Stato e
virtù nel Machiavelli
Il medioevo cristiano e germanico ha lasciato un
retaggio di incommensurabile efficacia al mondo moderno
d'occidente, e cioè il senso più acuto e doloroso per i
dissidi tra la ragione di Stato e la morale e il
diritto, il sentimento sempre rinnovantesi che
spregiudicata ragione di Stato in sostanza è peccato,
peccato contro Dio e le norme divine, peccato ancora
contro la santità e l'inviolabilità del buon diritto
antico. Anche il mondo antico aveva già avvertita e
criticata la peccaminosità della ragione di Stato, ma
non s'era addolorato troppo, La positività dei suoi
valori vitali gli dava agio a considerare con una certa
serenità i maneggi della ragione di Stato come sfogo di
forze naturali irrefrenabili. La peccaminosità antica
era una peccaminosità ingenua e non ancora terrorizzata
e inquietata dall'abisso fra il cielo e l'inferno aperto
poi dal cristianesimo. La visione dualistica del mondo,
affermata dal cristianesimo dogmatico, influì poi
profondamente anche sui tempi nei quali il cristianesimo
tendeva a liberarsi dai dogmi, e improntando il problema
della ragione di Stato d'una così cupa tragicità quale
non aveva mai avuta nel mondo antico.
Era dunque una necessità, storica che fosse pagano colui
che diede inizio alla storia dell'idea della ragione di
Stato nel moderno occidente e conferì il suo nome al
machiavellismo; perché soltanto un pagano, ignaro degli
orrori dell'inferno, poteva accingersi con semplicità
antica all'opera della sua vita di investigare l'essenza
della ragione di Stato.
Niccolò Machiavelli fu il primo ad assolver questo
compito. Ciò che qui importa è la sostanza della cosa,
non la parola che manca ancora in lui. Machiavelli non
concentrò in un termine unico i suoi concetti intorno
alla ragione di Stato. Per quanto amasse le espressioni
forti e sintetiche, e ne coniasse più d'una, pure
proprio per idee supreme che lo animavano non sentì il
bisogno di un'espressione verbale, quando la cosa gli
sembrava evidente e lo pervadeva tutto. Così si è notato
per esempio ch'egli non s'espresse mai intorno al vero
fine ultimo dello Stato, e si è concluso erroneamente
che non ci avesse meditato. Invece, come vedremo in
breve, non fece che dedicarsi ad un ben determinato fine
supremo dello Stato, e così pure tutto il suo pensiero
politico non fu che costante riflessione sulla ragione
di Stato.
Una costellazione del tutto speciale, grandiosa e
impressionante insieme, ha suscitato il mondo del
pensiero machiavellico, e cioè il simultaneo
manifestarsi d'una catastrofe politica e di un
rinnovamento spirituale. Nel secolo XV l'Italia godeva
l'indipendenza nazionale e, per usare la pregnante
espressione del Machiavelli (Principe, c. 20), era in un
certo modo bilanciata dal sistema dei cinque Stati:
Stato della Chiesa, Napoli, Firenze, Milano e Venezia,
scambievolmente intenti a tenersi a freno. Nel
Machiavelli, imbevuto di tutti gli elementi realistici
della civiltà del rinascimento e direttamente provocato
dalla istituzione allora sorgente delle legazioni
stabili, venne elaborandosi un'arte politica dalle
regole salde e sicure che culminava nel principio del
divide et impera, insegnava a vedere le cose senza ombra
di preconcetti, e superava con facilità e noncuranza le
preoccupazioni religiose e morali, ma si dava ad azioni
e combinazioni relativamente semplici e meccaniche.
