Il
linguaggio del Principe
A noi pare che il Machiavelli non può essere giudicato
con l'occhio del piagnone, ma neanche con quello
dell'uomo savio del Guicciardini a meglio di un pseudo
Guicciardini, né con quello di un tormentato romantico.
Sul piagnone, siamo ormai tutti d'accordo; ma quanto
all'uomo savio del Guicciardini, almeno così come è
stato stilizzato in una celebre ricostruzione del De
Sanctis, dobbiamo ricordare che esso è là negazione più
elegante e più smagata al tempo stesso dell'uomo del
Machiavelli che, nella scienza dell'interesse puro, pur
riesce a una forma di eroico disinteresse, ed ha
qualcosa di estremo e di rettilineo che lo fa superiore
ad ogni mediocre contingenza: il guicciardinismo può
essere una sorta di scettica benevolenza, ma non mai la
maniera più intelligente per cogliere il fondo
dell'animo e del pensiero del nostro artista eroe della
politica pura. E quanto alla interpretazione del
romantico, essa non potrà mai illuminarci sulla sublime
freddezza dello stile machiavellico, e nulla ci potrà
dire sulla serenità motteggiatrice dell'uomo, e sulla
classica compostezza e conclusività dell'opera sua.
Machiavelli non è un uomo di azione mancato e un teorico
puro, come vogliono i praticoni; e nemmeno è un'anima
perpetuamente dimidiata tra il suo fare e il suo
meditare, una crucciata anima del limbo, irrequieta pur
un suo magnanimo e insoddisfatto disio. Machiavelli è un
artistaeroe della sua scienza, l'artista-eroe della
politica pura, il quale dell'artista ha l'incanto e il
disinteresse dell'esperienza, e dell'eroe ha il pathos e
la logica rettilinea. In questa serenità e disinteresse
e in questo suo pathos è l'unità della sua vita e del
suo pensiero, che non appare turbata né da effettivi
mancamenti, né diminuita o accresciuta da patetici
contrasti. Pratica politica e dottrina politica, in lui,
sono un solo problema.
Gli uffici cancellereschi, le sue legazioni, le sue
commissarìe sono una sublimazione di esperienza (egli
trascende sempre i particolari gretti della situazione,
per cogliere il motivo universale degli avvenimenti) ;
e, per altro verso, i suoi discorsi, i suoi dialoghi, le
sue varie Scritture sono esperienze che vogliono valere
come una res gesta. In ogni caso, egli è sempre un
creatore politico, e del creatore ha la logica estrema.
Coree diplomatico dovrebbe fornire notizie utili alla
Signoria, perché questa prenda le sue decisioni, ma
egli, nell'atmosfera accesa del suo cervello, giudica,
manda, e conclude per proprio conto, consuma in pieno la
sua azione politica. «Del iudicio rimettetevene a altri»
bada a ripetergli il buon Biagio Buonaccorsi,
esprimendo, con tali parole, gli umori della Signoria,
che non vuol saperne degli ammonimenti e consigli di
messer Niccolò; ma egli non se ne dà per inteso. Le sue
migliaia di lettere ai Signori, e ai Dieci, i suoi
avvisi, le sue relazioni, sono dei saggi critici
provvisori, in cui egli viene elaborando il concetto
nuovo della politica certa, effettuale, da lui
vagheggiata; sono gli abbozzi del suo sistema
scientifico. Ma abbozzi non già d'ordine pratico,
distolti, in tempi successivi, ad essere materia di una
sistemazione superiore; abbozzi scientifici, essi
stessi, fin nella loro prima ispirazione.
