I
Promessi sposi e il loro significato nella letteratura
italiana
A guardare in fondo alle
anime degli eroi manzoniani delle tragedie, essi
propendono verso una riconquista della vita e non verso
la negazione totale di essa. Il cammino della fantasia
manzoniana dalle tragedie al romanzo è proprio in ciò:
dalla rivelazione subitanea alla comprensione luminosa,
dallo smarrimento di fronte all'oscuro del vivere
all'accettazione della legge del vivere,
dall'impossibilità di consistere nel mondo e dalla
necessità del morire alla giocondità e alla pienezza del
vivere.
Quando Manzoni compone i Promessi Sposi, sopra l'oscuro
del mondo, è piovuto ormai la luce della provvidenza: il
poeta oramai guarda alla realtà con occhi nuovi, e
intende la necessità delle contraddizioni e la santità
stessa dell'assurdo in mezzo al quale noi viviamo.
Voi ricordate quel che hanno scoperto gli eroi delle
tragedie: Marco ha scoperto che egli può trovarsi nella
condizione di tradire, o partecipare al tradimento di un
amico, e perdere d'un tratto tutte le più belle ragioni
della sua vita; il Carmagnola ha scoperto che si può
esser buoni, leali, generosi, forti e perire nella viltà
dell'agguato e del tradimento; Adelchi, ora, prima di
morire, scopre il «segreto» della vita dove non resta
che far violenza o patirla, ed Ermengarda, travolta come
canna al vento, rende, senza piegarsi ad esprimere la
legge, più terribile la presenza di quella legge di
assurdo dolore, che infrange, a lei, gentilissima ed
innocente, tutti i legami della tenera vita e la getta
nell'unica consolazione della morte e di Dio
promettitore di ineffabili conforti.
La scoperta degli eroi tragici è la scoperta stessa
della fantasia manzoniana: ora quella scoperta dovrebbe
gettare il poeta nella disperazione. Voglio dire che
poteva uscire da siffatta intuizione del mondo una
tragedia di tipo shakespeariano, una specie di urto,
come di colpi di maglio o di catapulta contro l'assurdo
e l'ignoto, contro il dolore che è per tutto, non ancora
sale o condimento della vita, ma segno del suo orrore e
della sua cecità. Ma noi sappiamo, e l'abbiamo visto nel
modo stesso di morire delle creature tragiche
manzoniane, dove propendeva la fantasia del poeta.
Scoperta la ferrea legge del mondo, essa si interiorizza
sempre più come norma e ritmo della realtà: soffrire o
far soffrire, ascendere o decadere, peccare o
santificarsi, è questa la necessaria legge del mondo.
L'oscuro, l'assurdo non certo si purifica o si
giustifica moralmente, ma si illumina come mezzo
indispensabile del muoversi e dell'attuarsi della vita.
È questo quel che si dice lo sguardo riposato, sicuro,
cogitabondo, fermo sulla realtà del Manzoni dei Promessi
Sposi, ma non ci si avvede che così si caratterizza una
fantasia, una ispirazione artistica, non una qualsiasi
conquistata saggezza di moralista.
La vita, il bene, l'amore non possono essere senza il
nulla, la morte, il male, il dolore e il peccato.
Soffrire e peccare sono dunque non il positivo, ma le
ragioni stesse dell'eterno positivizzarsi del mondo. Il
dolore, la pena che gli altri ci danno e che noi diamo
agli altri, la pena che è nel vivere stesso e che
dipende, e spesso senza responsabilità specifiche di
nessuno, dall'aggrovigliarsi assurdo delle vicende
umane, sono i componenti eterni di un ritmo di vita che
non avrebbe significato senza di essi. Il Manzoni che
guarda tutto questo da poeta e non da filosofo, non
scopre di certo il ritmo di dialettica necessità del
nostro ascendere morale, ma lo sente vivissimo e lo
colloca nella sua intuizione religiosa nel mondo.
La conclusione di Lucia è veramente il sugo della storia
e la rivelazione della ispirazione manzoniana; che « i
guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione;
ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a
tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o
senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende
utili per una vita migliore » (XXXVIII, 68), è
l'espressione in forma religiosamente mitologica e
popolare del sentimento stesso manzoniano. Vuol dire che
il vivere non può essere senza alternativa di bene e di
male, di giocondità e di dolori, di purezza e di peccato
e che esso va accolto nella sua legge necessaria e
immutabile. Quel che era buio ed orrido, ora si fa
lucido e accettato, quel che era assurdo acquista una
sua logicità, non perché - come tale - esso finisca di
essere assurdo, ma perché quell'assurdo medesimo è
sentito come una necessità ineluttabile ed accettato.
Dalle tragedie al romanzo non si passa dal pessimismo
all'ottimismo, non si giustificano il male e il peccato,
in quanto tali, ma si giustificano e si avvertono come
momenti, elementi eterni e necessari della vita; si
spiegano, si razionalizzano e infine si accolgono. Non
finiscono di esser tali, ma finiscono di essere il segno
pauroso di un assurdo inesplicabile. Vivere era sinora
correre incontro ai propri ideali, con la fede sicura
nella loro esclusiva positività: era l'ansia eroica di
Carmagnola, l'amicizia fiduciosa di Marco, l'anelito al
bene di Adelchi, l'amore e la gentilezza tutta riversata
in felici incontri umani di Ermengarda. Poi appare lo
schianto e la negazione di quel nostro volere operare il
bene e voler mutare la storia del mondo, e la
conclusione è che vivere cosi è impossibile, e non c'è
altra vita per noi che l'attesa e la speranza della
morte.