Solamente con le catastrofi che si successero in Italia
dal 1494 in poi, con la invasione dei Francesi e
Spagnoli, col tramontare dell'indipendenza di Napoli e
di Milano, le precipitose mutazioni di governo a Firenze
e, più di tutto, con la strapotente pressione straniera
su tutta la penisola appenninica, si maturò lo spirito
politico e raggiunse quell'acutezza, profondità e forza
di passione che si rivelò nel Machiavelli. Segretario
diplomatico della repubblica fiorentina fino al 1512, il
Machiavelli s'imbevette di tutte le conquiste dell'arte
politica italiana fino allora e cominciò già a tracciare
pensieri originali proprio a questo proposito. Questi si
fecero strada quando un rovinoso destino colpi lui e la
repubblica nello stesso anno. Egli era un vinto, per
qualche tempo un perseguitato, e per riacquistare il
credito perduto gli fu necessità accarezzare i nuovi
dominatori, i Medici, allora ritornati al potere. In tal
guisa si aperse una scissura tra il suo interesse
personale, egoistico, e l'ideale repubblicano della
libertà e dello Stato-città fino allora professato. La
sua grandezza sta nell'aver tentato di appianare e
risolvere interiormente questo dissidio. Così dal
torbido e non troppo pregevole crogiolo del suo egoismo
spontaneo e spregiudicato sorsero i nuovi poderosi
concetti sul rapporto di repubblica e monarchia e sulla
nuova missione nazionale di quest'ultima nella cerchia
dei quali si trovò anche spregiudicatamente riprodotta
l'essenza della ragione di Stato, in tutti i suoi
elementi puri e impuri, nobili e abietti. Nel 1513,
allorché scrisse il libricino del Principe e i Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio, egli si trovava sul
principio della quarantina, ossia in quell'età in cui
gli spiriti scientifici produttivi danno spesso l'opera
migliore.
Abbiamo detto dinanzi che vi dovette concorrere anche un
rinnovamento spirituale. Machiavelli non assorbì in
tutto il suo contenuto il movimento del rinascimento;
così per esempio non partecipò delle sue esigenze
religiose e speculativo-filosofiche e non valutò troppo
le aspirazioni artistiche del suo tempo, anche se
inconsciamente imbevuto e soffuso del suo spirito
artistico. Tutta la sua passione era rivolta allo Stato,
all'indagine e all'accertamento delle sue ferme,
funzioni e condizioni di vita, per cui l'elemento
specificamente razionale, empirico e calcolatore della
civiltà del rinascimento in Italia raggiunse con lui la
sua più perfetta espressione. Sennonché questo senso
positivo dei problemi della politica di potenza, da sé
solo non avrebbe ancora significato un pieno
rinnovamento spirituale. Lo slancio e la fede che
l'animarono e dai quali sorse l'ideale di una
rigenerazione, erano in quanto il Machiavelli partecipò
ad esso, d'origine antica. L'antichità non celebrava di
certo in lui, come in tanti altri umanisti del
rinascimento, una risurrezione prettamente dottrinale e
letteraria, fatta di esaltazione scolastica, anemica e
retorica. Qualche volta, è vero, anche il suo entusiasmo
per gli eroi e pensatori antichi mostra una certa
dipendenza classicistica e deficienza critica, ma nel
complesso l'uomo antico risorse realmente in lui dalla
comunanza di sangue e dalla tradizione che in Italia non
erano mai del tutto tramontate. Quantunque il
Machiavelli dimostri alla Chiesa e al cristianesimo un
ossequio esteriore, spesso misto d'ironia e di critica,
e per quanto sia innegabile l'influenza che esercitò su
di lui il pensiero cristiano, egli è in fondo un pagano
che muove al cristianesimo (Disc., II, 2) la nota grave
accusa di aver resi gli uomini umili, deboli ed
effeminati. Egli vagheggiava con nostalgia romantica la
forza, la grandezza e la bellezza della vita antica, gli
ideali della sua mondana gloria. Egli mirava ad
instaurare nuovamente nei suoi diritti la forza generica
sensuale-spirituale dell'uomo naturale secondo natura,
nella quale grandezza dell'animo e fortezza del corpo,
fuse insieme, creano eroismo. Per tal guisa egli venne a
rottura con la dualistica etica cristiana che
spiritualizzava unilateralmente l'uomo e ne svalutava
gli istinti sensuali-naturali, ma ne conserva certi
concetti inquadranti sulla distinzione del bene e del
male; in sostanza però mira ad una nuova etica
naturalistica, libera e decisa nel seguire la voce della
natura. Chi imita la natura non può esser biasimato,
disse egli ad un certo punto, volendo scusare 1c sue
spensierate avventure amorose in mezzo alle serie
occupazioni, ché anche la natura è piena di variazioni.
