Il linguaggio
alfieriano della vita
La Vita è
caratterizzata da un'accesa attualità di rappresentazione,
cui dà rilievo in modo particolare il linguaggio e lo stile
dello scrittore,. che giungono alla vera.e propria creazione
di vocaboli e alla sforzatura violenta degli usuali
significati delle parole. Il linguaggio delle tragedie e
delle rime rimane pur sempre linguaggio poetico
tradizionale, sia pure con una maggiore energia espressiva,
mentre nella prosa della Vita l'intento polemico-oratorio si
esprime con accenti nuovi e con una vera e propria forza
inventiva. Ma tale capacità inventiva è di natura
essenzialmente morale, nasce cioè da un atteggiamento
oratorio e non da un'autentica esigenza poetica, come fu per
Dante. Tuttavia nella Vita, accanto agli squarci oratori e
polemici, vanno anche individuati momenti di più raccolta
malinconia, di tristezza e solitudine. In ogni caso, però,
qualunque accento assuma la prosa dell'Alfieri, essa è
sempre dominata e ordinata da una vigile disciplina
letteraria.
Come arte di questa Vita, c'è da dire che essa, in ogni
momento, esclusa la seconda parte dell'Epoca quarta, è un
racconto di una accesa attualità: l'ora, il giorno, l'anno,
non vi esistono come tempo cronologico, ma la narrazione è
condotta sempre come sì trattasse di tempo presente. Il
vecchio presente storico degli scrittori latini, che veniva
fuori nei momenti di enfasi epica, è il verbo dissimulato e
ideale di tutta la sintassi narrativa dell'Alfieri. Il
passato è sempre attualmente vivo, nel momento in cui egli
scrive.
A cotesta attualità di rappresentazione dà rincalzo e
rilievo lo stesso vocabolario dello scrittore, che non ha
nulla di trito e di passivo; ogni parola pare nuova di
conio, o esce come arroventata da una fornace in cui tutto
il vecchio sia stato calato e colato e fuso. E i critici
hanno giustamente parlato di alfierismi. L'Alfieri, il
prosatore e lo scrittore di satire, è un violento creatore
di vocaboli, e talvolta anche un peccatore contro natura,
che farebbe scandalizzare e allibire i grammatici e gli
etimologi, poiché egli spesso sforza e perverte i
significati delle sue parole. Ciò che dà il senso quasi di
una creazione solitaria é tempestosa, all'origine stessa
della civiltà letteraria. E questo stesso si accorda con
quella natura aborigena dell'uomo e del poeta, di cui si
diceva avanti: aborigena, ci si permetta di alfiereggiare un
poco anche a noi, non nel senso razzistico o territoriale,
ma in quell'altro mitologico o metaforico, come di uomo che
non ha altri dietro di sé, che non conosce antenati, che non
è immigrato ma autoctono, un generato originariamente in
quel mondo e in quella nuvola di idee e di fantasmi, che
sono la sua vita, il suo dialogo d'azione e il suo teatro.
«A voler esser brevissimo - scrive egli in una lettera al
Calsabigi del 6 settembre 1783 - cosa indispensabile nella
tragedia, e che sola genera l'energia, non si può esserlo
che usando modi contratti, che oscuri non sono a chi sa le
proprietà di questa divina lingua, ma possono ben parerlo
alla lettura per chi non le sa». Lo scrittore non deve mai
essere, egli aggiunse, lasso e triviale, e, a dire il vero,
tale è l'indole della lingua nostra, « da non mai temere in
lei la durezza, bensì molto la fluidità troppa per cui le
parole sdrucciolano di penna a chi scrive, di bocca a chi
recita, e, con la stessa facilità, dagli orecchi di chi
ascolta ». Sono osservazioni queste che l'Alfieri viene
facendo a proposito del linguaggio poetico delle sue
tragedie, e che si sarebbe tratti ad estendere alla lingua
più prosastica della Vita e delle Satire; ma bisogna pur
nettamente distinguere sulla maniera alfieriana della
tragedia e dei sonetti, e sugli alfierismi veri e propri
della poesia e della satira. Il linguaggio delle tragedie e
delle Rime, quelle d'amore e della sua solitudine morale, è
il linguaggio poetico tradizionale, e il nuovo lì sta nei
modi contratti ed energici, mentre gli alfierismi sono
l'invenzione é lo sfogo di un bisogno polemíco-oratorio, più
che lirico, dello scrittore.