Le legazioni alla corte di Francia si risolvono in un
breve scritto sul De natura Gallorum, e poi, più tardi,
nel Ritratto delle cose di Francia, e dalle legazioni
all'imperatore Massimiliano in Germania germinarono il
Rapporto delle cose d'Alemagna, il Discorso sopra le
cose della Magra e sopra l'Imperatore, il Ritratto delle
cose della Magna: aggiunte parziali, come il secondo di
questi tre scritti, o relazioni sempre più ampie o più
profonde e complesse, in cui egli vien sistemando, senza
riposo, le sue esperienze. Le quali dunque trascendono
sempre i bisogni pedestri, immediati, di quelle sue
missioni d'ufficio, e celebrano uomini avvenimenti e
situazioni nel cielo universale della storia e del
pensiero politico; e però quelle relazioni e lettere
parche non giovino alle occasioni spicciole, ma ci danno
intanto il «sapore» di quelle occasioni, che è quel
sapore che rimane, il quale opera come lievito nel
mondo, e ci fa eternamente presenti uomini e situazioni.
In questo senso, 1e singole esperienze del Machiavelli
si presentano non come una res gesta conclusa una volta
per sempre, ma come un rem gerere perpetuo. Il
Machiavelli, uomo d'azione mediocre o mancato nell'oggi,
opera come un uomo di azione nell'eternità...
Però il Machiavelli è potuto apparire come un uomo
pratico mancato, mentre egli invigilava alla pratica
eterna della vita; e, in verità, il suo gagliardo senso
dell'universale poteva essere facilmente scambiato per
povertà di motivi spiccioli della sua politica in atto.
La quale piccola politica va certamente studiata e
valutata, e gli storici fanno bene a discorrere dei
servigi resi alla Signoria fiorentina dal nostro
segretario; ma, nelle loro accuse o giustificazioni,
spesse volte è trascurato il canone necessario che
quella politica occasionale va guardata nel quadro di
una più grande politica, della politica della Ragione
eterna, non della piccola ed effimera ragione. Niccolò
Machiavelli serve implicItamente alla repubblica
fiorentina, ma perché serve alle repubbliche e agli
Stati di ogni tempo: la sua preoccupazione fondamentale
è questa non l'altra. Appunto perché la sua era la
passione per la tecnica politica nella sua purezza, egli
finiva con l'essere l'artista incantato del suo stesso
osservare e speculare: la tecnica per la tecnica, si
potrebbe dire, è l'insegna storica del suo pensiero e
della sua azione.
Si è tante volte parlato del Machiavelli artista, e si è
guardato ed esaltato la concinnità del suo stile o le
sue qualità drammatiche di impassibile narratore, e si
sono indicate questa e quella gemma lirica delle sue
prose e dei suoi versi; ma l'arte per noi non è nelle
forme, e non è nei luoghi, ma nell'atteggiamento. E il
Machiavelli fu artista, in questo senso superiore: ché
egli guardò alla politica e alla vita, con fantasia
disinteressata del «povero manovale» carducciano. Guarda
come ascenda in alto e risplenda il suo strale d'oro,
guarda e gode, e più non vuole.
Ogni sua esperienza è sempre rasserenata in questo
superiore sorriso dell'artista, anche quelle che sono le
esperienze più umilianti e le più dispettose...
Se conosciamo un Machiavelli artista nelle esperienze
disinteressate della vita politica e morale del suo
tempo, ritroviamo poi un Machiavelli eroe nel vivere e
nel condurre la logica del suo pensiero fino alle sue
forme estreme. Per questo lato, il Machiavelli è un
temperamento estremista; l'uomo che deprecò le vie di
mezzo in politica, non amò nemmeno l'aurea mediocrità
delle opinioni nel campo scientifico. «Meglio essere
impetuoso che respettivo», è una sentenza del Principe,
e come uomo di studi e come scrittore, il nostro autore
fu egli stesso più impetuoso che respettivo: quel
forzare gli avvenimenti con l'accesa maginazione; la
stessa violenza esercitata sui fatti storici spesso
tratti e dimostrazioni più impensate; il categorizzare
continuo le osservazioni particolari in princìpi di
carattere universale; il sentire le istorie, più che
come racconto di cose compiute, esse stesse come una res
gerenda il favore accordato sempre alle decisioni e ai
pensieri estremi, tutto a testimoniare cotesta
impetuosità del suo temperamento mentale, pur riuscendo
egli a distillare i suoi pensieri in opere lucidamente e
freddamente scientifiche.