Ma, infine sull'abisso cade la luce, e tutto il
groviglio umano si ordina in una sua armonia dolorosa:
tutto quel che si oppone alla nostra virtù, tutto quel
che rende faticoso cotesto nostro transito pel mondo, il
male che noie gli altri commettiamo e patiamo, e che
spesso non basta la condotta più cauta ad evitare, ci
appaiono come l'eterna redenzione del nostro doloroso
destino, il significato, la ragione stessa del vivere.
Il vivere non è più il passare elegiaci e sparenti in
mezzo ad un mondo che nega le nostre idealità, ma
l'esperimento delle nostre idealità; proprio li in un
mondo che le nega, o le accetta o le corrompe: una
corruzione di cui spesso siamo partecipi pure noi
medesimi, quali che siano i nostri propositi. Vivere non
è più aspettare solo di morire, ma accogliere la legge
del mondo ed operare dentro di essa per il maggiore bene
di tutti: alla radice del nostro agire ci deve essere
non la negazione o il tedio del mondo, ma il suo
accoglimento. Adelchi ha scoperto la legge tragica del
vivere e la feroce forza che lo governa, e guarda remoto
quegli altri, - sopra tutti Carlo, che si reputa felice
nella vittoria, e, anche, il padre, che ora crede di
essere infelice e che invece è privilegiato, perché non
ha più possibilità di agire - senza invidia, anzi con un
estremo compatimento, e avverte il conforto ineffabile
del non-vivere: nel romanzo Adelchi si trasforma in
padre Cristoforo, nel Cardinale, nell'Innominato
redento, in tutti quelli che esercitano una forza di
bene con la coscienza insieme della propria debolezza e
delle forze che ad esso si oppongono perpetuamente, cioè
dei limiti che esso incontra dentro e fuori di noi, e
diventano tanto più alti poeticamente quanto più chiara
è la coscienza di codesti limiti. Siano creature
innocentissime, come Lucia, che cala cotesto sentimento
del mondo entro una fede religiosa pura e abbandonata,
siano creature esperte dei vizi umani e del valore, il
Cardinale, Cristoforo o il padre Felice, essi muovono
tutti da un medesimo sentimento del reale. Non c'è più
di qua il positivo, di là il negativo (e non, si
intende, come mera valutazione morale), c'è la vita con
le sue leggi, c'è Dio che ci ha messi a questa triste e
grande fatica, e bisogna essergli grati pel dolore che
ha disseminato sulla nostra via, non solo perché cosi si
redime quel tanto di dolore che noi procuriamo agli
altri, ma perché così noi avvertiamo la sua divina
presenza: e Dio qui è il segreto e la ragione della vita
stessa.
Che meraviglia che un siffatto sentimento del mondo si
dispieghi, nel concretissimo ,spettacolo del romanzo,
entro i modi e le forme di una particolare religiosità?
Il cattolicesimo manzoniano è avvertito nei Promessi
Sposi proprio in codesta necessità e provvidenzialità
del soffrire, ed è, in più, la trascrizione mitica del
sentimento manzoniano del reale: e la fede nella
provvidenza è la fede stessa dell'eterno comporsi dei
circoli della vita nelle sue armonie ristoratrici, e la
speranza in Dio è il prolungarsi nell'interno di quella
fede. Il cattolicesimo, il pietoso, comprensivo,
operante, eroico cattolicesimo dei Promessi Sposi è la
sublime metafora del sentire manzoniano, ovvero il suo
attuarsi nella concreta vita degli uomini, che fondono
nei loro miti le ragioni e le spiegazioni di cui
abbisognano per vivere.
Noi non tentiamo qui di infirmare, come qualche sbadato
o disattento potrebbe credere, il purissimo
cattolicesimo manzoniano dei Promessi Sposi, ma
semplicemente di cogliere in che modo esso si innalzi e
viva nella fantasia del poeta; giacché se la fantasia è
vuota senza il suo contenuto, poi quel contenuto è nullo
senza l'affiato di quella fantasia, e quando quel
contenuto è entrato nei suoi domini, non vi sta più per
sé, ma per la forma che vi assume. Perciò pure il
purissimo cattolicesimo manzoniano sta qui secondo la
legge della fantasia del poeta, vive di quel palpito, è
il segno più evidente ed aderente di quel particolare
sentimento della realtà che sorregge e domina tutta la
favola: che è, come abbiamo già detto, l'avvertimento
del reale nella necessità delle sue contraddizioni e
nella santità e provvidenzialità del suo muoversi e
svolgersi.
In codesta concezione l'ideale non è fuori del mondo e
non è una luce solitaria che trascorre nelle vie oscure
dell'universo: è nel mondo, anzi è il mondo nel suo
farsi, il mondo nel suo significare qualcosa. Questo è
quel che è stato detto il divino calato nell'umano o con
espressione più suggestiva la misura o il limite
dell'ideale, e cioè l'ideale fuori di ogni astrazione,
gettato entro lo stampo del mondo e conformato secondo
le sue esigenze e necessità. |