Per cotestí alfierismi, lo scrittore settecentista,
inventore violento, e mai sguaiato, di molti modi di dire,
si direbbe che avesse un po' della tempra dantesca, quasi
per affini necessità storiche: il trecentista creava una
lingua, formando ed esemplando il genio dei vari dialetti
italiani e del suo fiorentino parlato sulla sintassi del
latino e delle lingue provenzale e francese, già avviate nel
loro sviluppo letterario; e il settecentista, che
sopravviene dopo la barbarie riflessa degli artifizi vacui e
sterili del Seicento e delle languidezze e fiacchezze del
Settecento, per energia nativa e violenza agonistica di
temperamento creerebbe anche lui nuovi modi sul genio di una
lingua erculea o drammatizzata come in un vivacissimo e
difficoltoso colloquio. Ma il ravvicinamento storico con
Dante contiene una verità soltanto apparente, e alla fine
risulta illusoria e ingannevole la predicata affinità tra i
due poeti: l'Alfieri, prosatore o satirico, scrive una nuova
lingua morale, non una nuova lingua poetica. Egli è un
polemista e un oratore, e non un lirico; sicché la lingua di
lui è ben lontana dal suggerire quell'impressione di
pacatezza divina che avvertiamo nel fremito della lingua
dantesca, che è quella, nelle stesse parti satiriche o
sarcastiche, di un poeta: Sicché resta soltanto una metafora
la maniera dantesca dell'Alfieri creatore di un nuovo
vocabolario, come soltanto per metafora si dice che
nell'Alfieri vi è qualcosa di michelangiolesco per lo sforzo
dà lui durato nel tirocinio linguistico e metrico: se
Michelangelo è il poeta dello sforzo violento e incompiuto.
Si parli pure di sforzo michelangiolesco, ma è uno sforzo
quello dell'astigiano talvolta leggermente calcolato.
L'Alfieri ebbe qualcosa di troppo umano e sociale nella sua
violenza creatrice, essendo egli sempre un po' preoccupato
delle impressioni della platea: abbandonandosi a quegli
stravolgimenti bizzarri e iperbolici di parole dotte e
auliche o di quelle correnti dell'uso quotidiano, si avverte
sempre, tra gli interstizi, un sorriso del pervertitore e
violentatore estetico. Ciò che è una forma di discrezione e
di buon gusto, e di indulgente modestia di uomo tra gli
uomini. Lì il superuomo rinnega se stesso, e si apparenta al
volgo letterato e ha una certa soggezionaccia dei barbassori
dell'università, come egli chiamava i suoi pedanti.
È noto poi che l'ambizione sua fu quella di scrivere una
prosa e una lingua toscana, tanto che egli soffrì sempre per
un fantasticata incompiuta disciplina di toscanesimo
linguistico.
Tutto questo si ricorda per dire che l'originalità artistica
della Vita è assai complessa: da un lato c'è la suggestione
oratoria degli squarci polemici, che sono la civetteria
tragica ed eroica dell'uomo, e dall'altra ci sono i motivi
di poesia più ingenua, come quei tratti in cui egli esplora
le zone ombrose della sua anima germinale di uomo amoroso e
malinconico, o espande il gusto delle corse pazze, del
movimento e della velocità, o esalta la sua protervia di
volitivo come una forma di uggia, o infine canta la
tristezza della sua solitudine selvaggia di nomade europeo.
Ma anche là dove prevale il prosatore violento, l'oratore
bizzarro, il polemista fantasioso, dobbiamo riconoscere
un'alta disciplina letteraria nello scrittore. Tutta l'opera
dell'Alfieri, e anche il sue, vivere, tumultuoso ed
anarchico nella materia, furono sempre agonisticamente
frenati nella forma. |