In cotesto gusto artistico ed eroico al tempo stesso
delle sue esperienze, tratte alle loro più estreme
conseguenze quasi per vincerne le intrinseche aporie e
antinomie, noi fondiamo quel pathos della tecnica, che
ci pare caratteristica più vera della mente e dell'animo
del Machiavelli, lontanissimo dal puritanesimo dei
piagnoni, ma anche lontano dalla saviezza smagata ed
elegante del Guicciardini, e dalla drammaticità
tribolata dei romantici. Per quella poesia della tecnica
politica in sé e per sé, egli poté auspicare il trionfo
di un principe che riducesse sotto il suo governo la
provincia d'Italia, e al tempo stesso dolersi che un
Luigi XII, un re francioso, barbaro però, commettesse
una serie infinita di errori, che gli compromisero il
dominio delle terre italiane. E in quello stesso
trattato, che doveva fondare l'animo di un principe
italiano alla grande impresa dell'unificazione, lo
scrittore può ricordare la sua risentita risposta
all'arcivescovo di Roano «che e Franzesi non si
intendevano dello Stato», sol perché essi lasciavano
venire la Chiesa in tanta grandezza, che era poi la
grandezza stessa di quel Valentino, assunto dal nostro
autore a principe-mito della sua dottrina. Per questa
poesia della tecnica pura, egli poté provvedere al tempo
stesso a legiferare sugli ordinamenti repubblicani e a
suggerire le norme per il più antidemocratico
principato, donde l'apparente contraddizione tra lo
stato d'animo dei Discorsi e lo stato d'animo del
Principe. E con uguale compiacimento e spirito di
obiettività scientifica, poté egli proporsi il caso del
principe che giunge al governo per la sua virtù o per il
favore dei suoi cittadini, e quello del principe che vi
giunge per le vie nefarie, e illustrare le arti dell'uno
e le arti dell'altro per consolidarsi bene nello Stato;
perché se non si può «chiamare virtù ammazzare e sua
cittadini, tradire li amici, essere sanza fede, sanza
pietà, sanza religione», pure chi considerasse la virtù
di un Agatocle «nello entrare e nello uscire de'
periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare
e superare le cose avverse, non si vede perché egli
abbia ad essere indicato inferiore a qualunque
eccellentissimo capitano». E negli stessi Discorsi, dove
depreca la tirannide come antipolitica, ché gli uomini
non s'avvedono «per questo partito quanta fama, quanta
gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con soddisfazione
d'animo, ci fuggono, e in quanta infamia, vituperio,
biasimo, pericolo e inquietudine incorrono», egli
discorre il caso di un principe che non avesse altro
rimedio a tenere il suo principato, e riconosce la
necessità che questi entri risolutamente nelle vie più
crudeli, e pigli per sua mira quel Filippo di Macedonia
che tramutava gli uomini di provincia in provincia,
«come e mandriani tramutano le mandrie loro».
Sono questi modi crudelissimi - chiosa il nostro autore
- e nimici d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma
umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere,
piuttosto vivere privato, che con tanta rovina degli
uomini; nondimeno, colui che non vuole pigliare quella
prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene
che entri in questo male.