Un tale naturalismo può condurre facilmente ad un
politeismo innocuo dei valori vitali. Il Machiavelli
però, anche sacrificando volentieri all'altare di
Venere, concentrò i vari e supremi valori della vita in
ciò ch'egli chiamava virtù; concetto ricchissimo,
ch'egli certamente prese dalla tradizione dell'antichità
e dell'umanesimo, ma sentì e plasmò in maniera del tutto
originale, e che racchiude sì delle qualità etiche, ma
che doveva indicare per se stesso qualche cosa di
dinamico, che la natura pone in grembo all'uomo ed è
eroismo e forza a grandi imprese politiche e guerresche,
ma sopra tutto nel fondare e conservare degli Stati
fiorenti e segnatamente liberi Stati. Infatti i liberi
Stati, di cui sommo ideale era la Roma del grande
periodo repubblicano, avevano, secondo lui, i migliori
requisiti per generare virtù. Questa comprendeva dunque
la virtù dei cittadini e la virtù dei dominatori,
devozione e sacrificio volontario di sé in favor della
collettività, come anche saggezza, energia e ambizione
dei grandi fondatori e reggitori di Stati. Egli
considerava come virtù d'ordine superiore, quella virtù
ch'era patrimonio indispensabile d'un fondatore e
governatore di Stati, in quanto questa sola valeva a
distillare, per mezzo di opportuni «ordinamenti», dal
materiale in realtà cattivo e triste della media
umanità, la virtù nel senso di virtù civile, in certo
modo una virtù di second'ordine che, traendo origine da
una organizzazione, invece che dalla disposizione
naturale, non era così durevole e salda quanto la innata
creativa virtù dei singoli grandi uomini. La distinzione
della virtù in originaria e derivata è d'importanza
capitale per la piena comprensione delle mire politiche
del Machiavelli. Essa dimostra infatti ch'egli era ben
lungi dal prestar cieca fede alla virtù naturale e
indistruttibile del repubblicano, e che giudicava anche
la repubblica piuttosto dall'alto, dal punto di vista
del dominatore, che dal basso, dal punto di vista
dell'aperta democrazia. E molto gli piaceva il proverbio
allora in voga che: «in una maniera si pensa in piazza e
in un'altra in palazzo» (Disc., I, 47). Il suo ideale
repubblicano aveva perciò sin da bel principio una piega
monarchica, in quanto egli non credeva che si potesse
richiamare in vita una repubblica senza la forza di
singole grandi tempre di organizzatori o dominatori. E
poiché il Machiavelli era compenetrato dalla dottrina di
Polibio, del ripetersi ciclico dei destini degli Stati,
per cui al fiorire d'una repubblica segue di necessità
un tramonto e una rovina, così per procacciare ad una di
queste repubbliche decadute quel tanto di virtù che
aveva perduto e di conseguenza rialzarla, egli non
vedeva altro mezzo se non a sua volta la virtù creativa
del singolo, una mano regia, una podestà quasi regia
(Disc. I, 18, e 55), che afferrasse le redini dello
Stato e lo rinnovasse. Anzi per gli Stati repubblicani
già del tutto corrotti, incapaci di rigenerarsi, egli
vedeva nella monarchia l'unica forma di governo ancora
possibile. Per tal modo il suo concetto di virtù creò un
intimo ponte di collegamento tra le tendenze
repubblicane e quelle monarchiche e, senza venir meno ai
suoi principii, egli poté fondare le sue speranze nel
principato dei Medici, al crollare della repubblica
fiorentina, e scrivere per loro il libro del Principe.
Collegamento intimo che subito dopo gli permise di
riprendere nei Discorsi anche il filo repubblicano e di
bilanciare la repubblica col principato. |