo analogo a quello della celebre richiesta di Faust,
nessuno potrà paragonare le due scene, quella del poeta
tedesco, che trasfonde nel suo personaggio immediatamente
tutto l'ardore dell'anima sua, e quella del poeta italiano
che non esprime una richiesta erompente schietta dal suo
animo, ma, dopo avere con la sua analisi dimostrata
l'irrealtà del piacere, si rivolge con un sorriso
melanconico a contemplare quel vano fantasma sempre
sfuggente al desiderio degli uomini. Ma non per questo sono
da escludere le Operette dal novero delle opere di poesia,
né si deve cercare la poesia delle Operette in quei passi
nei quali il poeta, come in qualche sua lettera, più
direttamente si confessa, o lascia con minore ritegno
parlare il suo cuore. Le Operette, non si dimentichi,
sorgono in un momento di relativa calma, lontano dalla
disperazione e dall'entusiasmo, dall'accorato rimpianto di
un passato irrevocabile e dall'agitazione di una passione
attuale: sono sempre, anche quelle che possono parere più
fantastiche e commosse come l'Elogio degli uccelli e il
Cantico del gallo silvestre, l'esposizione che uno spirito
pacato compie dei risultati della sua meditazione e che si
anima di vita poetica per il valore sentimentale che quelle
conclusioni hanno per lui, ma non può mai tramutarsi in
un'immediata espressione dei suoi particolari affetti, né in
una vivace e disinteressata rappresentazione fantastica,
nella quale i personaggi interessino di per sé
indipendentemente dai concetti che sono chiamati ad esporre
nel loro dialogo.
Soltanto più tardi, quando le venti operette della prima
edizione saranno già da tempo composte, e con esse anche
qualcuna di quelle che compariranno nell'edizione
definitiva, il Leopardi potrà salutare il risorgimento pieno
ed intero della sua vita sentimentale.
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Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte... |
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Allora, non
basterà più al Leopardi la prosa poetica delle Operette e la
poesia gli si presenterà spontanea, come sola capace di
accogliere i suoi ricordi, in cui si confondono l'amaro ed
il dolce, i «moti» più immediati del suo «cuore», «tristi e
cari» ad un tempo, la gioia e il dolore di una vita
rinnovata e tutta presente a sé stessa, ben diversi dai
sentimenti lieti e dolorosi che i concetti fantastici della
sua speculazione suscitavano in lui. Eppure dal Leopardi
delle Operette al Leopardi di A Silvia non crediamo di
scorgere il trapasso da un Leopardi filosofo a un Leopardi
poeta, ma da una poesia più limitata nella sua ispirazione,
inevitabilmente più povera e monotona, ad una poesia in cui
confluisce, fantasticamente trasfigurata, tutta la vita di
un individuo. |