Può ancora il Machiavelli esaltarsi nel sentimento delle
libertà repubblicane, e notare come il nome della
libertà e gli ordini antichi suoi « né per la lunghezza
de' tempi né per benefizi mai si dimenticano », pure non
mancherà egli stesso di ricordare al principe che «chi
diviene padrone di una città consueta a vivere libera, e
non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella»;
sicché la via più sicura, per dominare le repubbliche, è
«spegnerle o abitarvi». Può talora il Machiavelli
celebrare negli antichi popoli l'affezione del vivere
libero, e numerare tutti i vantaggi della libertà,
maggiori popoli, connubi più fecondi, moltiplicazione
della ricchezza, incremento delle arti e della cultura,
ma può al tempo stesso celebrare la prudenza e la virtù
dei Romani che seppero fiaccare quelle libertà e
superare i popoli d'intorno, nonostante che, nello
stesso capitolo si affretti a riconoscere che «di tutte
le servitù dure, quella è durissima che ti sottomette a
una repubblica», «perchè il fine della repubblica è
enervare e indebolire, per accrescere il corpo suo,
tutti gli altri corpi». Ed egli stesso si adopererà per
vari anni, sotto il governo del buon Soderini, e a
ordinare milizie e a guidare ardui lavori d'ingegneria,
come la progettata deviazione dell'Arno, per
sottomettere a Firenze la città di Pisa, sebbene
volentieri riconosca che «Pisa dopo cento anni che l'era
suta posta in servitù da' Fiorentini», «non mai
sdimenticò il nome della libertà né quegli ordini, e
subito, in ogni accidente, vi ricorse». E ancora, nel
capitolo sulle congiure, può analizzare la tecnica delle
cospirazioni e dal punto di vista del principe e insieme
dal punto di vista dei congiurati, e assegnare le
ragioni del loro fallimento o del loro successo, dei
loro pericoli e della loro necessità; e compiacersi che
Cesare confermi una sua regola, poiché, per avere il
popolo di Roma amico, fu vendicato da lui. Proprio quel
Cesare, simbolo per Machiavelli di tirannide, e che in
altra occasione gli suggerisce una delle sue pagine più
eloquenti e più fosche, e anche piuttosto di bravura
letteraria, sulla corruttela della schiavitù politica, e
gli fa riconoscere con amara ironia «quanti obblighi
Roma, l'Italia, e il mondo, abbia» con quell'imperatore.
Tanta è la passione del nostro scrittore per la tecnica
della politica pura.
La quale va sempre riguardata in tutte le sue parti, e
con assoluta obiettività; però, per la stessa ragione,
può egli, caduto il regime repubblicano in Firenze per
il quale tanto si era industriato, chiedere di essere
adoperato dai Medici, senza temere taccia di incoerenza
politica, ché anzi «della fede sua non si dovrebbe
dubitare, perché, avendo sempre osservato la fede, egli
non debbe imparare ora a romperla; e chi è stato fedele
e buono quarantatre anni che egli ha, non debbe potere
mutare natura». «E della fede e bontà mia ne è
testimonio la povertà mia» egli conclude, e segna in una
semplice e umile frase questo che fu l'inconsapevole
epos di tutta la sua vita e di tutto il suo pensiero la
bontà, come sovrano disinteresse per l'arte dello Stato,
la fede, come eroica e tenace devozione a quell'arte. In
questa poesia e senso obiettivo dell'arte dello Stato,
il Machiavelli dirime tutte le sue apparenti
contraddizioni, e fonda l'originalità e grandezza della
sua scoperta. Un'antinomia di altro genere invece è
intrinseca a quel suo pensiero, ché quell'arte dello
Stato non è tutta l'arte di questo mondo, ma egli, nella
sua eroica caparbietà, crederà che la politica sia
tutto, e che essa sia la sola forza motrice della
storia. Cotesta angustia sarà la più vera tragedia del
pensiero del Machiavelli, ma lo scrittore non ne ebbe
chiara consapevolezza; la tragedia, in un certo senso,
si rivelò postuma alla genesi di quel pensiero, e fu
propria dei secoli successivi, che lungamente e
laboriosamente battagliarono per il riconoscimento della
politica pura, quale momento necessario, ma soltanto un
momento fra altri momenti, nella vita generale dello
spirito umano. Il «tutto è politica» di Machiavelli
doveva essere lo schermo di una polemica di cinquantenni
e cinquantenni per concludere che il solo modo di
moralizzare la politica è quello di riconoscere che la
politica non è tutto, e che accanto ad essa si muovono
molte altre forme di vita spirituale, feconde anch'esse
di buona politica soltanto perché autonome e
disinteressate. |